di Luca Cangemi, Associazione per la ricostruzione del Partito Comunista
Nell’ ottobre del 1965, cinquanta anni fa, inizia una delle più grandi (e poco conosciute) tragedie del XX secolo: viene organizzato un colpo di stato e scatenato un gigantesco massacro per riportare sotto l’assoluto controllo dell’imperialismo americano l’Indonesia e distruggere il Partito Comunista Indonesiano, in quel momento il partito comunista più grande del mondo dopo quello dell’Urss e quello cinese. L’esercito del golpista Suharto e, soprattutto, bande di fondamentalisti islamici uccisero, per mesi, con precisione nazista, sotto l’attenta e diretta regia della Cia e dei servizi segreti inglesi, uomini e donne in qualunque modo collegati e collegate all’organizzazione comunista e all’estesissima rete sindacale e di associazioni giovanili, femminili, contadine, culturali che si diramava in tutto il grande arcipelago, animando uno straordinario processo partecipativo. Intere generazioni di quadri comunisti, a partire da Aidit, il dirigente più prestigioso, di protagonisti della resistenza anticoloniale, di attivisti politici e sociali furono inghiottiti dalla macchina del terrore. Spaventose furono le modalità di tortura e di uccisione adottate.
Molti dei grandi alberghi di lusso della splendida isola di Bali, una delle località più note del turismo internazionale, furono costruiti, negli anni successivi, su gigantesche fosse comuni straripanti di cadaveri. Non mancò alla carneficina una curvatura razzista, con il particolare accanimento contro la grande comunità cinese. Fare il conto delle vittime è impossibile, certamente superarono di molto il milione, alcuni si spingono fino a quantificare l’atroce cifra di tre milioni di morti. Altrettanto difficile da valutare compiutamente il trauma profondo nel popolo indonesiano, quel terrore introiettato rispetto a qualunque impegno sociale da cui è partito il regista Joshua Oppeneimher, che su questa tragica storia ha prodotto due film recenti ed impressionanti “The act of Killing“e “The look of silence” .
La tragedia indonesiana oltre all’orrore, però, solleva problemi storici e politici di grande rilevanza ed attualità.
Essa intanto sottolinea il feroce attacco dell’imperialismo statunitense (ma in questo caso anche di quello britannico, impegnato contro il governo indonesiano sulla questione malese) contro quelle esperienze in cui i comunisti con una linea di alleanze politiche, di radicamento delle lotte e della partecipazione, di egemonia culturale, costruivano esperienze di cambiamento sociale e di affermazione della sovranità nazionale. Da questo punto di vista il parallelismo con la vicenda cilena, di qualche anno seguente, è impressionante. La determinazione dell’imperialismo contemporaneo di mobilitare le forze reazionarie più profonde delle società dei paesi subalterni e di scagliarle in avventure brutali, emerge non solo come motivo di denuncia politica e morale (comunque necessaria), ma anche come questione analitica dalle profonde implicazioni.
Più specificamente la tragica vicenda dell’Indonesia di cinquanta anni fa richiama l’attenzione su una questione oggi centrale: i rapporti tra imperialismo americano e fondamentalismo islamico.
Nel massacro dei comunisti in Indonesia (il più popoloso paese mussulmano del mondo, è utile ricordare) assistiamo, in forme inedite, ad una grande e studiata mobilitazione del fondamentalismo islamico contro i nemici dell’imperialismo.
Ovviamente i rapporti tra l’imperialismo degli Stati Uniti (e prima di quello inglese) e il fondamentalismo islamico, in particolare quello diffuso dai settori più feudali e reazionari non nascono, certo, nell’Indonesia degli anni sessanta. Basterebbe pensare all’antico rapporto tra Usa e dinasta saudita (che pratica e diffonde il wahabismo, una delle matrici principali del moderno fondamentalismo), stretto già prima del secondo conflitto mondiale, un rapporto fatto di petrolio ma anche di lotta all’influenza dell’URSS, al socialismo e ad ogni nazionalismo arabo, laico e progressista.
Nella vicenda indonesiana, dentro una linea di continuità storica, si compie però un salto di qualità: il fondamentalismo islamico viene utilizzato, incoraggiato, foraggiato, come fenomeno moderno in grado di costituire una base di massa e un nucleo generatore di feroce violenza, utile direttamente o indirettamente agli interessi imperialistici. In Indonesia negli anni sessanta nascono i prototipi dei Mujaheddin afghani antisovietici, benedetti personalmente da Zbigniew Brzezinski, e dei tagliagole contemporanei dello Stato Islamico.
Su questo bisognerebbe condurre una ricerca ed anche una polemica politico-culturale: disvelare le non innocenti mediatiche (ed anche accademiche) semplificazioni sull’Islam ed analizzare ideologie, pratiche relazioni e progetti del fondamentalismo sotto una luce nuova. Non tutto quello che scrive Edward Said, nei suoi celebri testi “Orientalismo” e “Cultura ed imperialismo”, è condivisibile dal punto di vista di una rigorosa analisi marxista ma è giusta e attuale l’esigenza di una critica all’orientalismo, cioè allo strutturale e ricorrente tentativo dell’imperialismo occidentale di costruirsi un Oriente a misura dei propri interessi e della propria volontà di dominio. Non c’è dubbio che l’estremismo jihadista di ambito sunnita, tanto più nelle sue espressioni terroristiche e “selvagge” rientri in questa costruzione. Una costruzione egemonica funzionale tanto sul piano dei rapporti di forza quanto su quello ideologico.
I circoli dirigenti più reazionari degli Stati Uniti (in connessione anche con settori europei ed israeliani) hanno costruito, nei decenni, sul fondamentalismo islamico sunnita una operazione di potere di straordinaria complessità in cui si intrecciano formidabili interessi economici incrociati (petrolio, armi, finanza) e comuni nemici ideologico- politico- strategici (ieri l’URSS , oggi la Russia , la Cina e l’arco sciita imperniato sull’Iran, sempre ogni forma, anche embrionale, di movimento di liberazione nazionale in Asia e Africa). Ma non bisogna guardare solo (l’essenziale ) aspetto immediatamente politico, il fondamentalismo islamico è anche perfettamente funzionale ad un nuovo e raffinato processo di “inferiorizzazione” dell’ Oriente, di costruzione di un universo culturale, che riaffermi per la sua stessa esistenza la superiorità della cultura occidentale e fissi un Oriente, dai contorni geopolitici modificabili di volta in volta, in un tempo mediatico e non storico, caratterizzato dalla barbarie.
Il fondamentalismo sunnita può dunque svolgere questo ambiguo ruolo di alleato prezioso sui campi di battaglia, nei circuiti finanziari, sui tavoli in cui si decidono le scelte energetiche globali e come nemico, altrettanto prezioso, nella battaglia per influenzare le opinioni pubbliche, per costruire un immaginario subalterno alle strategie imperialistiche.
Certo questo quadro è intessuto di contraddizioni, i mostri costruiti o favoriti possono trasformarsi in nemici dei loro padroni, per sempre o per una fase, dovunque o in alcuni luoghi. D’altro canto le società (in particolare quelle con una popolazione assai giovane e attraversate da processi di modernizzazione rapidi e devastanti) non sono esattamente laboratori in cui tutte le variabili possano essere sotto controllo. Il punto è però capire l’intenzionalità e la natura dei processi. E per capire il sorgere di un nuovo fondamentalismo islamico forse una analisi dell’attività degli apparati politico-militari degli USA e dei centri di “Area studies” (eredi degli studi Orientalisti di epoca coloniale) non è meno utile di qualche accurata ricerca antropologica.
La memoria della tragedia dei comunisti indonesiani, a cinquanta anni dai fatti, acquista quindi non solo il valore necessario di pieno riconoscimento storico di una esperienza straordinaria, brutalmente interrotta dalla violenza reazionaria, ma anche quello di portare alla luce questioni di lungo periodo con cui il mondo attuale fa ancora, drammaticamente, i conti.