Suez 1956

nasser discorsodi Spartaco A. Puttini per Marx21.it

Sessanta anni fa (il 29 ottobre del 1956) cominciava l’aggressione anglo-franco-israeliana all’Egitto nasseriano, passata alla storia come guerra di Suez o campagna del Sinai.

La guerra del 1956 rappresentò la precipitazione di un lungo braccio di ferro tra l’Egitto e le potenze occidentali. Sin dal colpo di stato militare del 1952 gli Usa avevano tentato di fagocitare il paese arabo nella loro orbita a spese della traballante influenza britannica. Le pressioni per inserire Il Cairo nel sistema di patti militari con cui Washington voleva accerchiare e “contenere” l’URSS non avevano però sortito effetto e il regime degli Ufficiali liberi aveva mostrato con sempre maggior vigore la maturazione di convinzioni che, da un semplice nazionalismo, si coloravano di tinte panarabe e antimperialiste. Inclinazioni che mettevano l’Egitto e l’imperialismo occidentale, nelle sue diverse gradazioni, in rotta di collisione.

Le pressioni per far desistere Nasser dalla strada che aveva intrapreso sortivano sistematicamente l’effetto opposto. Nel 1955, dopo gli scontri di frontiera con Israele nei pressi di Gaza, gli Usa rifiutarono di fornire armi all’Egitto se questi non avesse rivisto la propria politica estera allineandosi all’Occidente. Per tutta risposta Nasser sostenne l’inserimento del suo paese nel blocco afro-asiatico di Bandung e divenne uno dei principali leader del movimento dei non allineati.

La questione della difesa egiziana venne risolta ricorrendo all’apertura nei confronti dell’Unione Sovietica. Per la prima volta una potenza del Vicino oriente che fino a poco prima era stata una semi-colonia occidentale importava armi dall’URSS rompendo il monopolio occidentale nel mercato di approvvigionamento delle armi. Con tutte le conseguenze politiche del caso. Nel giro di qualche mese arrivò la ritorsione del Dipartimento di Stato USA, consistente nel non concedere gli aiuti finanziari promessi per la costruzione della diga di Assuan, un progetto di modernizzazione ciclopica del paese arabo voluto fortemente da Nasser. Questa ritorsione rientrava in un pacchetto di misure noto come “piano Omega”, progettato dall’Amministrazione Eisenhower per addomesticare l’Egitto [1]. Sempre dallo stesso piano sarebbe emersa in seguito la dottrina Eisenhower che puntava sull’Arabia Saudita per contendere al Cairo il ruolo di guida del mondo arabo e per contenere le correnti laiche e nazionaliste che spiravano sulla regione indebolendo l’influenza occidentale. Una delle conseguenze più durature della crisi di Suez. Ma Nasser non intendeva chinare la testa. Da autentico nazionalista non poteva tollerare la politica ricattatoria dell’Occidente, che facendo leva sulla minorità economica del paese voleva determinare la politica egiziana, svilendone la sovranità. L’Egitto non desistette e rilanciò la sfida nazionalizzando nel luglio del 1956 la compagnia che gestiva il traffico lungo la vitale arteria del canale di Suez. Compagnia che era controllata dalla Gran Bretagna e, in misura minore, dalla Francia. Per quanto sia celebre, vale la pena di riportare alcuni dei passaggi del discorso con cui Nasser annunciò la sua decisione, che aprì ufficialmente la crisi di Suez.

“Cittadini, oggi entriamo nel quinto anno della nostra rivoluzione. Abbiamo trascorso quattro anni di lotta; abbiamo lottato per cancellare le tracce del passato, dell’imperialismo e del dispotismo, dell’occupazione straniera e della tirannide interna […] L’imperialismo tenta di minacciare il nostro nazionalismo, indebolendo l’arabismo e tentando di separarci con tutti i mezzi […] Oggi non vogliamo più ripetere il passato. La Compagnia per il Canale di Suez era divenuta uno Stato nello Stato […] Elimineremo il passato riguadagnando i nostri diritti sul Canale di Suez. Questi soldi sono nostri e questo Canale appartiene all’Egitto. […] Quest’anno, sui cento milioni di dollari che il Canale ha fruttato, l’Egitto ne ha avuti tre; il nostro denaro non andrà più all’estero; il nostro denaro servirà per la Grande Diga […] Il canale di Suez deve servire al benessere dell’Egitto, non al suo sfruttamento. Veglieremo sui diritti di ciascuno […] In Egitto non esisterà altra sovranità che non sia quella del popolo egiziano; un popolo che avanza compatto contro tutti gli aggressori e le congiure degli imperialisti sulla via della costruzione e dell’industrializzazione. Realizzeremo una gran parte delle nostre aspirazioni e costruiremo effettivamente il nostro paese, poiché non esiste più nessuno che si possa ingerire negli affari dell’Egitto. Oggi siamo liberi e indipendenti.”

A quel punto la sfida portata da Nasser apparve agli occhi dei declinanti imperi coloniali francese e britannico come mortale. Il sostegno alla causa dell’indipendenza dal colonialismo e l’avversione all’imperialismo da parte del governo del Cairo si sostanziavano nell’appoggio alla guerra di liberazione del popolo algerino contro l’occupante francese e nella solidarietà alla causa palestinese.

Con le sue scelte di campo antimperialiste Nasser si era attirato l’ostilità decisa delle potenze coloniali tradizionali (Gran Bretagna e Francia), che erano sulla via del tramonto, del vicino Israele e, appena un po’ più in ombra, degli Stati Uniti. Per quanto i circoli di potere statunitense detestassero Nasser, vedendo nella sua politica con sempre maggior convinzione un elemento antagonistico alle loro mire in Medio oriente, non potevano appiattirsi sull’oltranzismo anglo-francese. Non potevano correre il rischio di alienarsi le simpatie del Terzo mondo dato che erano impegnati in una difficile gara d’influenza con l’Unione Sovietica alla periferia del sistema capitalistico.

Fu da subito evidente a tutti che la posta in gioco andava ben oltre il controllo del Canale (di per sé comunque importante) ed investiva in pieno il futuro della presenza e dell’influenza dell’Occidente in Medio Oriente e nei paesi di nuova indipendenza. L’esempio di Nasser rischiava di essere contagioso e andava ridimensionato. Meritava una lezione: come osava sfidare apertamente i padroni bianchi? Così l’opinione pubblica occidentale cominciò a essere inondata da una valanga propagandistica che sarebbe presto divenuta famigliare: Nasser, che fino a qualche anno prima era stato dipinto come un leader coraggioso, capace di affrontare il fanatismo della setta integralista della Fratellanza musulmana, divenne una sorta di feroce Saladino pronto a brandire la spada dell’Islam per riunificare il mondo islamico e minacciare l’Occidente, una sorta di Hitler mediterraneo.

In Italia l’ascesa delle correnti neutraliste e filoarabe mitigava queste spinte, che comunque emersero con una certa nettezza sulle testate più atlantiste: dal “Corriere della Sera” alcuni editoriali disegnarono il risveglio del mondo arabo come una minaccia vitale. Il Fronte di Liberazione Nazionale algerino, si poteva leggere, sostenuto da Nasser presto avrebbe rivendicato Marsiglia e, perché no, Poitiers [2]. Si può ridere oggi di tali assurdità, a patto di non vedere quelle che ci vengono propinate quotidianamente.

Quando Israele attaccò l’Egitto il 29 ottobre 1956 sulle prime si pensò a un riaccendersi degli scontri di confine. L’avanzata in profondità delle colonne corazzate israeliane nella penisola del Sinai però suggerì che ci si trovava di fronte ad una guerra vera e propria. Poco dopo, con la scusa di difendere il Canale di Suez, a cui Londra e Parigi non avevano rinunciato, Gran Bretagna e Francia lanciarono un ultimatum ai contendenti e iniziarono a bombardare… l’Egitto. Era una strana azione militare di contenimento dei rischi del conflitto quella che prendeva come bersaglio l’aggredito e non l’aggressore, come si notò con malizia anche all’epoca, da più parti[3].

La collusione tra i tre aggressori dell’Egitto emerse con chiarezza e fu più tardi accertata in sede storica, in quelli che vennero chiamati accordi di Sèvres.

La guerra terminò quando la ferma presa di posizione dell’URSS e l’impossibilità degli Usa di sostenere gli aggressori, le cui iniziative vennero giudicate da Washington controproducenti per l’influenza occidentale nella regione, lasciarono Ia coalizione anti-egiziana scoperta e costretta a desistere. La popolarità di Nasser crebbe ancor di più e una nuova ondata di emancipazione nazionalista scosse il Vicino oriente negli anni immediatamente successivi.

L’imperialismo utilizza diverse maschere e i suoi modi e la sua propaganda sono oggi certamente più sofisticati e pervasivi di quanto non fossero nel 1956. Non sempre i suoi passi sono maldestri come quelli anglo-francesi a Suez. Ma la brutta bestia resta sempre la stessa e ha la memoria lunga per ricordare chi ha osato sottrarsi al suo dominio, sa tenerlo a lungo nel proprio mirino, anche quando tende la sua mano e parla con lingua biforcuta. Lo si è visto in questi anni in Libia e in Siria. La sua memoria non impedisce però alla bestia di ricorrere ai soliti trucchi, all’arte del bluff o al gioco delle tre carte. Mentre finanziavano il jihadismo in tutti questi ultimi decenni gli Usa hanno gridato al pericolo del terrorismo globale, giocando a fare il pompiere piromane. L’intervento della Russia in Siria ha fatto cadere molte maschere: quelle del loro sostegno alle bande di tagliagole che hanno distrutto la Siria su tutte. Da quale parte stia il gendarme statunitense lo si è visto con i fatti Deir ez-Zor, quando gli Usa hanno bombardato le postazioni dell’Esercito Arabo siriano, cioè della principale forza che combatte l’Isis sul terreno.

Una volta nell’opinione pubblica erano sicuramente più presenti le voci di una sensibilità antimperialista che poi è andata smarrita. Ma ci sono piccoli segnali che oggi, nonostante il coma irreversibile della sinistra radicale, la notte, almeno da questo punto di vista, stia forse per passare.

NOTE

[1] D. De Luca, Fuochi sul Canale. La crisi di Suez, gli Stati Uniti e la ricerca di una nuova politica in Medio oriente, 1955-1958; Milano, M&B 1999
[2] A. Guerriero, Illusioni e calcoli di Pineau, in “Corriere della Sera”, 5 aprile 1956
[3] “Corriere della Sera”, 31 ottobre 1956