Ventotene

longopcidi Luigi Longo, confinato politico a Ventotene

Per ristabilire un minimo di verità storica sul confino di Ventotene, diventato immeritatamente e a colpi di fake news, il simbolo dei precursori dell’imperialismo UE, si propone quanto l’indimenticabile grande dirigente comunista Luigi Longo ha scritto nel suo libro Un popolo alla macchia a proposito dell’esperienza vissuta dagli eroici militanti (in gran parte comunisti) segregati nell’isola dalla dittatura fascista di Mussolini.

«Mentre tutto intorno crescevano e s’avvicinavano le fiamme della guerra, mentre nelle città e nelle campagne lavoratori, impiegati, professionisti e intellettuali si agitavano, si muovevano, premevano per avere pace e libertà, nelle carceri e nelle isole di confino italiane centinaia e migliaia di antifascisti si struggevano nella loro forzata inattività, tendevano ansiosamente l’orecchio a tutti i suoni, a tutte le briciole di notizia che giungevano dall’esterno, soffrivano crudelmente per le pene della patria e sentivano che presto, forse prestissimo, sarebbero stati chiamati a prendere in mano le sorti del paese e a tentarne l’estrema salvazione.


L’isola di Ventotene era come la capitale di questo mondo di captivi. Nella primavera del ’43 essa raccoglieva un migliaio circa di dirigenti e di umili militanti di tutte le correnti dell’antifascismo italiano. Eravamo finiti là provenienti da tutte le parti – molti dopo cinque, dieci e anche quindici e più anni di reclusione sofferta – prelevati dalle città e dalle campagne d’Italia perché sorpresi a parlare contro il fascismo e la guerra; reduci, noi garibaldini di Spagna e gli emigrati, dai campi francesi di internamento, dove eravamo stati rinchiusi allo scoppio della guerra. Ci affratellavano le comuni sofferenze, le stesse speranze e un uguale amore di libertà.

Due volte la settimana un battello congiungeva l’isola al continente: portava le provviste, qualche familiare e sempre nuovi confinati. Ma portava anche i giornali e le notizie dall’Italia. Scorrevamo avidamente i comunicati ufficiali, che cercavamo di completare e di arricchire leggendo tra le righe, ma; soprattutto, correvamo a scoprire le comunicazioni confidenziali, “illegali”, che ci arrivavano nascoste nelle pieghe di un vestito, nella copertina di un libro, nei “doppi” più impensati.

Con emozione indicibile seguivamo in quei giorni il corso della guerra, apprendevamo le rovine che si accumulavano nelle nostre città bombardate, salutavamo le prime manifestazioni di resistenza popolare alla folle politica fascista. Il sentire – come sempre di più sentivamo – la grande anima dell’Italia vicina a noi ci risollevava, ci riempiva di fierezza e di speranza. Erano lunghe serate di attesa, nelle tristi camerate della nostra deportazione: lunghi giorni di meditazione, dinanzi al mare d’Italia; un’impaziente preparazione alla lotta aperta, tempestata di presentimenti amari, di preoccupazioni non mai sopite per la sorte del nostro. popolo. Era la nostra vigilia immediata? Si giungerà in tempo? Si potrà evitare che il popolo venga defraudato dei suoi sacrifici e della sua riscossa? Si salverà l’Italia dal tedesco e da nuovi tradimenti?

Intanto non si perdeva il tempo. Ventotene non era soltanto l’isola di confino voluta dal fascismo, ma era anche, come ogni carcere e ogni altra isola di deportazione, un centro di formazione politica dei confinati e di direzione del movimento per la pace e la libertà all’interno del paese. Molti, tra coloro che salparono da Ventotene dopo la caduta del fascismo, lasciarono la vita sulle montagne o nelle segrete nazifasciste. Non per nulla gli antifascisti definivano, con una punta di scherzo e una di profonda serietà, “governo di Ventotene” il gruppo dei confinati. Tra Ventotene e il paese si svolgeva, soprattutto a mano a mano che la lotta si acuiva, un ricambio continuo e proficuo: il lavoro unitario dell’isola si rifletteva sui «fronti nazionali» dell’interno, e viceversa; avveniva uno scambio, un’osmosi incessante fra le esperienze di Ventotene – che non erano meramente teoriche, proprio perché operavano sulla realtà dei rapporti politici e umani tra i suoi “ospiti”, e influivano sulla ben più complessa realtà del paese – e quelle del continente.

Nonostante la sorveglianza, nessuno dei confinati rimaneva all’oscuro degli avvenimenti, e soprattutto delle considerazioni politiche che se ne potevano trarre. Per i comunisti ad esempio, Scoccimarro, Secchia, Li Causi, Roveda, Di Vittorio, io, elaboravamo ogni settimana un rapporto di informazione sulla situazione italiana e lo diffondevamo “a catena”, fino a toccare tutti i compagni dell’isola nel giro di cinque o sei giorni. Ognuno di noi si dava a passeggiare con due compagni, tirandosi appresso le guardie incaricate di pedinarci, le quali però si stancavano presto e finivano per mettersi a passeggiare e a chiacchierare tra di loro. Ciascuno dei due compagni, a sua volta, ripeteva la relazione che aveva udita ad altri due. Non si poteva certo giurare che il primo e l’ultimo contesto dicessero esattamente la stessa cosa; ma un orientamento, una qualche indicazione arrivava in questo modo, di certo, su tutte le questioni più importanti a tutti i compagni del confino».

Luigi Longo “Un popolo alla macchia” Editori Riuniti 1965