di Sergio Ricaldone | in “Gramsci oggi” rivista online
L’estremo saluto reso in quella triste giornata di novembre, da centinaia di persone assiepate dentro e fuori dalla CdL di Milano, alla gappista Onorina Brambilla Pesce, la popolare “Nori”, testimonia quanto sia ancora radicato il ricordo di chi considera la Resistenza il punto culminante e più avanzato tra quelli che hanno segnato la storia dei 150 anni dell’unità d’Italia.
Non c’è molto da aggiungere alle toccanti parole di commiato ascoltate in quel triste pomeriggio. Solo qualche nota a margine del suo bellissimo libro “Pane bianco”, pubblicato dalle edizioni Arterigere, una manciata di mesi prima della sua morte, nel quale Nori ci ha narrato la storia della sua vita con la disarmante semplicità di una donna comunista nata e vissuta nel 900, figlia di un secolo nel quale l’imperialismo e il nazifascismo hanno fatto subire ai popoli del mondo intero il massimo della barbarie. Il suo libro è stato la sua ultima sfida contro un apparato mediatico impegnato invece ad archiviare nel museo degli orrori la Resistenza italiana ed europea.
Le pagine più pregnanti sono perciò quelle della lotta partigiana svolta in quella che è stata la formazione di punta della guerriglia urbana del Nord Italia : la 3° GAP, comandata da colui che è poi diventato il compagno della sua vita, Giovanni Pesce. Ed è raccontando agli studenti i passaggi salienti del suo impegno politico e militare vissuti in quei giorni di fuoco, che Nori ha saputo trasmettere, ben più dei reticenti libri di testo, il significato della parola Resistenza.
Dal suo racconto si avverte come gli impulsi di un internazionalismo in via di formazione fossero già presenti nella giovane comunista Nori. Prima ancora di arruolarsi nella 3° GAP, le appariva chiaro che la guerra che stava dissanguando l’Europa e il suo iniziale carattere imperialista avesse cambiato natura e dimensioni dopo che nel giro di due anni tutto il continente, da Capo Nord al Mediterraneo e dal Volga alla Manica giaceva sotto il tallone di ferro dei nazisti. Diventata totale, la guerra non poteva non assumere il carattere di una lotta di liberazione comune di Stati e di popoli, con sistemi sociali e politici diversi, saldamente coalizzati contro il pericolo mortale rappresentato dal nazifascismo. Perciò una lotta con profonde motivazioni universali, la civiltà contro la barbarie e la libertà contro la schiavitù, che ha coinvolto non solo gli eserciti combattenti ma gli stessi popoli dei paesi aggrediti rendendoli partecipi, con la lotta armata, delle vicende militari che hanno sconvolto l’Europa per cinque lunghissimi anni. Le sue speranze erano ovviamente riposte sull’Unione Sovietica e sul suo popolo che stava pagando il maggior tributo di sangue alla liberazione dal nazismo.
La percezione della dimensione internazionale della guerra che si apprestava a combattere Nori la racconta quando parla degli scioperi del marzo 1943 : “Seguimmo giorno per giorno, con preoccupazione e speranza, la battaglia di Stalingrado, dove si combatteva casa per casa. Quando finalmente quel che restava dell’armata di Von Paulus si arrese, fu un giorno di grande gioia perché capimmo che le sorti della guerra erano definitivamente cambiate”.
La Resistenza italiana è durata una manciata di mesi, meno di 20. Il tempo di un sospiro rispetto alla lunga vita che il suo DNA gli ha preservato. Ma è in quel breve lasso di tempo che una ragazza di 20 anni, piena di sogni e di speranze come tutte le sue coetanee, trova il coraggio di mettere in gioco la propria vita in uno dei reparti più avanzati ed esposti dei moderni conflitti : la guerra partigiana.
Come tutte le guerre anche quella combattuta nelle città occupate dai nazifascisti non è stata un pranzo di gala ma una pratica di lotta estrema che devi imparare presto e bene. Sei sola e circondata da un nemico che non fa prigionieri. La pistola e l’esplosivo, gli agguati e gli attentati erano i mezzi con cui combattere l’invasore che occupava le città con la potenza soverchiante dei suoi panzer, la ferocia delle SS e dei brigatisti neri al loro servizio. Sai che sotto quelle divise ci sono belve feroci che hanno torturato, impiccato i tuoi compagni di lotta, hanno incendiato e raso al suolo villaggi, massacrato donne, vecchi e bambini senza alcuna pietà. Sai che se cadrai nelle loro mani non avrai scampo. Quella ferocia Nori l’ha subita quando è caduta nelle mani dei torturatori neri e della Gestapo e poi inviata incontro alla morte nel lager di Bolzano. Ed è ricordando quel terribile passaggio che Nori ha squadernato senza ipocrisia lo stato d’animo di chi, come lei, ha scelto giustamente di combattere il terrore spietato di un nemico che non faceva sconti ai “soldati senza uniforme” : “No, non ho mai avvertito un sentimento di pietà nel corso della lotta”. “Quando i nazifascisti riuscivano a prenderci ci massacravano. Noi non avevamo scampo. E allora quale avrebbe dovuto essere il nostro sentimento ? Era la guerra, una guerra spietata, lunga, a tratti disperata. Di qui il mio giudizio che non è frutto dell’odio ma di quella partita estrema in cui in gioco c’era la libertà”.
Nella parte finale della sua vita Nori ha dovuto purtroppo subire quel torbido processo di revisionismo e negazionismo che ha preso di mira la Resistenza italiana declassandola da “guerra di liberazione” a “guerra civile”, riducendo le gesta di chi l’ha combattuta a episodi di terrorismo e di cieca violenza. Snaturando completamente il contesto, e perciò le sacrosante ragioni, di chi ha scelto la lotta armata come sola opzione possibile per liberare l’Italia dall’invasore.
Ricordo, per inciso, di avere parlato dell’argomento nel 1966, con Gillo Pontecorvo, (vecchio compagno di lotta partigiana), all’uscita del suo film, “La battaglia di Algeri”, quando ad una mia domanda mi rispose che, tra le tante ragioni che lo avevano spinto a raccontare la resistenza del popolo algerino, aveva il fondato timore che, prima o poi, tutte le guerre di liberazione, inclusa quella che avevamo combattuto insieme, sarebbero state catalogate come terrorismo, criminalizzate e poi dimenticate.
Parole profetiche. Il contagio della rimozione si è propagato a macchia d’olio e i suoi effetti collaterali sono stati la condanna della violenza e l’assunzione della “non violenza” come nuovo orizzonte ideale, in ogni luogo e in ogni tempo, anche da parte di una certa “sinistra”. Ricordo la grande delusione di Nori quando lesse, e commentammo indignati, le parole pronunciate da Fausto Bertinotti in un discorso tenuto a Venezia nel 2006 quando il leader di Rifondazione completò la sua uscita dal comunismo novecentesco annunciando una sua sorprendente catarsi e il suo ripensamento purificatorio rispetto alla violenza sanguinosa della guerra di liberazione, accompagnato da una severa critica verso gli storici di sinistra che l’avevano “angelizzata” e “santificata”.
Ma l’eclettico personaggio non si limitò ad annunciare questa camaleontica catarsi. Non pago delle 82 apparizioni a “Porta a porta” (record finora imbattuto), durante le quali aveva dissertato su tutto, da Pasolini a Tocqueville, dalle astronavi ai tostapane, si improvvisò anche critico cinematografico per stroncare (con quarant’anni di ritardo) il capolavoro di Gillo Pontecorvo la “Battaglia di Algeri”, in quanto carico di violenza e di terrorismo.
Nori, anche se amareggiata da quel commento, era molto fiera, pur nelle debite differenze, che il suo ruolo di staffetta della 3° GAP apparisse simile a quello delle ragazze algerine che rispondevano con i cestini esplosivi ai crimini, mille volte più feroci e letali, compiuti dai parà di Massù e dai terroristi francesi dell’OAS contro il loro popolo.
Nori ci lascia perfettamente cosciente dei tempi difficili che stiamo vivendo e del prezzo che stiamo pagando per le sconfitte subite : la differenza tra vincitori e vinti è stata azzerata, le accuse di crudeltà e ferocia equamente distribuite tra vittime e carnefici. Molte delle belve hitleriane che Nori ha combattuto sono state riciclate, dai loro potenti protettori di Langley, nei servizi segreti della BND di Berlino e coltivano rose nei loro accoglienti giardini. Nelle nostre strade e negli stadi riappaiono le croci uncinate, i saluti fascisti, le camicie nere, brune e verdi.
Ma l’impavida “Sandra”, benché considerata figlia di un dio minore per i suoi trascorsi guerriglieri, ha continuato la sua battaglia, armata della sua intelligenza e della sua cultura comunista. La sua vita è stata il susseguirsi di un impegno politico e ideale compiuto “senza tregua” e con infinita modestia al servizio del movimento operaio sempre e dovunque. Anche se i tardivi riconoscimenti ufficiali li ha avuti (obtorto collo) come valorosa guerrigliera urbana della 3° GAP, nessuno ha dimenticato anche quello che Nori ha fatto dopo il 25 aprile, “quando cessarono gli spari”, come dirigente sindacale e politica. Sicuramente tra il prima, che la vede impegnata in uno scontro militare durissimo, contro un nemico spietato e feroce, e il dopo che impone, soprattutto a chi ha combattuto, di ricostruire in pace un paese democratico, devastato dal nazifascismo, c’è un filo conduttore di solido acciaio che non si è mai spezzato. I giovani studenti ai quali Nori ha raccontato la sua vita hanno sicuramente capito che la Costituzione repubblicana è il risultato di questa continuità ed è stata scritta, più che con l’inchiostro, col sangue di 50 mila partigiani caduti in battaglia o massacrati dai nazifascisti e grazie all’eroismo di donne come Nori.