“Il PCI di Luigi Longo”

di Giorgio Raccichini, PdCI Federazione di Fermo

longo pciResoconto dell’iniziativa di Porto San Giorgio, 19 ottobre 2013

Il 19 ottobre, a Porto San Giorgio, è stato presentato, nell’ambito del ciclo di iniziative “Letture del Novecento”, il libro “Il PCI di Luigi Longo” dello storico Alexander Höbel, membro del Comitato scientifico della Fondazione Luigi Longo e studioso del movimento operaio e del partito comunista. Attraverso un’esposizione chiara ed efficace, Höbel ha ricostruito il complesso e vivace dibattito interno al gruppo dirigente del Partito Comunista Italiano all’epoca della segreteria di Longo (1964-1969), affrontando le questioni più importanti della politica italiana e internazionale degli anni ’60, in parte ancora attualissime.

Lo storico ha sgombrato subito il campo da un luogo comune ampiamente diffuso nella storiografia sul PCI: quello della segreteria di Longo non fu un mero periodo di transizione, poiché in quei pochi anni vennero ripresi e rielaborati aspetti essenziali della linea politica della fase togliattiana, fornendo successivamente ad Enrico Berlinguer un’eredità che permise al PCI di raggiungere il culmine del suo prestigio a livello nazionale e in campo internazionale.


Il PCI, rielaborando nel contesto italiano i principi del leninismo, intraprese fin dall’epoca di Togliatti un percorso di costruzione del socialismo che non poteva non discostarsi, date le diverse condizioni storiche, da quello sovietico.

Vorrei ricordare che già Lenin e Stalin avevano compreso, evitando schematismi dogmatici, quanto fosse importante valutare le differenze tra il contesto russo e quello dell’Europa occidentale. In “L’estremismo malattia infantile del comunismo” Lenin scrisse: «In Russia, nella situazione concreta e storicamente originalissima del 1917, fu facile iniziare la rivoluzione socialista, mentre continuarla e condurla a termine sarà per la Russia più difficile che per i paesi europei. […] Condizioni specifiche come : 1) la possibilità di legare la rivoluzione sovietica con la fine (grazie alla rivoluzione stessa) della guerra imperialista che infliggeva indescrivibili sofferenze agli operai e ai contadini; 2) la possibilità di sfruttare, per un certo tempo, la lotta mortale fra due gruppi di predoni imperialisti di potenza mondiale, i quali non potevano unirsi contro il nemico sovietico; 3) la possibilità di sostenere una guerra civile relativamente lunga, in parte grazie all’enorme estensione del paese e agli scarsi mezzi di comunicazione; 4) l’esistenza fra i contadini di un movimento rivoluzionario democratico borghese così profondo, che il partito del proletariato poté far proprie le rivendicazioni rivoluzionarie del partito dei contadini […] e attuarle immediatamente grazie alla conquista del potere politico da parte del proletariato; tali condizioni specifiche non esistono ora nell’Europa occidentale, né è troppo facile che esse, o altre simili, si presentino un’altra volta. Ecco perché fra l’altro, e prescindendo da una serie di altre cause, iniziare la rivoluzione socialista è più difficile per l’Europa occidentale di quanto non fu per noi. Tentare di “aggirare” tale difficoltà “saltando” il duro compito dell’utilizzazione dei parlamenti reazionari a scopi rivoluzionari è semplicemente puerile»1.

A questa significativa analisi di Lenin, si può aggiungere quella di Stalin riportata nel “Diario” di Dimitrov. Partendo dalla constatazione che nell’Europa occidentale non si erano verificate rivoluzioni socialiste, Stalin condusse un’analisi delle differenze tra la situazione della Russia e quella di altri Paesi europei. «I nostri uomini del Comintern» affermò il dirigente sovietico «trasferiscono sopra gli operai europei tutto ciò che era giusto per gli operai russi. Essi non capiscono che da noi di fatto non c’era parlamentarismo. Gli operai russi non ricevettero nulla dalla Duma. Non è così in Europa. Se la nostra borghesia avesse avuto altri trent’anni di tempo, sicuramente si sarebbe collegata attraverso il parlamentarismo alle masse, e allora per noi sarebbe stato molto più difficile buttarla giù. Non bisogna inveire contro la democrazia parlamentare, ma bisogna spiegare alle masse operaie questa evoluzione»2. Proseguì poi mettendo in luce l’importanza del colonialismo nel frenare le spinte rivoluzionarie della classe operaia dei Paesi dell’Europa occidentale: “I paesi europei non hanno a sufficienza proprie materie prime, carbone, lana, ecc. Essi contano sulle colonie. Senza colonie non possono esistere. Gli operai lo sanno e temono la perdita delle colonie. E in questo senso sono inclini a marciare con la propria borghesia. Nel loro intimo non sono d’accordo con la nostra politica antimperialista. Hanno perfino paura della nostra politica. E perciò sono necessari un paziente lavoro di chiarimento e un approccio giusto nei confronti di questi operai»3.

È evidente dai brani riportati che Lenin e Stalin erano ben consapevoli delle diversità che intercorrevano tra la Russia e i Paesi a capitalismo e a parlamentarismo avanzati ed erano consci della necessità di percorsi rivoluzionari differenti, tenendo ferma l’esigenza dell’esistenza di un partito rivoluzionario di avanguardia strettamente legato alle masse operaie e lavoratrici.

In Italia la rinuncia alla via armata al socialismo cominciò con la nascita stessa della Repubblica italiana, quando il Partito Comunista godeva di un prestigio immenso, era forte qualitativamente e quantitativamente e aveva un vasto seguito di massa; nonostante ciò le condizioni per trasformare la rivoluzione democratico-borghese in rivoluzione socialista non sussistevano per tre motivi: 1) la minaccia di intervento militare anglo-americano; 2) le forti divisioni all’interno delle classi lavoratrici, in gran parte ancora fortemente sfavorevoli ad una rivoluzione socialista; 3) le differenze nel grado di sviluppo del blocco social-comunista nelle varie parti d’Italia.

Tenendo conto di questo quadro, il Partito Comunista Italiano decise di intraprendere il lungo percorso verso la costruzione del socialismo in Italia stimolando l’elevazione politico-culturale delle masse lavoratrici e lottando per l’allargamento dei diritti politici e socio-economici dei lavoratori, battendosi cioè per l’attuazione piena dei principi contenuti nella Costituzione italiana. Perché ciò si potesse verificare erano necessarie, secondo i dirigenti comunisti, vaste alleanze sociali e politiche. Il dialogo con i cattolici e con i socialisti divenne perciò uno dei punti centrali della linea politica del PCI, dal momento che la costituzione di un’alleanza sociale che comprendesse operai, agricoltori, impiegati, intellettuali e settori progressisti della borghesia era considerata di estrema importanza per sconfiggere il blocco di potere imperniato intorno ai dorotei della DC e perseguire l’obiettivo di costituire una nuova maggioranza che desse piena attuazione al testo legislativo fondamentale della nostra Repubblica. Secondo lo stesso Longo, la lotta contro la povertà e lo sfruttamento capitalistico e l’opposizione alle guerre imperialiste e alla logica dei blocchi militari contrapposti erano questioni di principio sui quali la tradizione cattolica e quella social-comunista dovevano necessariamente incontrarsi.

Molto interessante, nel periodo della segreteria di Longo, è il dibattito che si svolse all’interno del PCI in merito ai rapporti con l’altro partito legato al movimento operaio italiano: il Partito Socialista. Autorevoli dirigenti, in primis Giorgio Amendola, spingevano verso la costituzione del partito unico della classe operaia e quindi verso la fusione tra PCI, PSI e PSIUP, funzionale anche a contrastare la deriva centrista dei socialisti. «A rilanciare decisamente il tema dell’unità del movimento operaio è Amendola, da sempre assertore della politica unitaria. […] Egli prende spunto da una lettera di Bobbio […] in cui il filosofo liberal-socialista […] aggiunge: “L’Italia è matura per un grande partito unico del movimento operaio”. Nella sua risposta Amendola rileva il “fallimento della socialdemocrazia, che non è andata mai oltre la gestione degli affari della borghesia”, ma anche “la incapacità dei comunisti a realizzare l’unità della classe operaia sotto la loro direzione”; perciò vede negli ultimi decenni un “arretramento del movimento operaio occidentale”, dovuto alla sua divisione. “Di qui l’esigenza di lavorare […] alla formazione di un partito unico del movimento operaio, nel quale trovino il loro posto i comunisti, i socialisti ed uomini come Bobbio”, eredi “della battaglia liberale iniziata da Piero Gobetti”»4. Tuttavia, riguardo alla prospettiva della creazione di un partito unico del movimento operaio italiano non tutti i dirigenti comunisti, pur avvertendo l’importanza della questione e non essendo pregiudizialmente contrari, furono d’accordo, soprattutto perché in larga maggioranza il PSI era orientato alla fusione con il Partito socialdemocratico di Saragat, il quale costituiva uno dei pilastri del blocco di potere doroteo. Nel corso della segreteria di Longo, infatti, la proposta di una fusione tra PCI e PSI si arenò di fronte al processo di unificazione tra PSI e PSDI, che di fatto si verificò nel 1966 spingendo i comunisti a limitare l’offensiva unitaria alla sinistra del PSI e al PSIUP.

Interessante, per gli spunti che può offrire ai comunisti e alla sinistra nell’attuale fase politica, fu la posizione di Longo: «egli conferma il duplice obiettivo […] “unità d’azione” delle forze che “lottano per un rinnovamento democratico” e “unificazione in un solo partito” di quelle che mirano alla “trasformazione socialista”, anche con un processo federativo in cui ciascuna forza “conservi la propria autonoma fisionomia”»5.

Rispetto al periodo togliattiano Longo introdusse delle novità importanti, che poi vennero riprese e portate avanti da Enrico Berlinguer. Una di queste, ben messa in evidenza da Höbel, riguardò i metodi di direzione del partito. Longo concretizzò pienamente il principio della direzione collegiale: la discussione all’interno del gruppo dirigente doveva essere, come effettivamente fu in quegli anni, libera e anche molto animata, ma doveva trovare infine una sintesi che fosse accettata da tutti; Longo lavorò sempre per favorire l’unità della direzione, non imponendo la sua volontà, ma ricercando la sintesi tra le varie posizioni emerse nel dibattito. Venne quindi difeso da Longo uno dei principi cardine dell’organizzazione di un partito comunista, quello del centralismo democratico, che coniuga il momento democratico della discussione con la disciplina nell’accettazione e nell’applicazione della linea approvata a maggioranza. Una delle questioni che più animò l’XI Congresso del PCI riguardò proprio la democrazia interna in seguito alla proposta ingraiana di “pubblicità del dibattito”, nella quale Longo vide il pericolo di frazionismo, un allentamento pericoloso della disciplina: rendere continuamente pubblico il dissenso di alcuni dirigenti rispetto alla linea approvata a maggioranza avrebbe condotto parti importanti del partito all’inattività, se non addirittura a forme di contrapposizione al partito. Höbel scrive citando un intervento di Longo al Congresso: «C’è bisogno “del franco confronto delle idee” ma anche “della unità dell’azione e della disciplina politica […]. Un dibattito permanente e su ogni cosa […] non crea né chiarezza né efficacia”. In questo senso Longo ribadisce la validità del centralismo democratico, non citato esplicitamente ma inteso come la “discussione più approfondita, per giungere a decisioni che, una volta assunte, impegnano tutti”. Gli ultimi passaggi, in polemica con Ingrao, riguardano la discussione precongressuale (spesso condotta “in modo ermetico”, con una “critica generica, astratta, e perciò non produttiva”) e la “pubblicità del dibattito”: “Non capisco […] quale significato può avere l’insistenza con cui alcuni compagni rivendicano ancora la cosiddetta ‘pubblicità del dibattito’. Che cosa si dovrebbe fare di più […]? […] Tenere continuamente aperto il dibattito, anche dopo le decisioni prese […]? Far pesare […] sulle decisioni prese […] la contestazione, il dubbio, la diffidenza?”»6.

Un’altra novità introdotta da Longo fu quella di destinare una quota importante dei seggi parlamentari del Partito Comunista a personalità indipendenti di diversa estrazione politico-culturale: cattolici di sinistra, socialisti, azionisti, ecc. Una tale decisione fu lungimirante e, raccolta da Enrico Berlinguer, permise al PCI di accrescere il proprio prestigio politico e determinò un arricchimento della vita democratica dell’Italia7.

Il PCI, negli anni ’60, dovette prima di tutto confrontarsi con una realtà politica italiana caratterizzata dall’esperienza di centro-sinistra, nei confronti della quale, almeno inizialmente, i comunisti si dimostrarono aperti; in particolare, la maggioranza del partito lesse le riforme come conquiste per le classi lavoratrici e interpretò l’alleanza tra DC e PSI come un primo passo verso un riavvicinamento tra movimento operaio e masse cattoliche, che avrebbe dovuto a sua volta condurre alla fine della “conventio ad excludendum” nei confronti del PCI. In base a questa interpretazione i comunisti decisero di intraprendere un’opposizione costruttiva, la quale avrebbe dovuto cioè spingere il centro-sinistra a realizzare riforme attuative dei principi fondamentali della Costituzione. Per esempio, grazie a questa tattica il PCI ottenne dei risultati importanti nella lotta per l’introduzione di una normativa che vietasse i licenziamenti senza giusta causa, poi recepita qualche anno più tardi dallo Statuto dei lavoratori, che in questo punto specifico è stato recentemente manipolato in maniera mortale dal governo Monti e dalla sua maggioranza parlamentare. Höbel sostiene che «sul tema delle riforme, dunque, il rapporto tra PCI e centro-sinistra è articolato. Se alcuni provvedimenti governativi sono criticati per i loro limiti, per poi essere sostenuti o valorizzati nei loro aspetti riformatori, non meno frequente è la dinamica opposta, per cui proposte di riforma avanzate dai comunisti inducono il governo a presentare suoi progetti sugli stessi temi, naturalmente con un taglio diverso. In tal senso il PCI esercita, pur dall’opposizione, un’importante funzione di stimolo all’azione riformatrice del governo, ‘tallonandolo’ su questioni cruciali, aprendo contraddizioni nella maggioranza»8.

All’interno del PCI si formò tuttavia, fin dall’ultimo periodo della segreteria di Togliatti, una minoranza di sinistra fortemente critica rispetto al centro-sinistra e alle riforme, interpretate come elementi di una strategia pensata dalle forze del grande capitale per integrare la classe operaia, per smorzarne lo spirito combattivo.

Questo dibattito tra la maggioranza e la minoranza si accentuò negli anni della segreteria di Longo, ma non arrivò mai a determinare la nascita di correnti organizzate. In realtà sulle diverse questioni non di rado si manifestava all’interno del PCI una variabilità degli schieramenti che impediva di fatto la cristallizzazione in frazioni.

Il libro di Höbel affronta diverse altre tematiche, molte delle quali sono state approfondite o semplicemente accennate nel corso dell’iniziativa: il problema della casa e la proposta comunista di introdurre una legge sull’equo canone, la riforma del diritto di famiglia e il divorzio, le battaglie per l’introduzione della democrazia nei luoghi di lavoro e per l’aumento dei salari, le lotte per l’introduzione delle Regioni e contro le spinte presidenzialiste, il dibattito tra i dirigenti comunisti sulla riforma del Parlamento, la battaglia internazionalista contro l’aggressione statunitense al Vietnam, e così via.

Su due argomenti è necessario soffermarsi, seppur in maniera molto breve, data l’importanza che hanno all’interno del libro e in considerazione della loro attualità.

Il primo tema è quello della programmazione economica, che poteva essere uno strumento utile al rafforzamento del potere economico dei gruppi monopolistici o, al contrario, tradursi in una gestione democratica e antimonopolistica dell’economia.

Il PCI avanzò la proposta di un’economia mista in cui, accanto ad un settore statale prevalente e con funzioni direttive, si riconoscesse il ruolo importante della piccola e media impresa. Sia Longo che successivamente Berlinguer furono molto chiari su questo punto: il primo, intervistato da Scalfari nel 1964, affermò che «il PCI si batte per una “programmazione democratica che non liquidi il mercato, ma ne subordini le scelte […] all’interesse generale […]. Noi non proponiamo la liquidazione del profitto, ma la liquidazione delle posizioni di rendita e di sovraprofitto. Ogni imprenditore che si muoverà nell’ambito delle grandi scelte del piano dovrà avere la garanzia di un equo profitto”»9; Enrico Berlinguer, da segretario, nel 1976 ribadì: «Da noi il settore pubblico è già molto esteso. Dunque, forme miste di impresa pubblica e privata possono esistere anche in una società socialista. Anzi, in un paese industrializzato come l’Italia è conveniente da tutti i punti di vista, e non solo da quello economico, mantenere l’impresa privata. L’elemento unificante è la programmazione, che stabilisce il quadro di certezze entro il quale operano sia il settore privato che quello pubblico».

Per ridurre il potere dei monopoli e rafforzare il ruolo dello Stato, i comunisti proposero, come afferma Höbel riportando le parole di Amendola, «una “politica economica alternativa” che consenta la “direzione pubblica dell’investimento dei grandi gruppi”, e una “commissione parlamentare permanente di controllo sui gruppi monopolistici”, ma anche […] “un coordinamento dei programmi di investimento” delle imprese pubbliche volto a “uno sviluppo industriale integrato”, e un “forte impegno nel campo della ricerca”»10. Inoltre, affinché la programmazione fosse orientata a realizzare gli interessi dei lavoratori e ad erodere le posizioni di forza dei gruppi monopolistici, era necessaria la partecipazione democratica diretta dei lavoratori nell’elaborazione delle scelte programmatiche.

I punti essenziali delle proposta del PCI furono quindi il rafforzamento di un’impresa di Stato depurata da fenomeni di corruzione e clientelismo, la lotta alle posizioni dei gruppi monopolistici anche attraverso un controllo pubblico dei loro programmi di investimento, la partecipazione diretta dei lavoratori alla programmazione economico-produttiva, la tutela del ruolo delle piccole e medie imprese private nel rispetto degli obiettivi della programmazione generale e dei diritti dei lavoratori.

Il secondo argomento che mi preme mettere in evidenza è quello della politica internazionalista del PCI. Già Togliatti aveva promosso la linea dell’«unità nella diversità», secondo la quale i partiti operai e comunisti avrebbero dovuto collaborare nel pieno rispetto delle diverse strade che ognuno di essi avrebbe deciso di intraprendere per costruire il socialismo. Il dibattito democratico nel movimento comunista internazionale doveva essere promosso senza esitazioni e le eventuali divergenze non avrebbero dovuto mettere a rischio la sua unità.

In merito alla gravissima rottura tra Unione Sovietica e Cina Popolare, Togliatti e poi Longo si posizionarono politicamente a sostegno della prima, ma cercarono di scongiurare pericolose scomuniche ai danni dei cinesi. Per il PCI, infatti, l’unità del movimento comunista internazionale era una delle principali garanzie per il mantenimento della pace mondiale e per il progresso dell’umanità. Nel 1963 Pietro Secchia disse in merito alle discordie sino-sovietiche: «Il dibattito in corso e sviluppatosi in questi anni è dunque un dibattito non tra sostenitori ed avversari del comunismo, del marxismo, ma tra uomini e partiti che reciprocamente si stimavano e riconoscevano come grandi teorici del marxismo-leninismo, come combattenti rivoluzionari, come partiti che avevano “saputo non soltanto sognare il socialismo, ma combattere e vincere per realizzarlo”. Quando la discussione avviene tra partiti comunisti di questa forza, mi sembra che senza essere disgiunto dai problemi che sono al fondo delle divergenze, quello dell’unità diventa esso stesso un problema di fondo, di principio che non può assolutamente essere trascurato e posto in secondo od ultimo piano nella discussione. […] Noi affermiamo e giustamente che il problema che sta al di sopra di ogni altro è il problema della pace, ma la più solida garanzia di successo nella lotta per la pace e per la coesistenza pacifica è l’unità del campo socialista e la responsabilità maggiore per il mantenimento di questa unità spetta proprio ai partiti comunisti dell’Unione Sovietica e della Cina Popolare».

Durante il periodo delle segreteria di Longo e, successivamente, negli anni berlingueriani, la lotta per la pace e la coesistenza pacifica non si intrecciò esclusivamente alla questione dell’unità del campo socialista, ma anche all’obiettivo della liquidazione dei blocchi militari contrapposti. Per il perseguimento di questo fine il PCI svolse un ruolo di primo piano, assumendo una notevole importanza sul piano internazionale: da una parte rafforzò i propri legami con i movimenti antimperialisti e i Paesi non allineati e dall’altra promosse una più stretta unità d’azione con i partiti comunisti e i partiti socialdemocratici più progressisti dell’Europa occidentale. Già con Longo quest’ultima diventò uno dei principali campi d’azione nella politica estera del PCI, dal momento che un’Europa democratica e non allineata avrebbe potuto contribuire fortemente al mantenimento della pace mondiale, allo smantellamento dei blocchi militari e al progresso dell’umanità. Questa linea europeista e internazionalista fu poi ereditata da Berlinguer, che ne accentuò alcune caratteristiche, come per esempio il distacco del PCI da Mosca, in parte spiegabile alla luce dell’intervento sovietico in Cecoslovacchia avvenuto nella fase finale della segreteria di Longo e contro il quale il PCI si pronunciò in maniera molto dura; Höbel così conclude il capitolo relativo alla Primavera di Praga: «L’esigenza di una revisione del giudizio sull’Unione Sovietica e dei rapporti col PCUS è particolarmente viva in Berlinguer. In un’intervista egli critica la ‘normalizzazione’, definendola “un concetto discutibile”. “Per noi – aggiunge – normalizzazione significa […] ripristino pieno della sovranità nazionale”, e dunque “non soltanto ritiro delle truppe, non solo non ingerenza, ma […] pieno esercizio dell’autorità negli organi di Stato e di partito legali”. In generale tra i paesi socialisti vi sono “rapporti sbagliati”, che vanno corretti. “Non pretendiamo di dar lezioni”, ma “intendiamo discutere con franchezza su tutti i nodi ancora irrisolti”. […] L’atteggiamento verso la Primavera di Praga e la condanna dell’intervento del Patto di Varsavia segnano dunque un «primo ‘strappo’» e «una discontinuità nei rapporti» tra PCUS e PCI; un punto di non ritorno nel rapporto con l’Unione Sovietica, e in generale nelle posizioni dei comunisti italiani sulla transizione al socialismo e sulla gestione dei problemi che emergono nel corso di tale processo storico. Il PCI […] tenta di riprendere il discorso sul socialismo in Occidente ponendolo ancora più nettamente su basi diverse (e potenzialmente più avanzate) rispetto al “socialismo reale”, mirando a un modello di democrazia socialista, a un’economia mista di transizione, a una diversa collocazione dell’Italia e dell’Europa nel quadro internazionale in vista del superamento dei blocchi: una concezione che implica un superamento – o almeno un’attenuazione – di quegli equilibri ferrei»11.

Alla luce di ciò che sta avvenendo in questi anni a livello internazionale, con lo sviluppo di modelli nuovi e diversi di transizione al socialismo o di lotta contro il capitalismo, in cui i partiti comunisti svolgono un ruolo fondamentale e molto spesso di avanguardia, senza la presenza di un organismo accentratore come fu l’URSS per una buona parte del periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale, si può ben affermare che è stata proprio la posizione del PCI a rivelarsi giusta.

«Guardare avanti, ancora avanti, nessun uomo politico compì mai nulla di duraturo guardando indietro: questa la linea di Longo» così nel 1970 Pietro Secchia sintetizzò il pensiero di Luigi Longo, che rappresenta per noi comunisti del XXI secolo un invito ad essere saldi nei nostri principi, ma mai dogmatici e settari.

NOTE

1 Lenin, L’estremismo malattia infantile del comunismo, Editori Riuniti, 1972, pp. 95-96.

2 Ruggiero Giacomini, Stalin “segreto”: dal Diario di Dimitrov, in Stalin nella storia del Novecento, Teti editore, 2004, pp. 39-40.

3 Ruggiero Giacomini, Stalin “segreto”, pp. 40-41.

4 Alexander Höbel, “Il PCI di Luigi Longo”, ESI, 2010, pag. 83.

5 Höbel, “Il PCI di Luigi Longo”, pp. 132-133.

6 Höbel, “Il PCI di Luigi Longo”, pag. 213.

7 Su questo tema si legga il bel volume dello storico Giambattista Scirè intitolato “Gli indipendenti di sinistra” (Ediesse, 2012).

8 Höbel, “Il PCI di Luigi Longo”, pag. 127.

9 Höbel, “Il PCI di Luigi Longo”, pp. 60-61.

10 Höbel, “Il PCI di Luigi Longo”, pag. 237.

11 Höbel, “Il PCI di Luigi Longo”, pag. 549-550.