di Manfredi Alberti | da il Manifesto
«Il Pci di Luigi Longo» di Alexander Höbel
L’ultimo lavoro di Alexander Höbel, dedicato alla storia del Partito comunista italiano nel periodo compreso fra la morte di Togliatti e l’ascesa di Berlinguer alla vicesegreteria del partito, si muove controcorrente rispetto alle tendenze prevalenti negli studi sul Pci e sull’Italia repubblicana (Alexander Höbel, Il Pci di Luigi Longo, Edizioni Scientifiche Italiane, pp. 628, euro 50). Pur concentrandosi su un arco cronologico ristretto, Höbel analizza temi e problemi di ampia portata in modo originale e attraverso l’esame di un’imponente mole di fonti, restituendoci un’immagine del Pci articolata e a volte persino inedita.
Contrariamente a quanto comunemente si ritiene, per il Pci gli anni in cui Luigi Longo fu segretario del partito non costituirono affatto una mera fase di transizione, ma un periodo in cui, a fronte di grandi trasformazioni della società e dell’economia, maturarono importanti scelte strategiche, elaborate a seguito di un ampio e talvolta aspro confronto di idee all’interno del partito. Pur mantenendo un forte ancoraggio alla tradizione togliattiana, imperniata sulla costruzione di una via italiana al socialismo come avvento al potere di un nuovo blocco storico, il Pci di Longo compì alcuni passi importanti sia nella direzione di una maggiore autonomia dal socialismo sovietico sia nell’apertura verso le istanze di partecipazione democratica provenienti dalla società italiana.
A proposito di quest’ultimo aspetto la ricerca di Höbel ha anche il merito di riconsiderare le relazioni fra il Pci e il ’68, da un lato smentendo il cliché di un partito chiuso nei confronti delle rivendicazioni del movimento giovanile, dall’altro ragionando sull’impatto, per molti versi anche destrutturante, che quest’ultimo ebbe nei confronti della tradizione del movimento operaio.
Sul piano della vita politica del partito il successore di Togliatti inaugurò un nuovo stile di direzione, aprendo una stagione di maggiore collegialità nelle decisioni. Svolgendo il ruolo di primus inter pares, Longo si pose come mediatore fra le diverse posizioni interne al gruppo dirigente. Dopo la morte del «Migliore« si erano ormai evidenziate all’interno del partito due differenti visioni strategiche, rappresentate dalle diverse posizioni di Giorgio Amendola e Pietro Ingrao. Tale diversità di vedute emerse pienamente in occasione dell’XI congresso del 1966 il quale, a dispetto del giudizio per lo più negativo fornito dalla memorialistica, rappresentò comunque un importante momento di sintesi politica, in cui Longo ebbe modo di mettere alla prova le proprie capacità di mediazione.
Uno snodo cruciale del dibattito interno al Pci fu senz’altro quello sulla programmazione democratica, che riletto oggi sorprende tanto per la profondità dei temi trattati quanto, per molti aspetti, per la sua attualità. Nel Pci la riflessione sull’opportunità di introdurre strumenti di pianificazione in un’economia di mercato fu di altissimo profilo, investendo questioni come la necessità di qualificare l’intervento pubblico e la spesa, e di orientare in modo consapevole, attraverso una partecipazione democratica, tanto gli investimenti quanto i consumi.
Lungimiranti e attuali risultano le riflessioni critiche del Pci sulle forme che andava assumendo il Mercato comune europeo e sulla natura antidemocratica dei centri decisionali monopolistici, finanziari e burocratici sovranazionali, in grado di limitare le potenzialità progressive della programmazione economica. Si tratta di temi sviluppati dallo stesso Longo, ma già presenti nell’invocazione togliattiana di un «europeismo democratico», da rilanciare mediante un’azione coordinata della classe operaia europea finalizzata a mutare di segno l’azione degli organismi comunitari.
Una buona parte degli studiosi e dei protagonisti della storia dell’Italia repubblicana ha dipinto il Pci degli anni Sessanta come una forza «arretrata», responsabile dei limiti del centro-sinistra e ostacolo alla modernizzazione del Paese. La realtà, come mostra con efficacia lo studio di Höbel, è ben diversa. La posizione del Pci nei confronti delle proposte più avanzate dei primi governi di centro-sinistra fu di sostanziale apertura, come mostra ad esempio la tentata convergenza sulla proposta di Antonio Giolitti, ministro del bilancio nel primo governo Moro, di obbligare le grandi aziende a comunicare agli organi di programmazione i propri piani di investimento.
Pur dall’opposizione il Pci operò sempre come forza di governo, incalzando l’azione del centro-sinistra e proponendo con largo anticipo sui tempi molte delle riforme concretamente realizzate nel corso degli anni ’70. L’opposizione del Pci, fece degli anni ’60 un periodo di «incubazione» di molti provvedimenti «riformisti» apparsi più tardi: l’istituzione del Servizio sanitario nazionale e delle Regioni, l’abolizione delle gabbie salariali, l’introduzione dell’equo canone e del principio della «giusta causa» nei licenziamenti, quest’ultimo riconosciuto già a partire dal 1966 e più tardi inserito all’interno della più ampia cornice dello Statuto dei lavoratori del 1970.
Liberando la storia del Pci da rappresentazioni di maniera, la lettura della monografia di Höbel può dunque aiutarci a porre in prospettiva storica temi e questioni cruciali che ancora oggi dovrebbero essere al centro del dibattito politico: dall’urgenza di costruire un’Unione Europea democratica e sottratta al potere delle oligarchie finanziarie alla necessità di istituire un rapporto virtuoso fra strumenti di pianificazione, progresso economico e salvaguardia dell’ambiente.