di Antonio Frattasi | da www.comunisti-italiani.it
Trenta anni fa, nel 1982, il 30 aprile furono uccisi, in Via Generale Turba, una stradina del centro storico di Palermo, Pio La Torre, segretario regionale del PCI, e Rosario Di Salvo, il compagno che aveva l’incarico di tutelare la sicurezza del dirigente comunista.
Si parlò di un delitto di mafia, di un agguato voluto da alcuni boss per vendicarsi dell’azione coraggiosa svolta da La Torre per introdurre nel nostro ordinamento giuridico il reato di associazione per delinquere di stampo mafioso (art.416 bis) e la confisca dei patrimoni accumulati dagli aderenti a Cosa Nostra. Uomini di famiglie mafiose furono gli esecutori materiali del duplice omicidio (per il quale sono stati condannati definitivamente i vertici della Cupola: Michele Greco, Totò Riina, Bernardo Provenzano, Pippo Calò, Nenè Geraci) ma la mente che li armò era tutta politica.
La Torre, un uomo del Sud ed un grande dirigente delle lotte contadine del dopoguerra, nacque a Palermo il 24 dicembre del 1927, da una famiglia di braccianti agricoli, ultimo di cinque figli, tre maschi e due femmine. Diplomato all’istituto tecnico industriale si iscrisse alla facoltà di Ingegneria, e, nel 1945, al PCI. Aprì subito una sezione nella sua borgata, ed un’altra in luogo vicino, ma la cosa diede molto fastidio alla mafia. La stalla della famiglia la Torre fu incendiata, e Pio, il giovane dirigente comunista, ebbe dissapori con i genitori che gli imposero di scegliere tra l’impegno politico e sindacale ed il quieto vivere.
Pio coraggiosamente scelse il partito e la difesa dei deboli. In quegli anni i sindacalisti ed i dirigenti comunisti e socialisti erano insultati, minacciati, se osavano guidare le lotte dei braccianti e dei contadini per ottenere condizioni migliori di vita. Quando non si piegavano ai soprusi, venivano uccisi dalla mafia del latifondo. Placido Rizzotto fu assassinato da Luciano Liggio, ma tanti altri sindacalisti scomparvero perché mettevano in discussione l’ordine imposto dalla mafia del latifondo. In quel clima di violenza, di arroganza baronale, si compì la strage di Portella della Ginestra.
La Torre, intanto, fu impegnato, con responsabilità crescenti, nella Lega dei braccianti, poi nella Federterra e nella CGIL.
Nel marzo del 1950 si pose alla testa di un corteo di contadini che occupò il feudo di Santa Maria del Bosco, di proprietà di un nobile. Vi furono scontri con la polizia ed i carabinieri. La Torre fu arrestato ed incarcerato, restando all’Ucciardone sino all’agosto del 1951. La giovane moglie Giuseppina riuscì a fargli visita appena poche volte in quel carcere dove erano reclusi alcuni degli uomini più violenti della banda Giuliano, tra i quali Gaspare Pisciotta, il luogotenente del bandito, in torbidi rapporti con apparati dello Stato.
Uscito dall’Ucciardone, La Torre divenne consigliere comunale di Palermo, deputato regionale, segretario regionale della Sicilia e segretario della federazione di Palermo. Fu un dirigente autorevole del partito siciliano (che, intorno a Li Causi, vedeva crescere un gruppo di giovani preparati: Emanuele Macaluso, Nicola Cipolla e Pancrazio de Pasquale), stimato ed apprezzato per la sua dirittura morale e per le sue doti di organizzatore ed oratore. Ma, nonostante la stima e la fiducia di cui godeva ampiamente, non gli mancarono momenti di amarezza, dovuti all’asprezza che raggiunse, in alcuni difficili momenti, il dibattito interno al gruppo dirigente.
Nel 1972 fu eletto alla Camera dei deputati (sarebbe stato riconfermato sino alla legislatura del 1979, che non riuscì a portare a termine), poi ebbe incarichi nella Direzione e nella Segreteria nazionale del PCI, si trasferì a Roma e lasciò la Sicilia.
Nel 1979 scoppiò una terribile guerra di mafia che, nel giro di tre anni, insanguinò Palermo. Nello scontro con i corleonesi di Liggio e Riina, furono decapitate ed annientate le famiglie dei Bontate, dei Di Cristina e degli Inzerillo. Caddero vittime della violenza dei corleonesi Piersanti Mattarella, un politico coraggioso, Presidente della giunta regionale siciliana, ucciso il giorno dell’Epifania del 1980, ma anche fedeli servitori dello Stato come Cesare Terranova, magistrato ed ex deputato eletto da indipendente nelle liste del PCI, e Boris Giuliano, un investigatore di rara intelligenza, notevole acume e forte determinazione.
La Torre, alla fine del 1981, dopo una grave battuta d’arresto del PCI nelle elezioni per il rinnovo dell’assemblea regionale, chiese al partito di poter tornare nella sua terra. Era molto preoccupato per quello che stava accadendo, temeva un’offensiva ancora più terribile dei poteri criminali, vedeva il forte intreccio tra il potere economico finanziario di Sindona e le grandi famiglie mafiose siciliane d’oltreoceano, ma gli erano anche ben note le protezioni che il potere politico offriva ai clan.
Quando arrivò a Palermo aveva, dunque, idee molto precise su quello che occorreva fare per assicurare un futuro migliore alla Sicilia ed al Paese e per questa ragione fu ucciso.
Pio La Torre era tornato da Roma per affiancare la parte migliore dei siciliani nel contrasto alla mafia imprenditrice dei cugini Salvo e dei Cavalieri catanesi, protetta dai democristiani Lima, Gioia e Ciancimino. Non tutta la Direzione del PCI era convinta della scelta di Pio di tornare in Sicilia; Berlinguer era esitante, ed anche altri dirigenti nutrivano dubbi e perplessità politiche. Ma Pio era ostinato e non intendeva recedere dai suoi propositi. Dopo lunghe e tese discussioni, si giunse alla decisione di inviare a Palermo La Torre perché prendesse di nuovo in mano le redini del partito siciliano. Nel Comitato regionale la sua elezione fu contrastata da una parte dei compagni che, pur apprezzando la sua passione e la sua conoscenza dei problemi siciliani, non lo riteneva adatto a gestire una fase politica nuova che richiedeva una soluzione di continuità rispetto agli indirizzi che il PCI isolano aveva adottato dalla metà degli anni Settanta, indirizzi che lo avevano portato ad alleanze con la Democrazia Cristiana e con settori del mondo economico. Ma Pio, nonostante nella geografia interna del PCI fossa collocato nella cosiddetta destra migliorista, era convinto della necessità che si dovesse cambiare marcia, dialogare soltanto con gli esponenti autenticamente progressisti della DC e riconquistare il rapporto, che appariva incrinato, con quella parte della società siciliana che si mostrava più inquieta ed ansiosa di un profondo rinnovamento morale e civile. Questa convinzione segnò il suo destino. Il segretario regionale del PCI fu ucciso anche perché stava conducendo coraggiosamente ed ostinatamente la lotta contro l’installazione dei missili USA Cruise a Comiso, in provincia di Ragusa. Il governo italiano dell’epoca aveva deciso, infatti, su pressione del governo americano, di trasformare l’ex aeroporto militare nella base di missili nucleari più grande d’Europa.
La Torre comprese che bisognava avversare con decisione questo disegno, intensificò i contatti con il mondo del pacifismo, con i cattolici, con tutta la vasta galassia che si opponeva alla politica degli armamenti. Il PCI lanciò una petizione per raccogliere un milione di firme e chiedere la sospensione dell’inizio dei lavori. Intanto la mafia ed i poteri economici siciliani avevano fiutato che la base poteva rappresentare un’occasione per fare affari ed avevano iniziato l’accaparramento dei terreni.
La Torre, per lunghi anni della sua vita, era stato oggetto di attenzione da parte di servizi segreti che lo seguivano ovunque andasse, e, quando arrivò in Sicilia, intensificarono i loro controlli, perché temevano le conseguenze della sua lotta contro la mafia e contro i missili, ma anche perché sapevano che il dirigente comunista, dopo aver raccolto una notevole mole di informazioni da varie fonti riservate, aveva maturato la certezza (e la lasciava trasparire in discorsi, interviste ed atti parlamentari) che vi era un disegno torbido di alcuni importanti settori delle classi dirigenti italiane, che agivano in sintonia con centrali di intelligence americane, di usare ancor di più il terrorismo mafioso come antidoto alle conquiste democratiche, per spostare a destra l’asse politico del Paese. La Strategia della tensione dei primi anni Settanta ed il golpismo nero e bianco si erano dimostrati, nonostante il clima di allarme e di preoccupazione creato tra gli italiani, strumenti non sufficienti a bloccare i processi di democratizzazione della società. Occorreva, dunque, assestare un colpo molto più forte, più decisivo al PCI ed alle forze del progresso.
Questo colpo micidiale furono il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro e della sua scorta. La Torre aveva molto riflettuto su quel rapimento, sulla sua gestione durata cinquantacinque lunghi giorni. Non gli erano sfuggite le inquietanti presenze dei servizi segreti, il ruolo svolto dai poteri occulti, italiani e stranieri. La matrice internazionale del delitto Moro rappresentava un elemento di analisi sul quale riflettere con attenzione.
Pio La Torre sapeva che i gruppi politici ed economici che avevano interesse a stabilizzare in senso moderato la politica italiana avevano necessità di colpire ancora ed avevano bisogno di un braccio armato, al quale affidare la parte criminale dei loro disegni. Il leader comunista era consapevole dei rischi che correvano lui ed il gruppo dirigente siciliano del PCI più vicino alle sue battaglie. Temeva per la sicurezza dei compagni e sua: aveva lasciato la famiglia a Roma, si muoveva con molta attenzione, e quando avvertiva minacce concrete, lasciava per qualche giorno l’appartamento nel quale viveva, chiedendo momentanea ospitalità ad amici. Ma il fare ricorso a precauzioni non impedì ai sicari mafiosi di colpire lui e Rosario Di Salvo.
Fu un anno terribile il 1982: ad aprile era stato trovato decapitato ad Ottaviano Aldo Semerari, il criminologo fascista legato alla criminalità organizzata ed ai servizi segreti. A giugno era stato rinvenuto privo di vita a Londra il corpo di Roberto Calvi, uomo della finanza e dei poteri occulti, uno dei banchieri italiani più importanti e vicini al Vaticano, prima amico e sodale di Sindona in scorribande borsistiche e poi da questi ricattato e minacciato. Gli inquirenti inglesi si affrettarono a parlare di suicidio, ma le indagini successive, anche quelle svolte privatamente dalla famiglia Calvi, e la testimonianza di un pentito, il boss Francesco Di Carlo, dimostrarono che la verità era molto diversa. A luglio sarebbe stato ucciso, a Napoli, Antonio Ammaturo, capo della squadra mobile partenopea, un investigatore preparato, lucido e tenace che aveva scoperto troppe cose sul rapimento Cirillo e sulla trattativa tra lo Stato, la camorra e le Br. Infine, a settembre, Carlo Alberto Dalla Chiesa, nominato cento giorni prima della sua morte prefetto di Palermo, cadde, con la moglie e l’agente di scorta, sotto il fuoco dei killer della mafia. Anche per Dalla Chiesa come per la Torre si è parlato di omicidio commesso dalla mafia, ma deciso a livelli più alti. Mi sono soffermato sul 1982 perché sono convinto che quell’anno rappresenti uno dei punti più alti dell’offensiva reazionaria contro la democrazia nata dalla Resistenza e contro il PCI e la sinistra. La battaglia contro l’installazione dei missili a Comiso disturbò non soltanto gli affari della mafia, ma anche disegni di forze politiche italiane e straniere che volevano il pieno allineamento dell’Italia alle scelte degli Stati Uniti d’America. La morte di La Torre doveva rappresentare un monito per tutti quelli che manifestavano per la pace e contro i missili.
Negli anni Novanta, dopo le stragi mafiose che provocarono la morte di Falcone, e della moglie Francesca Morvillo, di Paolo Borsellino, delle loro le scorte, dopo l’emergere, con Tangentopoli, di una corruzione vasta e diffusa nata da un torbido intreccio di affari ed interessi che vedeva coinvolti, in un clima di complicità, alcuni gruppi di primo piano del capitalismo italiano (ENI, Montedison, Ferruzzi, ed anche Fiat) e forze politiche del pentapartito, ampi settori della società italiana ritennero che il sistema elettorale maggioritario potesse essere il medicinale giusto per vivificare una democrazia incapace di essere rappresentativa del Paese reale.
Una propaganda mediatica pervasiva, alla quale non fece mancare il suo apporto quella parte della sinistra che aveva deciso che l’esperienza del PCI era divenuta ormai soltanto un retaggio del passato, convinse gli italiani che l’abbandono del sistema proporzionale avrebbe reso la nostra democrazia più moderna ed aperta. Come l’esperienza storica ha ampiamente dimostrato, l’ubriacatura maggioritaria ha sicuramente favorito la nascita ed il consolidamento di forze che non avevano partecipato al processo di formazione della Costituzione repubblicana del 48, anzi che in alcuni casi si ponevano e si pongono in netta antitesi con questa. Quel che è certo è che il maggioritario non ha sicuramente favorito un diverso rapporto tra cittadini ed istituzioni, ed anzi ha favorito l’ esclusione dalle aule Parlamentari delle forze comuniste e di sinistra. Non ha creato le condizioni per la crescita e la formazione di nuovi e qualificati gruppi dirigenti dei partiti politici.
Il vento di antipolitica che oggi spira nel Paese non è un fenomeno nuovo, non è una conseguenza dei recenti scandali di sperpero dei rimborsi elettorali, perché esso è come un fiume carsico da un paio di decenni presente nella storia del nostro Paese. Talora esso ha assunto le sembianze del cesarismo mediatico berlusconiano; talaltra quelle di un rozzo populismo, esaltando gli impulsi più egoistici della gente del Nord ed il familismo di quella del Sud; in altri momenti ha mostrato il volto indignato della protesta contro i privilegi della casta. Una protesta superficiale, che seppur motivata da legittima indignazione, è priva di reale capacità di analisi e di approfondimento delle questioni, perché non sorretta da un metodo d’indagine che sappia interpretare il malaffare e le degenerazioni della politica come manifestazioni di contraddizioni della società capitalistica. Quella della cosiddetta antipolitica, dunque, è una protesta che si sofferma in maniera demagogica su alcuni aspetti di una realtà assai complessa, alimenta la rabbia, ma è incapace di indicare prospettive di effettivo cambiamento.
Oggi, la crisi economica che impoverisce i ceti medi, e che spinge ancora più in basso i redditi delle classi lavoratrici determina un clima di insofferenza verso le forme dell’agire politico. In fondo anche la stessa nascita del governo Monti è una manifestazione di sfiducia nei confronti della politica. Ma la vera risposta all’antipolitica, al dominio dei mercati finanziari, all’arroganza del potere è costituita dalla esemplare militanza politica di uomini come Pio La Torre e Rosario Di Salvo, morti entrambi in una mattina assolata dell’aprile di trenta anni fa, in una stradina di Palermo perché credevano che la Sicilia e l’Italia dovessero essere liberate per sempre dall’arroganza della mafia imprenditrice e perché credevano che le parole democrazia e comunismo non erano retaggi del passato, ma il futuro dell’umanità.
(Antonio Frattasi è segretario provinciale della Federazione Pdci di Napoli)
Sulla figura di Pio La Torre sono recentemente stati pubblicati due interessanti libri: “Chi ha ucciso Pio La Torre? di Paolo Mondani ed Armando Sorrentino, e “Uomini soli” di Attilio Bolzoni