riceviamo e pubblichiamo
di Maria Morigi
Nel marzo del 2001 furono fatte saltare con cariche di esplosivo le due gigantesche statue dei Buddha di Bamiyan. Una metafora e una conferma del fatto che, nella lotta tra Impero del Bene e Impero del Male, chi vince sono sempre le bande armate e i signori della guerra, da chiunque siano prezzolati, in qualsiasi grande maneggio e gioco diplomatico siano coinvolti. Anche le vittime sono sempre le stesse: civili, povera gente, territorio e patrimonio.
La Valle di Bamiyan si trova circa a 220 km a Ovest di Kabul. Era una tappa della antica Via della Seta.
Nel costone di roccia che domina la valle, monaci e fedeli buddhisti crearono uno straordinario complesso di culto, a partire dal I–III secolo circa, quando i sovrani Kushan si fecero promotori del Buddhismo. Per le carovane che sostavano nella valle dopo l’attraversamento dei passi montani, l’effetto era stupefacente, confortante ed accogliente: le statue si vedevano da chilometri di distanza. La parete rocciosa, perforata come un enorme alveare, ospitava celle di monaci, alloggi per i pellegrini, passaggi, archivi e biblioteche, circa 750 cappelle votive.
E non si dimentichi che ai piedi di quei Buddha passarono, senza scalfirli, le armate di Genghis Khan…
Molto si è detto e scritto sui perché della distruzione dei Buddha. Ma quello che più impressiona non è tanto la violenza verso la cultura del Buddhismo – ormai globale all’epoca, abbracciata da sovrani, popoli e mercanti – quanto la cecità dell’iconoclastia: poiché questo gesto del distruggere è legato alla vista, cioè all’incapacità -da parte dei fondamentalisti- di vedere il senso del passato insieme alla possibilità di essere visti. Quasi una paura di affrontare ad armi pari ciò che si ignora o non si comprende. Paura che tenta di rimuovere e annullare ciò che rappresenta una minaccia troppo silenziosa e troppo antica.
Gli occhi del Grande Buddha Vairocana (Il Grande Luminoso) dominavano infatti l’intera valle, potevano, nella realtà e nella metafora, penetrare, tenere sotto controllo ogni dettaglio del paesaggio e gli uomini che vi si muovevano, fino all’orizzonte. Nella testa della statua erano scavati cunicoli e gallerie che, all’altezza degli occhi, si aprivano proprio come una finestra sul mondo. Anche il costone roccioso è disseminato di aperture, celle e altari affacciati nel vuoto, quasi innumerevoli occhi… quel tanto per mettere in difficoltà chi non vuole essere guardato e preferisce l’oscurità alla luce simbolica dell’ Illuminazione buddhista.
Tanto è vero che gli studenti coranici, descritti all’opera su pick-up e moto Toyota, si fecero fotografare tutti con gli occhiali Rayban, a specchio, molto alla moda. Ci si può figurare la loro insofferenza ad essere sempre ineluttabilmente guardati dal Buddha gigante e da tante orbite vuote. E si può immaginare la loro soddisfazione nel mettere fine ad una specie di incubo, quasi più potente della spinta retorica che dichiara il ritorno all’Islam delle prime generazioni, forse più invasivo e convincente dell’esempio narrato riguardo al Profeta Maometto, che avrebbe frantumato gli idoli con le sue stesse mani quando conquistò la Mecca e avrebbe comandato di distruggere le statue antiche, poiché quello che proviene dai secoli precedenti appartiene all’età dell’ignoranza (jahiliyya).
I Buddha e la valle rappresentavano una civiltà che oggi chiameremmo globale -il Buddhismo- che aveva permeato, incluso e integrato influssi diversi in gran parte dell’Asia. Un messaggio etico, che si era mosso sulle vie commerciali senza prevaricare e senza bisogno di conquista, diventando messaggio universale.
Dalla parte opposta il provincialismo, l’ incomprensione, l’integralismo e la mancanza di rispetto per le altre culture erano destinate a diventare vie di fuga e rimozione pianificata. E i decreti sulla proibizione dell’adorazione degli idoli assumevano la forma sanzionatrice ed esplicita di un malessere della coscienza .
Testimonianze, descrizione e progetti di ricostruzione
La Valle di Bamiyan fu descritta nell’opera “Viaggio in Occidente del Grande Tang” dal monaco buddhista cinese Xuanzang, in visita alle comunità monastiche di India e Asia centrale alla ricerca di scritture sacre (metà del VII sec.). A quanto riferisce Xuanzang, la grande statua del Buddha era luccicante d’oro e pietre preziose; egli testimonia che, oltre ai due giganti in piedi, esisteva un Buddha disteso (in parinirvāna). Questo terzo Buddha fu trovato effettivamente nel 2008, grande come un campo di calcio, ma fu lasciato sottoterra perché non era ancora il momento di farlo sapere al pubblico mondiale.
Le due statue dei Buddha in piedi erano alte rispettivamente 53 e 38 metri: i corpi sbozzati direttamente nella montagna e i particolari anatomici, modellati in un impasto di fango e paglia, dipinti di intonaco a colori vivaci (azzurro e rosso), le mani ed il volto in color oro o ricoperti di foglia d’oro. Il volto del Buddha più grande forse era ricoperto da una maschera in rame dipinto, di cui rimangono tracce degli agganci. Le linee in rilievo sul corpo delle statue, che rappresentano il panneggio della veste, erano realizzate in un impasto fangoso, assicurato da un’armatura con perni innestati in fori nella roccia. Per creare l’effetto delle pieghe si utilizzavano lunghe corde che, appese ad impalcature esterne, venivano fatte oscillare e ricadere sull’argilla ancora tenera; in seguito l’argilla era fissata con calce e dipinta.
Gran parte della tecnologia costruttiva è molto simile a quella dei Buddha giganteschi delle Grotte buddhiste di Yungang (presso Datong, Cina, prov. Shanxi) alla cui edificazione, durante la dinastia Wei del Nord (386-534), fu delegato il monaco Dan Yao, che godette delle informazioni di pellegrini di ritorno da Bamiyan. In Cina così si inaugurò la dimensione colossale dei Buddha, ad imitazione di quella afghana.
Il Buddha di 53 metri , rappresentato nel gesto delle mani (mudra) che significa ‘rassicurazione’, è contenuto in una nicchia trilobata; alle sue spalle sporgevano fiamme fatte di legno, segno di regalità sacra sia nella tradizione iranica che presso i sovrani Kushan. Con le fiamme che sporgono dalle spalle è di solito raffigurato il Buddha del Passato, Dipamkara, ma sembra più probabile l’identificazione del Grande Buddha con Vairocana, o Adibuddha, che nel Buddhismo Mahayana e Tantrico rappresenta il principio originatore e l’essenza stessa dell’Illuminazione. Interpretazione, questa, più convincente, perché il Buddha è rappresentato mentre cammina, secondo l’iconografia del Buddha cosmico Vairocana, uno dei cinque Buddha santi. L’altra statua alta 35 metri, invece, rappresenta il Buddha del Presente, Sakyamuni, o Buddha storico, come affermò lo stesso Xuanzang.
Tutte le grotte che si affacciano sul costone roccioso -quadrate, tonde, ottagonali, o a struttura basilicale come in India- conservano ancora (molto deteriorati) affreschi con scene a tema religioso o illustrano episodi della vita di Buddha: Buddha in meditazione, Buddha del Passato, Buddha del Futuro (Maitreya), Grande Miracolo dei Mille Buddha, donatori, esseri soprannaturali, spiriti volanti. Purtroppo gran parte dei reperti frammentari sono finiti sulle bancarelle del mercato antiquario e, dopo le distruzioni per opera dei Talebani e dei Mujaheddin, poche cose ancora rimangono al museo di Kabul e pochi lacerti sono al museo Guimet di Parigi (concessi alla Delegazione francese delle Antichità).
Zemaryali Tarzi, negli anni ’70 Conservatore alle Antichità dell’Afghanistan, aveva rinforzato le statue con supporti d’acciaio, ma nel ‘79 dovette lasciare e andare in esilio. Nel 2002 l’archeologo afghano è tornato nella valle di Bamiyan, sostenuto dal governo francese, ma le difficoltà di scavo erano enormi ed il pericolo di furti costante. Come parte dello sforzo internazionale per ricostruire l’Afghanistan, il governo del Giappone e alcune altre organizzazioni (tra cui l’Afghanistan Institute di Bubendorf in Svizzera e l’ETH di Zurigo) si sono impegnate nella ricostruzione delle due grandi statue di Buddha. Tuttavia il restauro del sito non è stato considerato prioritario dall’UNESCO. Gli sforzi si sono limitati ad un consolidamento della roccia e delle nicchie. Il consolidamento delle pareti è stato eseguito dalla Trevi S.p.A. di Cesena (Italia).
Nel 2013 un gruppo di archeologi tedeschi dell’Icomos, guidato da Michael Petzet, ha iniziato la ricostruzione del Buddha più piccolo, ma l’operazione è stata metodologicamente disapprovata e interrotta dall’Unesco. Attualmente il progetto di recupero sembra prevedere la ricostruzione di uno dei due Buddha (fonti discordanti dicono che sarebbe iniziata nel 2019 con una gara internazionale), mentre l’altra nicchia rimarrebbe vuota. Mancano elementi certi per notizie ulteriori.