L’ipocrisia di una memoria senza verità storica

di Barbara Mangiapane

red-army-soldiers-celebrate-german-surrender-may-1945-east-prussiaRiceviamo dalla compagna Mangiapane, della direzione nazionale PdCI, e pubblichiamo come contributo alla riflessione in occasione del “giorno del ricordo” 

Auschwitz venne liberata dall’Armata Rossa di Stalin, l’esercito del popolo sovietico che ha pagato con 22 milioni di morti la liberazione dell’Europa dal nazifascismo.

In tutti i paesi europei il contributo di sangue dei partigiani comunisti è stato altissimo, il più alto senz’ombra di dubbio. In Italia il ruolo del PCI nella successiva costruzione della Repubblica fu fondamentale, ed imprescindibile fu il suo ruolo nell’avanzamento dei diritti economici e sociali dei lavoratori italiani.


Oggi, alla vigilia del giorno della memoria, in molti paesi europei il partito comunista è fuori legge, mentre la figura di Stalin è stata demonizzata ben oltre un’analisi obiettiva del mito che ne era stato costruito dagli anni ’30 agli anni ’50. Non solo non si ricorda il tributo di sangue dei sovietici e la vittoria militare di Stalingrado che permise la sconfitta di Hitler, ma facciamo finta di dimenticare che Stalin fu il primo capo di Stato a cogliere la pericolosità del nazismo per l’insieme dei diritti e delle libertà borghesi, e ad agire, inascoltato, verso tutte le diplomazie occidentali.

Oggi, in maniera del tutto antistoriografica, il giorno della memoria è affiancato ad un fantomatico giorno del ricordo, nel quadro di un’operazione smaccatamente revisionista che declassa la Resistenza da Guerra di Liberazione a guerra civile, ed equipara politicamente e moralmente partigiani italiani e fascisti repubblichini, dimentichi del ruolo di questi ultimi nella guerra ai civili scatenata dal Reich a partire dall’estate del 1944.

Così la continua decontestualizzazione di singoli episodi della guerra di partigiana, l’oblio sui crimini fascisti italiani in Jugoslavia, Grecia, Albania, Libia, Etiopia, ovunque il regio esercito avesse agito, ci consegnano una memoria strumentale agli interessi della classe dominante, volta più a suscitare pietà che non a comprendere, con messaggi emotivi tanto forti quanto inutili a “fare in modo che quanto accaduto non accada mai più”.

Pare essersi così persa memoria dei partigiani comunisti che subirono processi per atti compiuti nel corso degli eventi bellici, o che furono costretti all’emigrazione politica, mentre i vari Graziani, Junio Valerio Borghese ed altri, accusati e giudicati colpevoli di crimini contro l’umanità non scontarono, nel migliore dei casi, che poche settimane di arresti domiciliari. Una Repubblica, la nostra, fondata sull’oblio e sull’ingratitudine.

Mentre i chierici di regime si affannano a giustificare la complicità e il colpevole silenzio della chiesa apostolica romana e ad esaltare i martiri in tonaca del nazifascismo, nessuno s’interroga sul ruolo e sulle responsabilità delle gerarchie ecclesiastiche nella fuga dei criminali nazisti all’estero.

Al tempo stesso, si finge di ignorare il ruolo di gerachi nazisti nella costruzione del futuro Stato d’Israele, in particolare nell’addestramento dell’esercito israeliano, concependo un’altra operazione di falsificazione della storia: dimenticando che il progetto sionista della costruzione di uno stato ebraico risaliva a ben prima dell’avvento di Hitler al poter in Germania, si fa coincidere la nascita dello Stato d’Israele con la fine della Shoah a titolo di espiazione delle colpe dell’occidente, in modo da far coincidere, nell’immaginario collettivo, antisionismo e antisemitismo.

Nessun crimine è equiparabile ad un altro crimine, nessun genocidio ad un altro genocidio. Ma il ruolo degli intellettuali e degli storici, fortunatamente qualcuno si salva, dovrebbe essere quello di ricostruire nel modo più aderente alla verità storica gli eventi al fine di comprenderne i meccanismi che ne sono alla base, meccanismi che ritroviamo in Palestina, come in Vietnam o in Ruanda. Dimenticare, omettere, falsificare, rende inutile la memoria e ne fa uno strumento di violenza culturale e di giustificazione dello sfruttamento e dell’oppressione.