di Remy Herrera (Ricercatore del CNRS, Centro Nazionale per la Ricerca Scientifica, Francia)
da legrandsoir.info
Traduzione di Lorenzo Battisti per Marx 21
Cuba. In un lungo corteo silenzioso, nel dolore e nel raccoglimento, il popolo cubano in lutto ha reso un ultimo omaggio, fatto di dignità ed affetto, al suo Comandante en Jefe
Fidel Alejandro Castro Ruz. Figura di una leggenda moderna. Come lui, nessun altro. Con lui, l’umanità intera, o quasi. Da quella sera del 25 Novembre 2016, a milioni, decine, senza dubbio centinaia di milioni di uomini e donne hanno testimoniato il loro rispetto, la loro ammirazione per il capo storico della Rivoluzione Cubana. Sull’isola certo, e più lontano. Dappertutto nel mondo.
In Cina, dove si conoscono gli sforzi che ha profuso Cuba per preservare l’effimera unità di un fronte comune dei paesi socialisti prima dello scisma sino-sovietico; e ricordano che Cuba fu la prima delle nazioni americane a riconoscere la Repubblica Popolare, precedendo di 10 anni. In India, dove, dopo un abrazo, un abbraccio a Nehru, la sua popolarità è diventata immensa.
E che dire di Giava, un tempo insanguinata, subito dopo Bandung, dopo aver ricevuto il Kriss dell’amicizia dalle mani di Sukarno? Il Vietnam si ricorda delle migliaia di cubani volontari per combattere con Ho chi Minh, che fece la scelta, per liberarsi da solo e rafforzare la propria rivoluzione, di non accettare altro che i civili venuti a sostenere il Viet Minh. Al Laos, che aiutava Cuba, mentre un certo Robert McNamara “civilizzava” la riva sinistra del Mekong, riversando il Napalm, defogliante, l’agente arancio. Imperialismo e diritti umani allo stesso tempo, un bel colpo! Simpatici questi americani con la rivoltella al fianco, vogliono farci credere quello che pare a loro, gettano in aria un paese e vorrebbero la nostra approvazione!
Sul continente africano, pieno di saggezza e di riconoscenza, che Fidel amava tanto, come si ama un nonno appena ritrovato nel sorriso dei suoi nipoti. A Banjul, dove i muri del sistema sanitario stanno in piedi grazie a lui. Nel profondo del Burkina Faso, dove lo spirito del cubano si è ormai ricongiunto a quello che si invoca nuovamente, quello di Sankara. Risoffierà presto. Ad Asmara, dove il suo ritratto barbuto orna molte case da quando Cuba riconobbe alla rossa Eritrea, allora parte dell’Etiopia, il diritto all’autodeterminazione, quando l’una e l’altra erano socialiste. Ruota dentata e machete dell’Angola, sole a dodici raggi della Namibia, sventolate in alto, brillate, un mondo vi contempla! In tutte le memorie, Fidel c’è! Vivo. Bissau, Bafatà di Cabral, Kasai di Lumumba, foreste oscure di Kivu, Tanzania di Mwalinu, Ghana di Osagyefo, Africa Australe, linea del fronte, dell’anti-apartheid, in ciascuna testa cammina a fianco del suo amico, del suo fratello, del suo compagno, Nelson Mandela. Fidel fa rialzare le teste, battere il cuore, alzare il pugno. Due sillabe e altre due e due punti esclamativi, ¡Viva Fidel!, che rendono più forti, o meno soli, le genti erranti degli slums di Monrovia o di Freetown. Sono i suoi, di un’isola minuscola, che curano le ferite dei dimenticati. In prima linea senza paura, mai con le lacrime agli occhi, con Cuba così lontana. Sono i suoi figli e le sue figlie che insegnano ai rifiutati dal capitalismo che anche costretti a sopravvivere come animali su montagne di immondizia o nel sottosuolo, tutti hanno dei diritti, dei diritti uguali, che insegnano loro che si resta degli esseri umani anche nelle baraccopoli della miseria. Fidel. Nella sua voce c’era la collera, risuonava l’indomabile rivolta contro questo mondo.
E l’universo arabo-musulmano. Le donne kashmire conoscono il suo nome, con quello della giovane doctora che venne a portare loro soccorso della dimora di neve, l’Himalaya, quando tremò Muzaffarabad. Ad Algeri, ieri mecca dei rivoluzionari, sono stati proclamati 8 lunghi giorni di lutto, solo una giornata in meno del suo paese natale. Al tempo della guerra, fino alla libertà, mojiadin, degli orfani furono raccolti là. Fidel vegliava su di loro. Sono tutti rientrati, tra le braccia di Ben Bella. Ed eccolo. a quasi cento anni, vestito con un fennec, anche lui cantava! Al Cairo, da dove passava per vedere il maestro di Suez Nasser. La Palestina, Cuba la porta nel cuore. Entrambe sanno cosa significa donare quando si ha poco, così poco per sé. L’isola se ne ricorda: le mani tese di Yasser Arafat, l’aiuto reciproco, quando i tempi divennero duri, quando l’ordinario venne a mancare dopo la caduta, ad est, di uno dei socialismi. Anche in Siria, dove le alture del Golan furono un tempo difese da dei cubani in armi che fermarono la marcia sicura delle forze israeliane verso Damasco. Israele non dimentica, ma per seguire ancora di più come un solo uomo il tiranno che impone un crimine a tutta l’umanità, il blocco. Vergogna! Stati Uniti della Vergogna!
A sud, l’America che diciamo Latina, con il suo arco caraibico. Lei che si è ribellata perché Cuba non fosse l’eccezione. Lei che si è battuta e che si è alzata in piedi. E che si vuole rimettere in ginocchio. Più politicizzata e lucida che altre parti, grazie alle lezioni di Fidel, all’esempio del Che e degli eroi morti. La dove, per così dire, la crudeltà dei ricchi, la loro violenza senza pietà, il loro odio si percepiscono ad occhio nudo, come la lotta di classe. L’emozione, il fervore, la determinazione sono qui, soprattutto. A fior di pelle. La vicinanza a Fidel è proclamata ad alta voce, la si scrive. Il Guatemala massacrato, il Paraguay martire, la Bolivia insorta, la Colombia guerrillera. E il Venezuela, più che mai bolivariano, il primo ad aver riconosciuto lui e il suo Ejercito rebelde, dove nacque la sua sorella, hermanita Chavista, nueva Caravana de la Libertad. Il Messico, che non ha mai tagliato i ponti. Haiti di Toussaint. Se Fidel fosse stato brasiliano, l’emisfero sarebbe cambiato profondamente.
Altrove, al di là dei più lontani orizzonti immaginabili, la sua aura, ancora. Fino a quei piccoli punti sperduti dell’Oceania, le Fiji, le Isole Salomone, il Tonga, pezzi di terra sparpagliati ai limiti blu del planisfero, Kiribati, Vanuatu, Tuvalu, Nauru. Fino alle Highlands papuane, forme inquietanti, più nere di pelle che in Guinea, mascherati, con le ossa nel naso, e resti cannibali assicura il depliant in cerca di brividi, di sottosviluppo garantito, residuo di un’altra epoca. Fin là sono arrivate le cure di cui sognava Fidel. Mentre non riesce nemmeno a vederle fornite ai più poveri del “modello del mondo” – un altro embargo degli Yankee, guerra insidiosa contro i più poveri tra loro. Cuba ha proposto, ma invano, di mettere a loro disposizione le sue brigate di medici per agire e curare negli isolati decrepiti di Harlem – più decrepiti che le facciate pastello e colorate dell’Habana Vieja, va detto.
In Ucraina stessa, le famiglie, i parenti dei bambini di Cernobyl dispongono delle prove materiali: Cuba ne ha accolti circa 20 mila. Gratuitamente, ovviamente, ma meglio sottolinearlo. Anche quando il regime ucraino votò il mantenimento del blocco, per anticomunismo, somigliando moltissimo all’antico che durante durante il Barbarossa si felicitò un po’ troppo presto di vedere Kiev circondata. Cuba prolungò la propria ospitalità ai bambini malati. Li curò, li guarì. Così funzionava la Cuba di Fidel. Non seduceva? Fino ad Est? Fino al Nord? Un nord che ha fatto presto dimenticare Olof Palme e l’onore salvato. Quel Nord “ingiusto e pieno di cupidigia, che si chiude e si riempe di odio”, come scriveva già un eroe, Martì, illustre predecessore che ha ispirato Fidel.
Oggi sono le forze più oneste, progressiste, numerose che si riuniscono e ringraziano Fidel per quello che ha lasciato: la difesa dell’umanità. I rivoluzionari del pianeta serrano i ranghi attorno a lui e riaffermano che lotteranno, continueranno la lotta, spalla a spalla. Durante i secoli, rari, molto rari sono stati gli uomini di stato che hanno penetrato fino a questo punto i cuori, che hanno compreso che i popoli sono i soli soggetti che trasformano la storia, che formano le coscienze, che influenzano le idee e così gl avvenimenti. Robespierre, Lenin o Mao. Questa è la misura. Ecco la sua grandezza. Fidel è di questa statura.
E Cuba così piccola, con il suo faro, luz che che illumina tutti i mari. Grazie a lui, si condividono i pasti, gli alloggi, i libri. Quando l’Est mollò, si continuò a condividere. Quando l’Ovest saltò alla gola, per strangolarla, per ucciderla, si condivise quello che restava. Quasi niente. Tutti conobbero la fame, ma nessuno morì. Si condivideva la dignità, la serenità dei giusti, la sofferenza per le mancanze. La fierezza di resistere. Per provare a tutti che si può resistere. Quasi tutti. Fidel: “bisogna forgiare la convinzione e mantenere la promessa di resistere, di lottare e di vincere, anche quando ci trovassimo da soli. Non possiamo arrenderci. Non sarebbe degno della storia di questo paese, dei nostri antenati. Si tratta di lottare, e nella lotta, l’essenziale è il popolo, che sorprende tutto il mondo per la sua virtù. Noi eravamo aperti a tutte le possibilità, eccetto a quella di rinunciare al socialismo, all’unità, al potere del popolo, alle conquiste della Rivoluzione, ad eccezione di quella di accettare che altri siano padroni del nostro destino. Abbiamo fatto da tempo la nostra scelta: socialismo o morte!”
La Cuba di Fidel ha mantenuto il fuoco acceso. Per 10 anni, tutta sola, come una grande, quando un blocco la frenava. Illuminava la notte, la notte della reazione, come un Ottobre rosso. Prima che altri venissero a riprendere la fiaccola, Indiecitos, mulaticos, tutti Bolivarianos. Fidel fu all’altezza del suo popolo. Della sua lealtà, della sua rettitudine, della sua generosità. La combattività del popolo cubano che, più a lungo di qualsiasi altro, ha portato il sostegno, senza tregua, indistruttibile, alla sua rivoluzione, a questa generazione eccezionale, nata dalla guerriglia, inflessibile e integra, che ha accompagnato per sei decenni il suo comandante in capo. Lider Maximo, che ha avuto tanto potere. Lui stesso se ne preoccupava. Ma non lo cercava. Tutti andarono da lui da Santiago, Santa Clara, Plaza de la Revolution, per confidarglielo, con consentire, per confidare e soprattutto per esercitarlo. Perché era lui. Incomparabile, incontestabile. Anche i santi lo proteggevano in un sincretismo meticcio, santeria Ocha religion Yorúba, Palo Monte regla Conga, la società Abakua e Arara. Obbatalá Santísimo, Mbumba , Changó Santa Bárbara Yoasi, et Yemayá, furono attraversati da deportazioni, quasi un milione, e li si piange così poco, dal golfo del Benin, del Biafra, del Mozambico. Elugo, Fanti, Ganga, Yolof o Mani venivano da laggiù. Dimenticheremo quelli di Canton e del delta delle Perle, portati incatenati sulle stesse navi? Dei re e dei papi hanno visto tutto ciò. Un popolo chiedeva Martì e Marx insieme. È stato Fidel che l’ha fatto. Senza il loro volontarismo, i due, legati da profondi legami, devozioni reciproche, cosa ne sarebbe di questa Rivoluzione? Quelli che giudicano Fidel, quando conoscono l’isola, come un “dittatore brutale, crudele”, sanguinario, sanno di mentire, che mentono a loro stessi, che sono degli ipocriti. O che cercano di ingannare.
L’insulto non gli farà niente. Fidel aveva scelto il campo degli oppressi, quello delle azioni conseguenti, coerenti, coraggiose, costantemente al fianco degli humildes, della canaglia, per sperare, e credere ancora nell’essere umano. Che si può ancora ottenere qualcosa. Ascoltiamo Neruda: “le sue parole in azione, i suoi fatti che cantano”. Nazionalizzò le terre e le distribuì. Questa Reforma agraria, Benny la celebrò. Guarijos, lasciamo parlare il poeta Guillén: “sollevò la gleba fino al mirto, al lauro”. Poi socializzò i mezzi di produzione, mezzi industriali, raffinerie di petrolio, rimettendole nelle mani del lavoro. Mise anche la banca sotto controllo dello Stato. E lo Stato sotto quello del Partito. E il Partito stesso al servizio di un ideale: per il popolo, la sanità, l’educazione, la luce e la sicurezza, tutto nella gratuità. Mise fine alla segregazione, al sessismo, al crimine organizzato, in un paese ossificato da lungo tempo, maltrattato, quattro secoli di schiavitù, prostituito per più di sei decenni dai gringos avidi che l’avevano sporcato, Chicago dei tropici. Fidel insegnò ai ricchi le buone maniere, loro che ne avevano cura. Alle loro frequentazioni così malvagie. Insegnò anche a comportarsi, a vivere in società. O altrimenti ad andarsene. Sloggiarono, pulirono la terra di tutti gli sfruttatori. È per questo che Fidel fu fatto. Para nuestra Cuba, Cuba Socialista, patria universale.
I suoi critici, i padroni della borsa, hanno dovuto rendersene conto, elementare aritmetica, che noi siamo il numero, schiacciante, massiccio, la vera maggioranza, quella dei popoli. Cuba ama Fidel, e molto profondamente. E il mondo con lei, che piaccia o no. Di cosa abbiamo paura? È così difficile da dire ciò che si è? Di cosa abbiamo vergogna, d’amare i nostri eroi? L’umanità arriva alla riscossa. Tutta l’umanità. O quasi, diciamo. Gli altri, nel loro forte interno, non ignorano che se questo mondo deve cambiare, necessariamente, se si marcia in effetti verso uno migliore e non verso il caos, allora è certo, è tutto il futuro che gli appartiene. Comandante Fidel, il futuro è vostro!