La carestia del 1933 in Ucraina e le responsabilità

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E’ uscito in Italia da Mondadori il libro della giornalista statunitense del “Washington Post”, naturalizzata polacca, Anne Applebaum, La grande carestia, dedicata all’evento drammatico che colpì soprattutto nella primavera del 1933 alcune regioni dell’Unione Sovietica, tra cui la campagna Ucraina. Il fatto è raccontato succintamente in un capitolo dedicato al 1932 (anno cruciale), del mio recente Il processo Stalin. La combinazione di due anni consecutivi di siccità con le rivolte dei kulaki contro la collettivizzazione agricola sfociò in una situazione di drammatica fame e morti per fame, prima che i raccolti del 1933 consentissero il ritorno a una relativa normalità.

La costruzione della ucrainicità etnica

La Applebaum dedica molto spazio alla descrizione meticolosa delle manifestazioni e conseguenze della fame, del suo impatto nella memoria, degli aspetti più dolorosi e raccapriccianti. Ma non è a questo che si deve l’eccezionale attenzione riservatagli dai principali media nostrani. Infatti se in Russia dopo l’esperienza sovietica la fame è un ricordo del passato, vaste plaghe del mondo ancora oggi vivono la tragedia, senza che l’Occidente ben nutrito si turbi più di tanto. Secondo quanto denunciato dall’associazione britannica Save the Children, in un comunicato del 16 ottobre scorso, “ogni minuto nel mondo 5 bambini muoiono di fame… in paesi colpiti da carestie e siccità, afflitti dalla povertà estrema o dilaniati da guerre e conflitti”. Il che significa oltre 2 milioni e 600 mila ogni anno. Domenico Quirico, recensendo il libro per “La Stampa” (“Tuttolibri”, 29 giugno), ha ricordato la sua esperienza personale in Somalia negli anni Novanta – all’indomani della cacciata del “dittatore” dalle pericolose tendenze socialiste Siad Barre – quando si erano mostrati ai suoi occhi: “corpi di uomini donne bambini che morivano di fame o erano già morti e si disfacevano nelle mosche e nel sole. Non sapevo che potesse esistere la spazzatura umana: esseri buttati via come immondizia quando non sono ancora morti, che nessuno osa o vuole avvicinare o soccorrere e muoiono stremati dalla fame disfacendosi lentamente all’aria aperta”.

Ma non è per queste descrizioni angoscianti che il libro della Applebaum viene enfatizzato. Il motivo è soprattutto nel sottotitolo: La guerra di Stalin all’Ucraina. La carestia come prodotto di una “guerra” di Stalin, e dunque della Russia, all’Ucraina. Una tesi per la verità non   nuova né originale. A proporla furono già gli ucraini filo-hitleriani che collaborarono all’occupazione nazista durante la seconda guerra mondiale, coprendosi col “nazionalismo”. Costoro allora additavano come   ”nemici dell’Ucraina” russi, comunisti ed ebrei, alla cui caccia e sterminio zelantemente contribuirono.

La versione è stata poi coltivata come autogiustificazione dagli stessi ambienti riparati dopo la guerra negli Stati Uniti e in Canada per evitare la giustizia, ed è entrata nel bagaglio propagandistico della guerra fredda, solo epurata del razzismo antiebraico ormai non più di moda. Ha avuto poi un rilancio in grande stile negli anni reaganiani della lotta all’”impero del male”, contribuendo con dovizia di mezzi alla crescita in Ucraina delle forze antisovietiche e alla dissoluzione dell’Urss.

Dopo l’indipendenza del 1991, e soprattutto le “rivoluzioni” arancione (2004) e Majdan (febbraio 2014), si è cercato di costruire un’identità ucraina non sul riconoscimento e valorizzazione del suo essere terra di confine e convivenza arricchente di popolazioni diverse, ma sulla contrapposizione frontale ai russi ed alla Russia e sulla devozione agli Stati Uniti, alla Nato e al Fondo monetario internazionale. L’avvio sul piano interno di una politica discriminatoria e persecutoria verso le popolazioni di lingua russa ed altre minoranze cosiddette russofone ha prodotto l’orribile strage di Odessa del maggio 2014, che la Applebaum evita di ricordare e deprecare, in cui pacifici cittadini antifascisti sono stati bruciati vivi nella casa del sindacato dove erano riparati per sfuggire all’aggressione dei neonazisti coperti dalle autorità. Ne è scaturita anche per reazione di sopravvivenza la decisione della popolazione della Crimea di tornare come repubblica autonoma nell’ambito della Russia, di cui aveva storicamente fatto parte, fino alla disinvolta “donazione” di Krusciov del 1954. E ne è nata anche la coraggiosa resistenza antifascista delle Repubbliche di Donesk e di Lugansk, con la rivendicazione del riconoscimento della loro autonomia.

Nella ricostruzione “politicamente corretta” della Applebaum le origini politiche della “nazione ucraina” sono rintracciate nelle formazioni banditesche e antisemite di Symon Petljura, schieratosi con la Polonia nella guerra del 1919-21 contro i bolscevichi. La storia pluridecennale della Repubblica socialista sovietica ucraina, tra le quattro fondatrici dell’Unione sovietica, viene esecrata e rigettata in blocco, ed è esaltato il movimento nazionalista basato socialmente sugli interessi della proprietà terriera, antisovietico e separatista, filo polacco e filo nazista. In questo quadro si collocano le interpretazioni della carestia del 1933 in Ucraina quale Holodomor (uccisione per fame), “genocidio”, “guerra di Stalin” e della Russia alla “nazione ucraina”.

Nazionalismo e nazismo

Per piegare a conflitto etnico-razziale la carestia del 1933, la giornalista statunitense-polacca ricorre a disinvolte acrobazie. La carestia colpì varie regioni dell’Urss e non solo dell’Ucraina: come il Caucaso settentrionale, la regione del Volga, il Kazachistan. L’autrice se la cava, dicendo che qui i morti furono di meno (p. 353). La differenza tra “l’Ucraina proletaria russofona”, in cui incastra anche il “russo” Chruscev, e la realtà “contadina ucrainofona” (366), varrebbe a spiegare perché le città furono risparmiate. Per altro non tutta la campagna ucraina fu coinvolta allo stesso modo. Nelle province di Dnipropetrovs’k e Odessa ad esempio le vittime furono “relativamente basse”, più colpite quelle di Kiev e Charkiv; e ciò perché “sia nel 1918-1920 sia nel 1930-1931 le regioni di Kiev e Charkiv erano state teatro della più strenua resistenza politica, prima ai bolscevichi e poi alla collettivizzazione” (354-5). Con ciò Applebaum mina essa stessa la tesi russofobica, evidenziando un conflitto politico-sociale che attraversava la stessa realtà ucraina. L’insorgenza promossa dai kulaki risultò più forte dove maggiormente resisteva l’influenza dell’opposizione nazionalista clandestina. Non fu dunque, almeno da parte delle autorità sovietiche, una guerra etnica, dei russi contro gli ucraini, e tanto meno una guerra inter-repubblicana, della Russia contro l’Ucraina. Proprio perché trovò la grande maggioranza della popolazione ucraina schierata col potere sovietico, la controrivoluzione secessionista dei nazionalisti e dei kulaki andò incontro al fallimento. Risultò, come lamenta la Applebaum, che gli “episodi terroristici” e l’”attività controrivoluzionaria” non furono sufficienti a convincere Stalin “ad abbandonare la collettivizzazione” (191-2). E neanche a determinarne la caduta.

Applebaum ricorda con qualche simpatia un nazionalista ucraino emigrato in Polonia, tale Lemyk, che nell’ottobre 1933 uccise il segretario del console sovietico a L’viv (Leopoli). Era seguace di Melnik, esponente dell’Organizzazione nazionalista ucraina (OUN) assieme a Stepan Bandera. Ambedue furono reclutati dall’intelligence militare nazista e collaborarono nel ’41 all’invasione dell’Urss, come risulta dalla testimonianza del colonnello dell’Abwehr Erwin Stolze, acquisita agli atti del processo di Norimberga. Melnyk  e Bandera, assunti a eroi e precursori dai governanti di destra impostisi al potere col colpo di stato di Majdan, fecero il possibile per aiutare il rapido trionfo della Germania nella guerra. Tuttavia, sembra lamentare la Applebaum, le larghe e deprecate epurazioni che avevano nel frattempo investito le file comuniste avevano fatto sì che “allo scoppio della guerra… nessuno dei dirigenti del Partito Comunista Ucraino aveva qualche rapporto con il movimento nazionale” (367).

Per altro se Hitler avesse vinto, gli ucraini non avrebbero potuto evitare la sorte riservata agli slavi, cioè la schiavitù e lo sterminio. La stessa Applebaum riporta come nelle linee guida tedesche per lo Stato maggiore economico dell’Est, “molte decine di milioni di persone” erano considerate “superflue” e avrebbero dovuto scomparire. Non ne ricava tuttavia alcun riconoscimento per la resistenza eroica e il sacrificio dell’armata rossa e dei popoli sovietici, commentando anzi acidamente: “Era la politica di Stalin moltiplicata molte volte: l’eliminazione per fame di intere nazioni” (404).

Carestia nella carestia

Sulle vittime della “grande carestia” in Ucraina si sono fatte le cifre più diverse e fantasiose, come già per il “grande terrore” secondo il modello Conquest. La Applebaum si affida a calcoli di demografi che propongono 3,9 milioni, cifra calcolata non sulle morti reali, ma sui “morti in eccesso” rispetto a tassi di incremento demografico attesi e non realizzati. Calcoli cioè anch’essi arbitrari. Per altro le tabelle sulla mortalità effettiva a livello provinciale e nazionale sono conservate integre negli archivi come ci informa la stessa autrice (p. 375), senza spiegare perché non siano utilizzate. E andrebbe inoltre tenuto conto del colossale movimento di popolazione, per cui nel 1929-33 oltre 10 milioni lasciarono tumultuosamente la campagna per stabilirsi nelle città e nelle nuove regioni industriali. Ma al di là delle cifre, sono davvero attribuibili tutte a Stalin le responsabilità della tragedia?

Sul raccolto del 1932 le consegne di grano agli ammassi furono inferiori e di molto non solo all’anno precedente, ma anche rispetto all’entità dell’effettivo raccolto, e ciò soprattutto per ragioni di inasprimento della lotta politica e di classe. Per ottenere il grano si fece ricorso da parte degli incaricati governativi e non solo in Ucraina a metodi brutali e indiscriminati, colpendo anche chi non aveva più niente da consegnare; e in questo modo patirono molti innocenti. Ciò risulta evidenziato tra l’altro dalla corrispondenza tra Stalin e il grande scrittore Šolochov, autore del capolavoro Il placido Don, testimone diretto della situazione nel distretto di Veshensky nel Caucaso settentrionale.

Tuttavia il rimedio vagheggiato dai critici, e cioè che si dovesse rinunciare ad ottenere le consegne, lasciando alla vendita dei contadini sul libero mercato di aggiustare ogni cosa, avrebbe avuto conseguenze ben più devastanti, estendendo l’inedia e le morti per fame alle città e all’esercito. Secondo i dati riportati dalla Applebaum, nel 1930-31 il raccolto di grano in tutta l’URSS era stato di 83,5 milioni di tonnellate di pud (un pud = 16,38 chili), mentre nel 1931-32 se ne erano raccolti solo 69,5 milioni, cioè 14 in meno. Applebaum, che pure nega che in questo calo abbiano avuto un peso le condizioni atmosferiche, usa l’espressione “carestia nella carestia” (247), facendo dunque diretto riferimento ad una carestia indotta dentro una carestia naturale.

La collettivizzazione ebbe il suo sviluppo impetuoso nell’inverno 1929-30, ma già il 2 marzo 1930, con l’articolo Vertigine dei successi, Stalin aveva posto un freno, insistendo sul rispetto della volontarietà. Ciò fu interpretato dagli oppositori come un segno di debolezza, per cui la lotta per rovesciare il governo e la sua politica fu intensificata. Scrive Applebaum: “In seguito all’uscita di Vertigine dei successi furono effettivamente accordate alcune concessioni: il Comitato centrale decise, per esempio, di consentire alle famiglie contadine di mantenere per sé una mucca, un po’ di pollame e l’orto. Ma se questi gesti erano intesi a fermare la rivolta, sortirono in realtà l’effetto opposto. Lungi dal placare i contadini, l’articolo di Stalin diede il via a una nuova ondata insurrezionale” (194).

I contadini, scrive la Applebaum, che evita come altri il termine kulaki, avevano già iniziato “a macellare mucche, maiali, pecore e persino cavalli, di cui mangiavano la carne o la salavano, la vendevano o la nascondevano: qualunque cosa per impedire che se ne impossessassero le fattorie collettive. In tutta l’Unione Sovietica, in tutti i distretti rurali, i macelli iniziarono all’improvviso a fare gli straordinari”Questa più viscerale e immediata forma di resistenza proseguì per gran parte dell’anno seguente e oltre. Fra il 1928 e il 1933 il numero di capi di bestiame e cavalli diminuì in URSS di circa la metà. I maiali calarono da 26 a 12 milioni, pecore e capre da 146 a 50 milioni” (186).

Se si vuole stare sul terreno della storia criminale, alla ricerca del colpevole, non c’è dubbio allora che gli istigatori di una tale forma luddistica di protesta fecero il massimo di danno alla popolazione, privandola delle scorte alimentari nei tempi difficili. Infatti, come pure Applebaum riconosce: “In passato, negli anni di cattivi raccolti e cattivo tempo, i contadini erano sopravvissuti grazie al loro bestiame e alle verdure dei loro orti” (249). Con la distruzione del bestiame e dei raccolti, i promotori e autori di tali scelleratezze compromisero gravemente essi stessi nelle zone dove erano più influenti le possibilità di sopravvivenza.

Il ruolo dei nazional-secessionisti

Gli insorgenti non si limitarono a distruggere il bestiame, a nascondere raccolti e a rifiutarsi di seminare, ma attuarono azioni di furto e sabotaggio della proprietà collettiva e intensificarono il ricorso ad atti terroristici. Per tutta l’estate del 1932, seguiamo sempre la Applebaum, “ l’OGPU aveva continuato a riferire di furti sempre più numerosi ai danni di ferrovie, negozi, imprese e, soprattutto, fattorie collettive”. E commenta in modo stupefacente: “Non c’era da sorprendersi: spesso i lavoratori delle fattorie collettive (come gli operai delle fabbriche) avevano l’impressione che ciò che apparteneva allo Stato non appartenesse a nessuno e, quindi, che non ci fosse niente di male a impossessarsene” (235). E ancora: “Nessuno, rubando beni collettivi, si sentiva minimamente colpevole” (316). Come molti politici e burocrati dei tempi nostri, verrebbe da dire!

Era intervenuta tuttavia la legge del 7 agosto 1932 a punire severamente furti e danneggiamenti della proprietà sociale, di stato, cooperativa e colcosiana. E sempre la Applebaum riferisce di folle inferocite contro i ladri, al punto di linciarli (318). Evidentemente non a tutti i contadini sfuggiva che rubare alla fattoria collettiva non era rubare a nessuno, ma a tutti loro!

Certamente i contadini erano portati dal loro ristretto interesse a conferire meno grano possibile allo Stato, che pagava un prezzo politico certamente inferiore a quello realizzabile nel libero mercato. Tanto che lo stesso governo zarista, che pure difendeva la grande proprietà, aveva dovuto ricorrere durante la guerra a un certo grado di coercizione, come pure il governo provvisorio prima della rivoluzione. Gli stessi governi capitalistici occidentali in tempo di guerra vi hanno fatto ricorso, prendendo atto che in situazioni di emergenza il mercato libero porta alla fame.

Ciò premesso, l’esito negativo dell’ammasso 1932 spinse come si è detto a forme di requisizione che non andavano troppo per il sottile, caratterizzate da eccessi di violenza, brutalità e terrore. E tuttavia quanto ottenuto permise di evitare con uno stretto razionamento che la fame e le morti per fame investissero le città e l’esercito, su cui contavano probabilmente gli oppositori del governo. Per fronteggiare l’emergenza le autorità sovietiche ridussero anche drasticamente l’esportazione di grano, con cui si finanziavano gli acquisti di macchinari per l’industria. Dai 52,8 milioni di quintali del 1931 l’esportazione crollò a 17,3 nel 1932.

Col razionamento si poté superare il difficile momento e gli operai delle nuove fabbriche, pur dovendo anch’essi tirare la cinghia, poterono lavorare e produrre; e funzionarono le scuole, gli asili, gli orfanotrofi, gli ospedali, fu nutrita l’Armata rossa. La scelta delle organizzazioni clandestine di opposizione di cavalcare la resistenza spontanea contadina passando alla prova di forza con la “violenza organizzata” (191), si rivelò perdente. Nella primavera del 1934 “aderirono in massa a fattorie collettive tutti gli agricoltori individuali sopravvissuti ala carestia… 151.700 famiglie, terrorizzate, cedettero case e proprietà per mettersi al servizio dello Stato” (360). Dove l’autrice dimostra di non conoscere la differenza tra le fattorie agricole statali (sovchoz) e i cholcos, che erano delle cooperative in cui i contadini mettevano in comune campi, attrezzi agricoli e bestiame, mantenendo ad uso familiare un appezzamento di circa mezzo ettaro intorno alla propria casa.

Stando alle cifre che riporta la stessa Applebaum, il raccolto di cereali nelle annate 1933-34 e 1934-35 fu perfino minore di quello che si era avuto nel 1932-33,   l’anno della “grande carestia”, passando dai 69,9 milioni di tonnellate,   a 68,4 e 67,6 (247). Sufficiente tuttavia a impedire il ripetersi della fame con le sue terribili conseguenze, tanto che alla fine del 1934 il razionamento poté essere abolito. Si può convenire dunque con la Applebaum che “la carestia nella carestia” fu prodotta artificialmente. Solo che a provocarla non fu Stalin, ma i promotori nazional-secessionisti delle dissennate distruzioni, assunti a precursori dagli attuali sostenitori del progetto di un’Ucraina etnica, occidentalista e neo-fascista. Un progetto reazionario e divisivo a cui si deve la folle equiparazione tra comunismo sovietico e nazismo, il divieto al Partito comunista ucraino di partecipare alle elezioni, e la stessa uccisione il 24 maggio 2014 del fotoreporter italiano Andrea Rocchelli col suo collega e interprete russo Andrei Mironov, per impedire la documentazione della guerra nel Donbass. Un progetto di nazionalismo etnico ferocemente antidemocratico, razzista e reazionario, che come quello degli anni trenta ha fatto e fa del   male prima di tutto agli stessi abitanti dell’Ucraina.