Thatcher, Berlusconi… Monti di Manuela Palermi

di Manuela Palermi | da www.comunisti-italiani.it

monti thatcherQualcuno ha scritto che Monti può essere paragonato a Margaret Tatchter. Credo che ci sia una buona dose di verità in quest’affermazione. Ma ho visto, negli occhi dei più giovani tra noi, una certa meraviglia. Ho capito che non conoscevano la brutta storia per cui all’inizio degli anni 80, durante il suo primo mandato, Margaret Tatcher dichiarò una guerra senza quartiere ai sindacati.

Ho voluto allora ripercorrerla velocemente, un po’ troppo sommariamente se volete, e forse sbagliando perché gli anni della Tachter in Inghilterra e poi nel mondo hanno cambiato radicalmente i rapporti di forza tra le classi. Ma la cosa impressionante, riandando con la mente a quegli anni, sono le analogie profonde con l’Italia di Berlusconi e soprattutto di Monti. 
 

C’erano allora in Inghilterra i grandi scioperi dei minatori. La crisi del petrolio del 1973 aveva determinato in Occidente, di fronte ad un keynesismo storicamente finito, il trionfo della reazione neoliberale. Aveva vinto una visione tecnica dell’economia in una forma tutta ideologizzata di intendere la realtà. Il controllo dell’inflazione e la riduzione dei costi si riducevano alla negazione della sfera pubblica (“l’impresa, quella privata, funziona benissimo, l’intervento dello Stato malissimo), mentre la deregolamentazione diveniva un obiettivo di primo piano.

Non c’era analista politico che non insistesse perché le misure, considerate ancora insufficienti, aumentassero. Anche nel campo laburista e della sinistra moderata si faceva largo la convinzione che se si fosse andati fino in fondo, se si fosse compiutamente arrivati al trionfo dell’economia capitalistica, i benefici per il paese e per le masse sarebbero stati di enorme portata. Nei fatti si affermava una visione tutta ideologica dell’economia che a sua volta determinava una visione a priori della società.

E invece la tragedia storica di questi decenni di crisi (“la contraddizione strutturale del capitalismo”) è consistita nel fatto che la produzione prescindeva dai lavoratori, che l’economia di mercato non creava nuovi posti di lavoro. Un processo accelerato dalla concorrenza mondiale, dalle difficoltà finanziarie degli stati in tempi di crisi, dalla teologia neoliberale del libero mercato che agiva trasferendo l’occupazione dalla sfera pubblica a quella privata.

E’ qui che avviene il declino del sindacalismo – soprattutto del sindacalismo di classe la cui essenza è sempre stata la tutela dei posti di lavoro – indebolito dalla depressione economica e dall’ostilità dei governi neoliberali.

Allo stesso tempo, in un’epoca di depressione e di forte competitività mondializzata, la classe operaia si frantumava e gli interessi cominciavano a divergere; quelli che avevano un lavoro relativamente sicuro e quelli che non lo avevano; i lavoratori delle vecchie aree industrializzate, di radicata cultura sindacale, e quelli dei nuovi settori precari, senza tradizione di lotta. A questo aggiungiamo la nascita dei “nuovi movimenti sociali”, nettamente postmoderni, più attraenti per le classi medie ma del tutto antitetici rispetto alle classiche organizzazioni della sinistra e il riaffiorare di pulsioni neofasciste, razziste e xenofobe con ascendenti tra la classe lavoratrice.

Di questo scenario ne approfittò Margaret Thatcher per demolire ogni rivendicazione di stato sociale. La distruzione del sindacalismo di classe spianò la strada all’avvento delle politiche neoliberali che riuscirono in breve a realizzare un taglio pesante ai diritti sociali e del lavoro, a riconvertire interi settori industriali attraverso riorganizzazioni che riducevano l’occupazione, a privatizzare settori strategici dell’economia e soprattutto a deregolamentare, criminalmente, i mercati finanziari.

Una delle grandi scommesse della Thatcher fu la riforma profonda della legislazione del lavoro, in particolare di una serie di leggi che colpivano direttamente l’essenza, il funzionamento e l’iniziativa dei sindacati.

Le mobilitazioni che c’erano state dall’inizio degli anni 80 toccarono l’apice nel 1984 con lo sciopero generale di più di un anno del sindacato nazionale dei minatori contro la chiusura delle miniere e il licenziamento di migliaia di lavoratori.

Gli scioperi e la fermezza dei sindacati furono combattuti e piegati attraverso una campagna propagandistica di diffamazione da parte dei media. Non c’era spazio per una pluralità di opinioni e quand’era concessa veniva pubblicamente derisa o criminalizzata. E contemporaneamente veniva scatenata un’azione giudiziaria che continuava l’opera di restrizione dei diritti sindacali iniziata dalla Thatcher e una repressione brutale con l’introduzione di controverse tecniche poliziesche. La strategia riuscì a dividere il movimento operaio organizzato elargendo privilegi notevoli ai sindacati “più vicini”.

Il colpo di genio della Dama di Ferro fu quello di rappresentarsi come garante dell’ordine, come difensora della gente povera e sfruttata vittima delle troppe regole (i lacci e i laccioli), come l’unica in grado di liberare il paese da decenni di dominio di parassiti super pagati grazie ai soldi dei contribuenti. Era l’antipolitica, era il j’accuse alla casta, era il corpus ideologico del neoliberismo che i sindacati e la sinistra politica non furono capaci di contrastare.

“I marxisti volevano sfidare le leggi del paese con l’obiettivo di sfidare le leggi dell’economia. Fallirono e, così facendo, dimostrarono fino a che punto è forte e imprescindibile il legame tra una libera economia ed una libera società. E’ una lezione che nessuno dovrebbe dimenticare”. Parola di Milton Friedman.

Se ho deciso di scrivere questo breve riassunto di un pezzo di storia, è da una parte per sottolineare le analogie con l’Italia di oggi e degli ultimi vent’anni, dall’altra perché sono convinta che la sinistra italiana deve ritrovare una lucidità di analisi che ha perso. Troppo spesso chiusa in se stessa, troppo spesso attenta a trovare il nemico nelle proprie fila, sembra aver smarrito il senso della classe e non s’è accorta che la storia è un campo di battaglia dove i perdenti di tante guerre hanno sparso molto sangue. Ripercorrere le tappe di alcune di quelle battaglie è un modo per comprendere ciò che accade e per non essere noi i primi boia delle nostre debolezze e dei nostri errori.