Il genocidio indonesiano del 1965

indonesia6 comunistidi Jorge Cadima | da omilitante.pcp.pt

Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

O Militante, Edizione 337 Set/Ott 2015

Mezzo secolo fa si consumava una delle più grandi stragi della Storia. A partire dall’ottobre del 1965, i militari indonesiani, con il sostegno attivo e diretto dell’imperialismo nordamericano, massacrarono circa un milione di comunisti, di sindacalisti e membri dei forti movimenti di massa indonesiani. Il genocidio indonesiano è uno degli episodi più sanguinosi della grande guerra di classe mondiale con cui l’imperialismo ha cercato di contenere e sconfiggere l’ascesa del potente movimento di liberazione nazionale e sociale della seconda metà del XX secolo, sull’onda della sconfitta del nazi-fascismo e dell’immenso prestigio dell’Unione Sovietica e del movimento comunista internazionale. Il genocidio indonesiano è un chiaro esempio di come la barbarie imperialista dei nostri giorni non sia un fenomeno nuovo, ma una caratteristica intrinseca e permanente del dominio imperialista. Come affermato nel 1967 dall’ex presidente Usa Richard Nixon, “con il suo patrimonio di risorse naturali, il più ricco della regione, l’Indonesia è il tesoro più grande del Sud-est asiatico” [1]. Per impossessarsi di questo “tesoro”, l’imperialismo affogò nel sangue il popolo indonesiano. Dieci anni dopo, i militari indonesiani “filo-occidentali” scatenarono un nuovo genocidio contro il popolo di Timor Est, ancora una volta in stretto coordinamento con l’imperialismo statunitense.


Dal colonialismo all’indipendenza

L’Indonesia è oggi il quarto paese più popoloso del mondo, con 250 milioni di abitanti. Un vasto arcipelago di più di tremila isole, che fu, per circa tre secoli e mezzo, una colonia olandese con la denominazione di Indie orientali olandesi. Le enormi risorse naturali dell’Indonesia arricchirono la classe dirigente olandese, ma non il popolo indonesiano. Il saldo di questo dominio coloniale è illustrato in due passaggi del libro “Indonesia: The Second Greatest Crime of the Century” di Deidre Griswold [2]: “Nel 1945 […] il 93% della popolazione era ancora analfabeta. Dopo 350 anni di dominio coloniale, c’erano appena un centinaio di medici indonesiani, meno di un centinaio di ingegneri indonesiani e, in una nazione dipendente dall’efficienza della produttività delle sue terre, appena dieci specialisti agronomi indonesiani”; “Nel 1940, solo 240 studenti indonesiani avevano completato gli studi secondari e appena 37 il percorso universitario”.

La Seconda guerra mondiale cambiò la situazione. Con l’occupazione della potenza coloniale da parte delle truppe naziste nel maggio del 1940, il Giappone imperiale e militarista ne approfittava per occupare l’Indonesia (e la colonia portoghese di Timor Est). Nel marzo 1942, i comandanti olandesi locali si arresero e di conseguenza il controllo giapponese si estese a tutto l’arcipelago indonesiano. La sconfitta del Giappone nel 1945 creò una situazione favorevole all’affermazione del movimento di liberazione nazionale indonesiano. Nell’agosto dello stesso anno, fu proclamata l’indipendenza e il leader indipendentista Sukarno, che i colonialisti olandesi avevano tenuto in carcere per un decennio, salì alla presidenza della nuova Repubblica. Ma senza il riconoscimento delle vecchie potenze coloniali. L’Olanda, appena liberata dall’occupazione nazista, non era ancora in condizioni di intervenire e chiese all’Impero britannico (allora sotto il governo del laburista Attlee) di intervenire in sua vece. Questa collaborazione si basava su interessi comuni, in particolare nel settore petrolifero: nel 1907, la Royal Dutch Petroleum, che esplorava il petrolio indonesiano, si era fusa con l’inglese Shell nel tentativo di proteggersi dalla concorrenza delle compagnie petrolifere nordamericane, che avevano iniziato a penetrare nella regione.

Alla fine dell’estate del 1945, la capitale indonesiana Giacarta fu occupata dalle truppe britanniche che fecero addirittura ricorso ai soldati giapponesi ancora presenti sul territorio indonesiano per occupare grandi città come Bandung e Semarang. Come riporta uno storico britannico [3], “A Semarang [le truppe giapponesi] incontrarono una feroce resistenza. Solo al termine di sei giorni di pesanti combattimenti e dopo l’uso di carri armati e artiglieria, riuscirono a conquistare la città, al costo di 2.000 indonesiani morti. Quando gli inglesi arrivarono, il 20 ottobre, trovarono una città silenziosa, deserta e devastata. I britannici elogiarono a profusione le truppe giapponesi”, anche proponendo che il comandante giapponese fosse ricompensato con una onorificenza dell’Impero britannico. Inglesi e giapponesi, nemici fino al giorno prima, erano ormai uniti nello sforzo di piegare la volontà di indipendenza del popolo indonesiano. Nella seconda più grande città indonesiana, Surabaya, gli scontri furono più intensi e opposero direttamente le truppe britanniche ai patrioti indonesiani.

Pur avendo firmato, nel novembre 1946, un accordo che riconosceva la Repubblica di Indonesia, il governo olandese continuò a rafforzare la propria presenza militare nel territorio e nel maggio 1947, con nel paese già 110 mila soldati olandesi, scatenava un attacco generalizzato contro le forze indonesiane [4]. La sanguinosa guerra coloniale sarebbe durata fino al 1949, quando l’Olanda fu costretta dalla resistenza patriottica ad abbandonare le sue pretese di dominio coloniale diretto.

Una Indonesia antimperialista

La dura lotta per l’indipendenza accentuò l’antimperialismo dei patrioti indonesiani. All’interno del movimento di liberazione nazionale, i comunisti svolgevano un ruolo cruciale. In un articolo pubblicato nel 1990 su diversi giornali statunitensi [5], la giornalista Kathy Kadane scrive: “Il PKI [Partito Comunista d’Indonesia] era il terzo maggiore partito comunista del mondo, con un numero di membri stimato in 3 milioni. Con le organizzazioni sindacali e giovanili affiliate, poteva contare sul sostegno di oltre 17 milioni di persone”. La forza dei comunisti indonesiani era conseguenza del ruolo svolto nella lotta per l’indipendenza, ma anche nelle lotte dei lavoratori e dei contadini per difendere i propri interessi di classe. Sostenitori del presidente Sukarno, i comunisti indonesiani cercarono di accentuare il carattere antimperialista della politica estera e il controllo nazionale sulle immense risorse naturali del paese.

Il prestigio dell’Indonesia crebbe a tal punto che, nel 1955, la città di Bandung ospitò la Conferenza afro-asiatica che riunì 29 paesi – molti di fresca indipendenza – dove viveva la maggioranza della popolazione mondiale. La Conferenza lanciò i semi del Movimento dei non-allineati, fondato sei anni più tardi in quella che era la Jugoslavia.

Il corso indipendente della Repubblica di Indonesia era ovviamente inaccettabile per l’imperialismo. Le ingerenze diedero luogo a un primo tentativo di golpe organizzato dalla Cia, nel 1958. “Nel loro famoso libro sulla Cia, intitolato Invisible Government, i corrispondenti a Washington Thomas Ross e David Wise segnalano come gli Stati Uniti avessero alimentato in Indonesia una forza ribelle di destra con armi e una piccola forza aerea di bombardieri B-26, nel tentativo di rovesciare Sukarno. Il tentativo fallì, ma non senza che uno dei piloti americani, Allen Lawrence Pope, fosse catturato dalle forze lealiste” [6].

Un memorandum della Cia del 1962 indica che il primo ministro britannico Harold Macmillan e il presidente americano John Kennedy si erano già accordati per ”liquidare il presidente Sukarno, conformemente alla situazione e alle opportunità che si presentano”, con l’agente Cia che in merito alla questione annotava a margine: “Non mi è chiaro se la parola liquidare significa assassinare o rovesciare” [7].

Intervistato dal giornalista australiano John Pilger [8], l’ufficiale della forza aerea indonesiana Heru Atmojo, fedele a Sukarno e che fu tenuto in carcere nei 15 anni successivi al colpo di stato del 1965, ha dichiarato: “Nei primi anni Sessanta era forte la pressione perché l’Indonesia facesse quello che volevano gli americani. Sukarno avrebbe voluto avere buoni rapporti con loro, ma non ne voleva il sistema economico. Con l’America, questo non è mai possibile. E così divenne un nemico. Tutti noi, che volevano un paese indipendente, libero di commettere i propri errori, fummo trasformati in nemici. Allora non si chiamava globalizzazione, ma era la stessa cosa. Se l’accettavi, eri un amico dell’America. Se ambivi a percorrere un’altra strada, ricevevi degli avvertimenti e se non obbedivi, l’inferno si abbatteva su di te”.

La carneficina del 1965-66

L’inferno si è abbatté sull’Indonesia nell’ottobre del 1965 e sarebbe durato molti mesi. Un gruppo di ufficiali golpisti, corteggiati e addestrati per molti anni dai servizi imperialisti, scatenarono quello che la stessa Cia, in un suo rapporto del 1968, classificò come “uno dei peggiori massacri di massa del XX secolo” [9]. Il quotidiano britannico The Guardian qualche mese dopo (7.4.66) scriveva: “Un funzionario consolare a Surabaya ritiene plausibile che il numero [di morti sull’isola di] Bali sia di 200 mila, su una popolazione di due milioni. Le stime sul numero dei morti [dell’isola di] Sumatra si aggirano anch’esse intorno ai 200 mila, e una stima analoga per [l’isola di] Giava è da considerarsi per difetto. Una volta aggiunto il bilancio dei morti sulle altre isole come Borneo o Sulawasi, il totale potrebbe superare 600 mila. […] I fiumi, in molte parti del paese, sono stati intasati di cadaveri per settimane”. E’ molto probabile che la fonte del giornale fosse la stessa del corrispondente della BBC, Roland Challis, che riferiva di “corpi trascinati a riva fino ai prati del consolato britannico a Surabaya” [10]. Ma da parte del governo britannico non ci fu soltanto un silenzio complice: Navi da guerra britanniche scortarono una nave carica di truppe indonesiane attraverso lo Stretto di Malacca, affinché potessero prendere parte a questo terribile olocausto” [11]. La rivista statunitense Time riferiva che La campagna omicida è divenuta così palese che nelle zone orientali di Giava, bande islamiche infilavano le teste delle vittime su dei pali, che venivano poi fatti sfilare nei villaggi. I massacri sono stati di tale portata che la sepoltura dei cadaveri è diventata una grave problema sanitario per la salute pubblica nella regione orientale di Giava e a Sumatra del nord (17.12.65).

Il grado di coinvolgimento diretto delle potenze imperialiste nel genocidio indonesiano è stato rivelato nel 1990 nel (sopracitato) articolo Kathy Kaldane dal titolo: “Ex-agenti dicono che la Cia stilò le liste della morte per gli indonesiani – Dopo 25 anni, gli americani parlano del loro ruolo nello sterminio del Partito comunista”. Le fonti della giornalista includevano l’ex direttore della Cia William Colby e Robert J. Martins, che all’epoca lavorava all’ambasciata Usa in Indonesia. Martins, che contribuì a redigere gli elenchi, dichiarava: “Possono aver ucciso molta gente e ho le mani sporche di molto sangue, ma questo non è poi così male. Ci sono momenti in cui bisogna colpire con durezza nel momento decisivo. Le liste presentate dalla Cia agli aguzzini indonesiani includevano “i nomi dei membri dei comitati provinciali, cittadini e di altre organizzazioni del PKI, così come i dirigenti delle organizzazioni di massa. L’ex ambasciatore degli Stati Uniti Marshall Green si vantava di avere “molte più informazioni sul PKI degli stessi indonesiani”. Sempre secondo l’articolo di K. Kaldane, “funzionari dell’Ambasciata [Usa] hanno osservato con attenzione la successiva distruzione dell’organizzazione del PKI. Utilizzando la lista di Martins come guida, segnavano i nomi dei dirigenti del PKI catturati o assassinati, e accompagnavano il graduale smantellamento dell’apparato del Partito”. Nelle parole esplicite di un altro funzionario-torturatore della “più grande democrazia del mondo”: “Nessuno si preoccupava che dovessero essere trucidati, a condizione che fossero comunisti”. E anche se non lo erano…

Il genocidio commesso dai militari golpisti guidati dal generale Suharto – che sarebbe diventato presidente dell’Indonesia nel 1967, incarico che ha mantenuto fino al 1998 – di solito è “giustificato” con la tesi di un tentativo di colpo di stato che sarebbe stato effettuato il 30 settembre dal PKI, con la morte di sei elementi dei vertici militari. Il giornalista australiano, John Pilger ha scritto nel 2002: “dalla caduta di Suharto, è stata raccolta una grande quantità di informazioni che […] suggeriscono fortemente che Suharto, poi comandante militare [della capitale] Giacarta, abbia approfittato di una lotta intestina per prendere il potere. Di sicuro, si può dire che se si trattò di un ‘colpo di stato comunista’, aveva una caratteristica unica: nessuno degli ufficiali accusati di cospirazione era comunista”. Certo è che, mentre il colpo di stato attuava un massacro su vasta scala, per mesi e mesi, il forte Partito comunista indonesiano fu schiacciato senza che vi fosse una reazione organizzata, segno che non c’era alcuna struttura, alcuna preparazione preventiva per fronteggiare una situazione come quella che un colpo di stato o un tentativo di insurrezione richiederebbero.

Nel marzo 1967, il New York Times (1.3.67) riportava la difesa di un generale di brigata dell’esercito indonesiano, Supardjo, nel processo che finì per condannarlo a morte: “Secondo l’imputato […] la storia politica indonesiana dal 30 settembre 1965 è stata completamente sovvertita. Il tentativo di golpe di quella notte, ha affermato, non fu una cospirazione comunista e certamente non mirava a rovesciare il governo. Invece, ha ripetuto più volte ai suoi cinque giudici in uniforme che il Movimento 30 Settembre‘ fu creato per impedire un colpo di stato da parte del ‘Consiglio dei generali’ […] Il signor Supardjo ha osservato con ironia che in seguito al colpo di stato ‘il Consiglio dei generali ha raggiunto ciò che si prefiggeva’. In realtà, ha aggiunto, ‘i ministri del governo legale sono ora in prigione’ – e tre di loro, tra cui l’ex ministro degli Esteri Subandrio, sono già stati condannati a morte – appena caduto il signor Sukarno” [12].

Il genocidio indonesiano fu salutato entusiasticamente nelle “democrazie occidentali”. Un articolo della rivista Time (12.3.66) sfoderava il titolo: “Responsabili Usa euforici prevedono nuovi aiuti all’economia di Giacarta e scriveva: “per il governo [del presidente] Johnson è ora difficile nascondere la soddisfazione per le notizie che arrivano dall’Indonesia, con la fine politica del presidente Sukarno e dei comunisti. Dopo un lungo periodo di paziente diplomazia, volta ad aiutare l’esercito a trionfare sui comunisti, questi funzionari sono euforici nel vedere materializzarsi le loro aspettative”. Tre mesi dopo, il New York Times pubblicava una colonna dal titolo Un raggio di luce in Asia”, in cui si faceva riferimento a “sviluppi politici più promettenti” in quel continente, indicando nel “più importante dei quali” il mutamento in Indonesia “da una politica filo-cinese sotto Sukarno a una politica apertamente anti-comunista sotto il generale Suharto”. Gli elogi si mantennero nel corso dei tre decenni di presidenza di Suharto, che Margaret Thatcher definì come “uno dei nostri migliori e più preziosi amici[13].

La rapina imperialista

Il genocidio indonesiano, l’appoggio e gli elogi degli imperialisti non hanno avuto, naturalmente, solo obiettivi politici. Come scrive John Pilger [14], “Nel novembre del 1967, dopo la conquista del ‘grande premio‘, ci si divise il tesoro. La Time-Life Corporation patrocinò una Conferenza straordinaria a Ginevra che, in tre giorni, pianificò la presa di controllo dell’Indonesia da parte delle grandi imprese. I partecipanti includevano i più potenti capitalisti del pianeta, come David Rockefeller. Tutte le imprese giganti occidentali erano rappresentate: le principali compagnie petrolifere e banche, General Motors, Imperial Chemical Industries, British Leyland, British-American Tobacco, American Express, Siemens, Goodyear, International Paper Corporation, US Steel. Dall’altra parte del tavolo c’erano gli uomini di Suharto […] Nel secondo giorno, l’economia indonesiana fu divisa, settore per settore […]. Sotto Sukarno, l’Indonesia aveva pochi debiti, aveva espulso la Banca mondiale, limitato il potere delle compagnie petrolifere e mandato pubblicamente gli americani ‘all’inferno‘ con i loro debiti. Ora giungevano i grandi prestiti, per lo più dalla Banca mondiale, che mirava a dare lezioni all’‘alunno modello’ per conto dei padrini del IGGI [Gruppo intergovernativo per l’Indonesia, i cui membri principali erano Stati Uniti, Canada, Europa e Australia e, soprattutto, il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale]. ‘L’Indonesia’, affermò un funzionario della Banca [mondiale], ‘è la cosa migliore accaduta allo Zio Sam dopo la Seconda guerra mondiale'”.

Il terrore provocato dalla strage del 1965-66 prosegue mezzo secolo dopo, come ben spiegato in due recenti film del regista americano Joshua Oppenheimer (“The Act of Killing“, L’atto di uccidere, e “The Look of Silence”, Lo sguardo del silenzio). Ma la Storia non si ferma. Il generale Suharto è stato rovesciato nel 1998 dalle grandi proteste associate alla ‘crisi asiatica’, una delle prime espressioni della profonda crisi del capitalismo mondiale. E’ impossibile cancellare la Storia. Prima o poi, il movimento comunista e operaio indonesiano saranno ricostruiti e, sulla base delle lezioni del passato, riprenderanno il cammino di liberazione nazionale e sociale del loro popolo.

Note:

1. Citado no livro de John Pilger «The new rulers of the world», Verso 2002, p. 15

2. Disponível na Internet, http://www.workers.org/indonesia/index.html. A fonte original da primeira destas citações é do livro «Indonesia Troubled Paradise», de Reba Lewis, mulher dum médico que trabalhou no país para a Organização Mundial de Saúde; a fonte da segunda é o livro «Western Enterprise in Indonesia and Malaya», de G. C. Allan e A. Donnithorne, reimpresso em 2003 pela Routledge.

3. «The blood never dried – A people’s History of the British Empire», John Newsinger, Bookmarks Publications, 2013 (2.ª ed.), p. 212.

4. Deirdre Griswold, obra citada.

5. Por exemplo, San Francisco Examiner, 20 de Maio, 1990.

6. Deirdre Griswold, obra citada.

7. Citado em J. Pilger «The new rulers of the world», p. 28.

8. J. Pilger, «The new rulers of the world», p. 36.

9. Artigo já citado de Kathy Kaldane.

10. Citado em J. Pilger «The new rulers of the world», p. 32.

11. J. Pilger, obra citada, p. 33.

12. Citado na obra referida de Deirdre Griswold.

13. Citado em J. Pilger «The new rulers of the world», p. 20.

14. J. Pilger «The new rulers of the world», pp. 37, 39 e 40.