100 anni fa il “totalitarismo” della guerra

SoldatoMiglioredi Diego Angelo Bertozzi, Segreteria Provinciale PCdI Brescia
da comunistibrescia.org

NON E’ TEMPO DI MEMORIALISTICA DELL’EROISMO E DEL SACRIFICIO

Il 24 maggio 1915 l’Italia entra in guerra a fianco di Francia, Gran Bretagna e Russia: gli avversari sono gli imperi di Germania e Austria-Ungheria. Per la propaganda si tratta di prendere parte ad una guerra di civiltà che avrebbe distrutto l’autoritarismo – rappresentato dagli imperi centrali – liberato le nazioni oppresse e dato un contributo definitivo alla vittoria della libertà e della democrazia. Una vera e propria “missione” in armi alla quale si adegua via via anche parte del movimento operaio italiano e la gran parte dei partiti che si riconoscevano nella Seconda internazionale: i voti a favore dei crediti di guerra dei socialisti francesi e dei socialdemocratici tedeschi spazzano via le tante risoluzioni internazionaliste e pacifiste adottate negli anni precedenti (l’ultima a Basilea nel 1912). Troppi distinguo e accorgimenti tattici hanno reso semplice carta straccia l’impegno a «compiere ogni sforzo» per impedire la guerra «con tutti i mezzi ritenuti più opportuni» e «sfruttare con tutte le forze la crisi economica e politica creata dalla guerra per scuotere gli strati più profondi della popolazione e accelerare la caduta del dominio capitalista»

Su L’Humanité, quotidiano del partito socialista francese, Edouard Vaillant, dimentico dei propri trascorsi di convinto pacifista, sottolinea che non c’è altra manifestazione possibile «oltre quella della nostra volontà risoluta della vittoria totale che ci libererà, e con noi l’Europa, della malvagità dell’esistenza dell’imperialismo tedesco». Secondo il manifesto pubblicato dai socialisti, la sconfitta dell’imperialismo tedesco restituirà «l’ambiente democratico e pacifico nel quale l’Internazionale operaia, ricostruita e rigenerata, potrà compiere la sua missione». In Italia, mentre il Partito socialista si mobilità contro l’ingresso in guerra e resta sostanzialmente fedele ai principi dell’internazionalismo, è una chiassosa minoranza riformista a schierarsi senza remore a favore dell’interventismo democratico. I social-riformisti bresciani, in linea con le scelte nazionali, difendono la scelta interventista, dettata dalla necessità di «limitare o cancellare l’Impero della Guerra» e di «salvare le nazioni oppresse e far trionfare il Diritto calpestato», e condannano duramente il neutralismo socialista. La scelta di campo è chiara: quella in atto è una dolorosa lotta per la libertà contro l’oppressione rappresentata dall’impero tedesco: «Noi non avremmo mai potuto supporre prima d’ora, che l’essere socialisti, volesse dire rendersi spiritualmente complici dei distruttori di Lovanio e degli infanticidi con l’elmo chiodato. […] ignoravamo che l’Austria avesse degli amici fra i tesserati delle Camere del Lavoro».

Ma a contrapporsi – ma una risposta già viene dalla presenta tra gli alleati della Russia dell’autocrazia zarista – sono veramente libertà e autoritarismo? Se ci soffermiamo su quanto accade all’indomani dell’ingresso in guerra la risposta è assai problematica, perché prende avvio, in Italia come altrove, una vera e propria torsione autoritaria e una mobilitazione che poco o nulla ha da invidiare a quelle che classificheremmo come “totalitarie”.

In Italia l’ingresso in guerra è accompagnato dall’introduzione di una legislazione eccezionale che, affidando poteri straordinari al governo e tacitando le voci di opposizione, lascia campo libero alla retorica patriottarda e nazionalista e punisce ogni forma di opposizione alla politica governativa e alla mobilitazione bellica. Per gli ambienti nazionalisti e più reazionari l’ingresso in guerra è visto come una medicina necessaria per curare, con il ripristino della disciplina e del dovere, un corpo sociale nel quale si annidano traditori e inetti, per farla finita una volte per tutte con – parole di Papini – «l’immonda genia dei pacifisti». I sogni del comando supremo italiano – ricorda lo storico Enzo Forcella – è quello di «riuscire a controllare letteralmente tutto ciò che veniva scritto pubblicamente e privatamente al fronte e nel Paese»; non solo: «si sarebbe voluto esaminare ogni lettera, ogni cartolina in franchigia che i militari scrivevano ai loro amici e alle loro famiglie, quelle che gli amici e i famigliari scrivevano ai mobilitati nelle retrovie e in zona di operazione nonché la corrispondenza che i civili si scambiavano all’interno o, a maggior ragione, con corrispondenti residenti all’estero». Si vuole, in sostanza, impedire non solo la circolazione di espressioni contrarie allo sforzo bellico, ma la stessa possibilità di pensarle. Il dissenso non esiste. È il credere, obbedire, combattere con qualche anno d’anticipo.

Ad essere vietate sono le riunioni pubbliche, le processioni civili e religiose, gli assembramenti in luogo pubblico o aperto al pubblico, mentre limitazioni subiscono anche quelle private. Sulle associazioni pende la spada di Damocle di un immediato scioglimento. Sono restrizioni che ricordano quelle del 1890 e la repressione anti-socialista crispina. Nelle zone di guerra viene applicato anche ai civili il codice penale militare del 1869 e i tribunali militari vedono estesa la propria competenza di giudizio. Si spiega una sorta di «universo totalitario» che esce dalla trincee per coinvolgere la popolazione civile con la caccia isterica di infiltrati e agenti del nemico, con il controllo degli annunci funebri, della corrispondenza privata, delle conversazioni per impedire la diffusione di notizie che possano turbare l’ordine pubblico. Nel fronte “democratico”, al magistrato non è chiesto di giudicare in base alla certezza del diritto, ma di sorvegliare sulla disciplina del corpo nazionale, di colpire duramente tutti i comportamenti interni sospettati di incrinare la “suprema necessità della disciplina”. La giustizia deve essere esemplare!

A Brescia, dichiarata zona di guerra e trasformata nella principale città italiana delle retrovie, la repressione può colpire senza esitazione il movimento operaio socialista. È proibita la diffusione de l’Avanti! e il settimanale socialista “Brescia nuova” deve interrompere le pubblicazioni alla fine di maggio; nel mese successivo, alle perquisizioni in città e provincia seguono gli arresti di numerosi militanti e lo scioglimento dei circoli giovanili socialisti di Brescia, Gardone Val Trompia, Inzino, Zanano e Villa Cogozzo. A Gardone le manette toccano a «sabotatori della Patria» come il sindaco socialista Angelo Franzini e i diversi esponenti dell’amministrazione comunale «banditrice d’odio e di livore», in gran parte dipendenti dell’Arsenale di Stato, fabbrica impegnata nello sforzo bellico.

Nelle fabbriche la pace sociale è garantita da un rigido regime disciplinare e da una repressione preventiva nei confronti delle forze sindacali e politiche. Sui lavoratori – che vedono allungarsi fino a 12-13 ore la giornata lavorativa – grava la minaccia di multe, punizioni, ricatti e rinvio al fronte.

Al fronte, dove l’ossessione disfattista fa sentire tutta la sua presa, la lettura di un giornale socialista può costare qualche anno di galera e i giudici militari, nelle loro condanne, parlano apertamente della presenza di «agenti del disfattismo», di «provocatori del tradimento» e «canaglie». Ne sanno qualcosa un soldato milanese condannato a 15 anni di reclusione per tradimento per aver letto e commentato, nell’aprile del 1917, il manifesto di Zimmerwald («Qualora detti mali consigli – si legge nella sentenza – potessero insinuarsi nell’animo dei combattenti sarebbe la rovina, lo sfacelo di tutte le nostre energie, la disfatta sicura; tradimento peggiore di questo quindi non vi potrebbe essere») e un commilitone di Torino che, qualche mese dopo, si vede comminato l’ergastolo per aver fatto propaganda per la pace e raccolto offerte destinate «a sovvenire un giornale che notoriamente propugnava la pace a ogni costo». Nello stesso anno, in seguito alla scoperta sul fronte dell’Isonzo di cartelli inneggianti al Primo Maggio («Primo Maggio è Festa. Evviva la Pace dei Popoli. Vogliamo il cambio»), le autorità militari italiane procedono alle decimazione della Brigata Lecce con l’immediata fucilazione di sei soldati pugliesi di origine contadina. All’esecuzione segue lo sprezzante comunicato del duca d’Aosta, comandante della Terza Armata, al generale Cadorna: «Esemplare giustizia è stata fulmineamente portata contro reparto questa mattina, a Castagnevizza, minacciante ammutinamento a sfondo socialistico».

Noi non festeggiamo alcun inizio della guerra. Noi ricordiamo quei compagni bresciani, pochi ma fieri, che seppero restare fedeli ai propri ideali. Ricordiamo quei soldati che pagarono con la vita il proprio “no”, la propria stanchezza, la propria repulsione all’immonda raccolta di cadaveri!