di Alessandro Leogrande | da Pubblico
Ci sono delle vecchie immagini girate da Luca Comerio, uno dei pionieri del documentarismo italiano, nella Piazza del Pane a Tripoli nel 1911. La camera indugia sul via vai dei nostri militari in divisa che si affollano lungo la strada, poi l’inquadratura si allarga ed entra in scena un patibolo: almeno venti arabi, tutti uomini, pendono irrigiditi con un cappio al collo. Sono stati da poco impiccati. Chi ha mai visto queste immagini di Comerio (riprodotte per pochi secondi in un vecchio film di Cecilia Mangini, Lino Del Fra e Lino Miccichè, All’armi siam fascisti!, recentemente ripresentato in dvd da Raro Video)? Quanti studenti di storia contemporanea le conoscono, sanno a cosa rimandano? Immagino pochissimi. La loro rimozione dalla memoria collettiva è direttamente proporzionale alla rimozione del colonialismo in Africa e nei Balcani. Un inspiegabile, lungo buio. Un lento, carsico lavorio che via via ha espunto le pagine nere della nostra storia recente, e creato il mito infondato degli “italiani brava gente”.
Boris Pahor, probabilmente il maggiore scrittore sloveno di cittadinanza italiana, ne ha scritto a lungo nella sua recente autobiografia, Figlio di nessuno (Rizzoli). Il totalitarismo fascista, direttamente o indirettamente (tramite, ad esempio, il duce croato Ante Pavelic), ha mietuto per molti anni migliaia di vittime: uomini, donne, bambini, “serbi, zingari, musulmani, ebrei, e oppositori al regime degli ustascia”. È stata una mattanza che avuto i suoi burocrati, i suoi gerarchi, i suoi esecutori. Una mattanza non inferiore alle nefandezze dei nazisti, senza la quale è impossibile comprendere le recrudescenze del “confine orientale” in anni successivi. Senza trovare una risposta plausibile, Pahor ritiene “inammissibile che nella letteratura postbellica italiana non si accenni alla vera importanza del fascismo nell’Europa della Seconda guerra mondiale, cercando invece di minimizzare il ruolo”.
Perché tanto silenzio? Perché tanto silenzio non riguarda solo la Jugoslavia o l’Albania, ma anche l’Africa “italiana”? Come per il “confine orientale”, anche per la “riva sud” del Mediterraneo sono rari i libri come quelli di Angelo Del Boca (I gas di Mussolini, A un passo dalla forca, La guerra d’Etiopia, Italiani brava gente?) in cui si raccontano le nostre “imprese” per ciò che sono state, cioè veri e propri atti di genocidio: bombardamenti di quartieri civili, uso di armi chimiche, deportazioni di massa, creazione di campi di concentramento. E allora non sorprende che nell’Italia del 2012 sia passato sotto silenzio la costruzione, con soldi pubblici, di un mausoleo in onore di Rodolfo Graziani, “il governatore generale di Libia”, “il viceré di Etiopia”, più noto presso gli arabi come “il macellaio di Fezzan”, e che ad accorgersene e a indignarsi siano stati solo in pochi. Così come non sorprende che il film di Mustafa Akkad sulla vita del leader anti-colonialista libico Omar al-Mukhtār , Il leone del deserto (con Anthony Quinn come protagonista), sia rimasto vittima di censura per circa trent’anni perché “lesivo dell’onore dell’esercito italiano”. Per la cronaca, la censura cadde solo dopo la celebre visita di Gheddafi a Roma nel 2009, quella in cui piazzò la sua tenda a Villa Pamphili: per l’occasione venne proiettato su Sky. Sembra passato un secolo…
Questo negazionismo strisciante, oltre a creare una memoria del Novecento del tutto edulcorata, ci impedisce di cogliere le forme di neocolonialismo che ritornano, alimentando per giunta il nostro innato provincialismo.
Quando cadde il regime comunista albanese, e iniziarono i massicci viaggi dei migranti verso l’Italia, Gianni Amelio fu il solo – con il suo film Lamerica – a spostare l’attenzione sugli anni quaranta del Novecento, a vedere in quel tratto essenziale della nostra contemporaneità (i boat-people) il riflesso del nostro passato coloniale. Fu una scelta isolata, e difatti del tutto incompresa; eppure senza una relazione tra lo ieri e l’oggi è impossibile comprendere il nostro rapporto con l’Albania contemporanea: comprendere ad esempio perché lì, ancora oggi, parlino tutti l’italiano; e perché tutti i nostri call center stiano chiudendo qui per riaprire, lì, a Tirana e Durazzo, assumendo migliaia di ragazzi che, per poche centinaia di euro al mese, sono pronti a venderci la nostra America quotidiana. La nostra Italia.
[Pubblicato in forma più breve su Orwell del 13/10/12.]