Un capitolo del libro di Luciana Viviani, scomparsa ieri all’età di 94 anni, “Rosso antico. Come lottare per il comunismo senza perdere il senso dell’umorismo” (Giunti editore, 1994). La Viviani racconta la difficile campagna per il referendum istituzionale del 1946 a Napoli. Interi quartieri, di composizione perlopiù sottoproletaria, erano “off-limits” per i comunisti, che di fatto non potevano accedervi. Solo l’essere figlia del grande Raffaele Viviani consentì invece a Luciana di tenere il suo comizio, “scortata” dallo stesso boss del quartiere. Sarà solo grazie al lungo lavoro di radicamento svolto dai militanti del PCI – anche attraverso la straordinaria esperienza del Comitato per la salvezza dei bambini di Napoli, di cui la Viviani fu tra le promotrici – che anche quei quartieri della città diventeranno luoghi in cui i comunisti potranno muoversi agevolmente, sempre più anzi riconosciuti come punti di riferimento delle lotte popolari.
SCIAQUARIELLO DEL QUARTIERE MERCATO
Squilla il telefono. Chiamano mio padre: “Commendato’, quella Luciana Viviani che deve oggi venire a parlare a Mercato è vostra figlia?”. La domanda è quasi retorica. “Perché non la convincete a restarsene a casa?”
Segue un’imbarazzata pausa di silenzio, poi la risposta: “Non mi intrometto nell’attività politica di mia figlia”.
L’uomo che ha chiamato al telefono è Pasqualino Gallifuoco, conosciuto in famiglia per essere un appassionato ammiratore dell’arte di Viviani, un’ammirazione che manifesta con l’assidua presenza nel camerino del teatro nei periodi in cui l’artista recita a Napoli, con la collezione di tutto quello che parla di lui, con l’offerta insistente dei suoi servizi e financo, quando non si riesce a prevenirlo, con l’invio di trofei di frutta scelta e di “spaselle” di pesce fresco nelle feste comandate. Di tanto in tanto, alle lettere che invia ai teatri della penisola dove la compagnia di mio padre sosta nelle annuali tournée teatrali, il nostro acclude qualche saggio della sua segreta vocazione poetica.
Insomma, Pasqualino è quello che oggi si definirebbe un fan, un fan che coltiva questa sua passione quasi come una religione, e sotto quella veste si è conquistato in casa nostra uno spazio di cordiale amicizia.
Questa chiamata telefonica, però, ce lo rivela per la prima volta con un’altra faccia: quella di “Sciacquariello”, soprannome con cui lo conoscono nel quartiere. Scopriamo infatti che è un camorrista, gestore di una piccola azienda di trasporti, ma solo come copertura, in verità assai trasparente, al traffico nel mercato nero all’ingrosso, tant’è vero che conosce a strada di Poggioreale meglio di quella di casa sua; e che, in queste tumultuose giornate del maggio 1946, si è prestato temporaneamente alla politica.
La campagna elettorale per il referendum istituzionale è in pieno svolgimento. La causa monarchica ha fatto esplodere un’infuocata passione politica, sia nei quartieri alti della città, dove i galantuomini, nobili o borghesi, danno nuova voce alla mai sopita nostalgia per il “glorioso” passato di Napoli, grande capitale di un regno, sognando così una rivalsa contro il Nord repubblicano; sia, e più ancora, nei quartieri popolari, dove, come un ciclone inarrestabile, si grida gran voce il proprio attaccamento al re, alla regina, ai principino, ai cortei reali con carrozze e cavalli, alle feste favolose nei sontuosi saloni del palazzo reale. Chi altro se non il re ha l’autorità di comandare? Chi altro ha il potere di mettere ordine nel caos provocato dalla guerra e dall’occupazione americana? Chi alto potrà tendere la mano alla povera gente?
Su questo terreno fertilissimo si impianta l’organizzazione politica del partito monarchico, con lo scopo dichiarato di sbarrare il passo con tutti i mezzi, leciti e illeciti, alla sparuta pattuglia repubblicana che temerariamente tenta di conquistarsi uno spazio nelle strade e nelle piazze della città e, ciò facendo, di mandare un messaggio di vittoria ai monarchici sparsi numerosi su tutto il territorio nazionale.
A questo scopo vengono ingaggiati uomini come il nostro Pasqualino Gallifuoco: uomini che hanno un’autorità conquistata sul terreno della lotta della sopraffazione illegale contro la sopraffazione legale, che sanno tener testa alla legge e agli “spioni di polizia”, che sono già capi riconosciuti e temuti. I nemici del re devono sapere che, se si azzardano a mettere piede nei quartieri posti sotto la loro protezione, lo fanno a loro rischio e pericolo.
Il quartiere Mercato, dove il pomeriggio di quella giornata è annunciato per l’appunto il mio comizio, cade proprio sotto la protezione di Sciacquariello, il cui punto d’onore personale è quello di dichiarare che mai nessuno di quei repubblicani ha osato varcare i confini della sua zona.
Quando legge il mio nome sul manifesto, il suo primo pensiero è quello di lanciare, con la telefonata a mio padre, un avvertimento amichevole, e spera nell’efficacia di questo deterrente dissuasivo. Non immagina, evidentemente, che a Napoli quelli che come me si battono per la repubblica sono una minoranza esigua, ma fortemente motivata e decisa, in tutto e per tutto, a far trionfare la propria causa.
Fino a che punto lo si vedrà quando, di lì a un mese circa, alcuni repubblicani comunisti, tra cui io stessa, rischieranno di fare la fine degli sventurati seguaci di Carlo Pisacane nella spedizione di Sapri; quando cioè, barricati nella sede del PCI napoletano, si rifiuteranno di ammainare la bandiera repubblicana issata sul balcone della federazione, a fianco di quella rossa del Partito, per festeggiare la vittoria del 2 giugno e perciò saranno assediati e aggrediti da una massa inferocita di popolani monarchici armati di fanatismo e non solo di quello.
E proprio come una nipotina di Pisacane mi sento io quel pomeriggio del comizio a Mercato: sono appena arrivata a Napoli chiamata da Milano, dove fino ad allora ho respirato “il vento del Nord” e mi sono rinforzata nelle mie certezze rivoluzionarie conquistate nella Resistenza romana.
Al pari di Pisacane, l’ostilità che le mie parole incontrano nei poveri “bassi” napoletani mi fanno sentire un’estranea nella mia città, ma rafforzano la mia ostinazione salvifica. Non riesco proprio a capire perché la povera gente voglia il re, sono troppo sicura io delle mie ragioni a favore della repubblica.
Racconto dunque al segretario della federazione la telefonata-avvertimento di Sciacquariello. Egli conosce la pericolosità dell’individuo, perciò concordiamo misure di protezione aggiuntive: oltre alla scorta dei due compagni operai che sempre mi seguono nelle spedizioni più difficili, per quel giorno godrò anche dell’uso dell’unica macchina della federazione per consentirmi una fuga più rapida in caso di pericolo.
Una vigilia di tensione anche per una come me che, a causa del mio esser donna e del portare un cognome che suscita affetto e ammirazione nel cuore della gente, sono una punta avanzata nello schieramento degli oratori repubblicani. A una donna, si pensa, risparmieranno almeno le aggressioni manuali e il lancio di pietre, bottiglie e quant’altro. La consegna poi comune a tutti gli oratori, di parlare in ogni caso, anche se le parole fossero sommerse dai tumulti dei presenti con me non funziona bene a causa della mia voce squillante e della mia improntitudine.
Quando, all’ora fissata, la macchina si ferma in piazza Garibaldi, all’angolo della via che introduce nel quartiere, ad attendermi trovo proprio lui, Pasqualino Gallifuoco, circondato da un gruppo di uomini.
Mi apre lo sportello dell’auto, mi mette in mano un fascio di bellissime rose rosse, mi saluta con la cordialità che gli conoscevo nelle frequentazioni teatrali e mi invita a seguirlo. Io, di conseguenza, mi metto tranquilla; non così però i miei due accompagnatori, che hanno subito riconosciuto il “boss” monarchico e conoscono di fama i metodi sbrigativi del suo agire politico. Come me comunque, lo seguono in attesa di capire quello che sta succedendo.
Nello slargo dov’è annunciato il comizio, la folla si accalca silenziosa. Sulle teste delle donne, degli uomini, dei numerosissimi bambini si erge un’altra selva di teste: sono i ritratti di Umberto, il re di maggio, riprodotti su una miriade di manifesti colorati incollati su cartone pesante e sorretti da bastoni di legno grezzo che le reggono, appunto, al di sopra delle teste dei suoi sostenitori.
Lo spettacolo non mi stupisce: ovunque andiamo troviamo ad attenderci quei due ordini di teste, compatte perché ogni creatura, o quasi, regge un bastone. Ma questa volta ci stupisce il silenzio, questo sì innaturale, abituati come siamo al coro assordante di “Umberto, Umberto”, a quello scudo cioè di voci umane che ha lo scopo di spegnere le nostre parole.
Al passaggio di Pasqualino, che guida il nostro insolito corteo, la folla si apre come a un comando. E questo fino all’ingresso di un portoncino che immette in una scala stretta e ripida. Capisco allora che mi è stato assegnato un balcone: una condizione di grande privilegio, abituati come siamo, noi comunisti, a dover parlare chiedendo in prestito una sedia a una bottega oppure, di fronte a frequentissimi rifiuti, arrampicandoci su qualche muretto o utilizzando qualche fortunosa gradinata.
In questi comizi si parla ovviamente a voce nuda, ma su quel balconcino trovo persino un microfono. “Parlate” mi dice Pasqualino, che si mette al mio fianco reggendo in bella mostra il bouquet di rose che lui stesso poco prima mi ha donato.
Le migliori condizioni per svolgere intiero il mio schema di comizio a favore della repubblica ci sono tutte e quindi mi avvio a parlare. Contro le teste di Umberto, immoti manichini, rimbalzano le accuse a Vittorio Emanuele III fuggito a Pescara per mettersi in salvo abbandonando allo sbaraglio i suoi sudditi, le responsabilità di una dinastia complice della dittatura e della guerra, il soffio rinnovatore di un istituto democratico come quello repubblicano, che conferisce il potere non agli “unti del Signore” ma agli eletti del popolo.
Parlo per un’ora e più, con voce tonante e dando fondo a tutte le mie risorse tribunizie. Quando le mie parole si spengono sull’ultimo appello, il silenzio nella piazza si fa ancora più pesante. Pasqualino mi riconsegna i fiori, guida il piccolo corteo che ripercorre la strada fino all’automobile, mi apre lo sportello e mi saluta: “Portate i miei rispetti a vostro padre”.