di Domenico Moro | da Pubblico
Un filosofo tedesco ha osservato che la differenza tra l’ape migliore e un qualunque architetto sta nel fatto che questo ha sempre prima nella testa ciò che vuole costruire, cioè ha un progetto. Oggi, l’economia italiana ed europea appare piena di api impazzite e priva di architetti. Al contrario, Enrico Mattei e molti uomini del suo tempo erano architetti con un chiaro progetto. Il fine era permettere lo sviluppo dell’Italia. Il mezzo era conseguire l’autonomia energetica, con la costruzione di una potente impresa energetica nazionale. Mattei, nel 1945 inviato dal governo a dismettere l’Agip, ne fece la base dell’Eni, che oggi è una delle prime aziende petrolifere mondiali e che fu la protagonista del “miracolo economico” italiano. A quel tempo, il prodotto nazionale raggiunse ritmi di crescita che ora definiremmo quasi cinesi, in media +6,7% tra 1947 e 1961 e +7,5% tra 1958 e 1961, riportando l’Italia ai livelli dei Paesi più sviluppati del mondo. Eppure, si trattò di un esito tutt’altro che scontato.
L’economia italiana, dopo le ristrutturazioni della crisi degli anni ’30 e l’autarchia fascista, alla fine della guerra era dominata da una decina di grandi holding. Il mercato era caratterizzato da oligopoli e cartelli che tenevano artificialmente alti i prezzi, garantendo alti profitti ai grandi gruppi ma frenando lo sviluppo. La struttura industriale era o tecnologicamente arretrata o con una base quantitativa ristretta. Lo squilibrio tra Nord e Sud aveva raggiunto il massimo livello. A cambiare le cose intervenne una grande trasformazione della struttura produttiva. Il ruolo decisivo fu svolto dall’intervento diretto dello Stato nell’economia, specialmente nei settori strategici della siderurgia e dell’energia, che dovevano rifornire a basso costo l’industria. Sebbene l’aiuto dello Stato fosse ben accetto da tutti, il modo in cui venne portato avanti da Mattei e dalle forze politiche che lo sostenevano era criticato dalla Confindustria, dai settori monopolistici italiani e dalle major anglosassoni che controllavano il mercato petrolifero italiano. La polemica fu dura anche all’interno della Dc, dove La Pira e Gronchi, fautori dell’intervento statale, si scontrarono con Sturzo, che difendeva ad oltranza le posizioni dell’iniziativa privata. L’orientamento statalista, affermatosi con la creazione del ministero delle partecipazioni statali (1956) e l’elezione di Gronchi a Presidente della Repubblica, si basava sulla programmazione economica, nella quale la politica industriale ed energetica erano centrali. Mattei fu il perno di questo progetto, essendo il principale stratega ed attuatore di questa nuova linea. Il suo impegno si incentrò su tre direttrici: l’acquisizione e il risanamento di imprese in funzione dell’integrazione verticale, l’antimonopolismo e l’anticolonialismo. Nel 1954 Mattei salvò la Nuovo Pignone di Firenze, capendo la convenienza di produrre in casa le attrezzature per l’industria petrolifera. La Nuovo Pignone diventerà profittevole e in grado di vendere tecnologia persino alle major petrolifere. Decise anche la diversificazione nella chimica, acquisendo il Gruppo Tessile Lanerossi, e l’Eni passò da compagnia petrolifera di Stato a pezzo importantissimo dello stato imprenditore. Nel 1952 fondò l’Agipgas, entrando nel mercato del gas liquido per uso domestico e attaccando il cartello che manteneva alti i prezzi, escludendo molti potenziali consumatori. Agipgas ridusse i prezzi del 12%, portò i suoi utenti a tre milioni e sviluppò nuove tecnologie. Con l’Anic Mattei ruppe anche il monopolio della Montecatini nella chimica. A causa dei prezzi di cartello l’uso dei fertilizzanti era ridotto e l’agricoltura italiana era tra le più arretrate in Europa. A Ravenna fu costruito il più importante stabilimento di gomma sintetica e fertilizzanti d’Europa e i prezzi si abbassarono del 15%. L’esempio più eclatante fu però quello dei carburanti, sottoposto al monopolio dei produttori stranieri. Tra 1959 e 1961 con la politica dello sconto l’Agip ridusse il prezzo della benzina del 25%. Mattei andò a prendersi il petrolio nel terreno di caccia delle major petrolifere in Medio Oriente, dove seppe inserirsi nel processo di decolonizzazione, prevalendo grazie ad accordi di compartecipazione con i Paesi partner, che così potevano sviluppare proprie capacità imprenditoriali. Mattei affermò che il colonialismo andava combattuto anche in Italia, con un chiaro riferimento al monopolio straniero nel petrolio e alla situazione del Mezzogiorno colonizzato dal Nord. Infatti, parte notevole degli investimenti dell’Eni, spesso di carattere avanzato come la Pignone Sud, fu diretta al Mezzogiorno. La strategia di Mattei si fondava su due principi. Il primo consisteva in una forte autonomia non solo dell’Eni, ma dell’Italia intera, visto il carattere politicamente sensibile del settore energetico. Mattei, fino al momento della tragica morte, lottò per difendere questa autonomia da spinte conservatrici di provenienza non solo internazionale ma anche interna. Il secondo era basare l’intervento dello Stato su criteri di efficienza, che non dovevano scindere la funzione sociale da quella produttiva. Negli ultimi decenni l’intervento statale in economia è stato screditato perché ai criteri iniziali e propri di Mattei se ne sono sostituiti altri. Le risorse statali, anziché essere destinate agli investimenti produttivi che creassero ricchezza e posti di lavoro, sono state subordinate agli interessi privati. La stessa programmazione alla fine fu abbandonata e sostituita dall’assistenzialismo. Ciononostante, l’opera di Mattei e dello Stato imprenditore ha avuto effetti positivi permanenti. Tra 1986 e 2001, ha scritto Mucchetti, le quattro maggiori imprese statali quotate in borsa avevano aumentato il loro valore di 173mila miliardi di lire, mentre le prime otto private avevano bruciato ricchezza per 28mila miliardi. In particolare l’Eni era cresciuta di 66mila miliardi, mentre la Fiat aveva perso 27,5mila miliardi. Oggi, dopo più di venti anni di critiche allo Stato imprenditore e di privatizzazioni, i risultati non sono stati quelli attesi e l’economia italiana per certi versi assomiglia a quella del dopoguerra: prezzi di monopolio, centralizzazione proprietaria, contrazione della base produttiva e dell’occupazione e ritardo tecnologico. Forse sarebbe il momento di riprendere l’esempio di Mattei, che dimostrò non solo che lo Stato imprenditore può operare con criteri di efficienza, ma anche che è in grado di innovare e modernizzare come nessun altro.