di Alessandro Pascale
da storiauniversale.it
Un bilancio sul processo di costruzione del socialismo in URSS di questo periodo non può che essere sommamente positivo, viste le incredibili conquiste che il Partito di Lenin aveva proclamato formalmente e grandiosamente ma non aveva avuto il tempo di concretizzare. Lo ha fatto il Partito Comunista sotto la guida progressivamente sempre più indiscussa (ma mai autocratica e irrispettosa delle regole interne del Partito e della dittatura del proletariato, checché ne dicano la borghesia e i trockijsti) di Iosif Stalin. Lo ha fatto difendendo le conquiste rivoluzionarie e dandogli un contenuto concreto; talvolta dovendo cedere alcune posizioni (fare un passo indietro per farne poi due avanti, diceva Lenin), talaltra accettando la strada dell’intensificazione dello scontro di classe, simboleggiato più di tutto dall’abbandono della NEP per la necessità di realizzare in un decennio quello che altri Paesi hanno compiuto in secoli.
Non una scelta idealistica quest’ultima, ma una decisione politica dettata dall’analisi dei fatti. Chiaramente sono da farsi alcune considerazioni sulle violenze e sulla frequente sospensione dei diritti civili e individuali che si sono verificati in questo periodo. Lo “stato d’eccezione” quasi permanente in cui continua a trovarsi il Paese in questa fase è la spiegazione principe a riguardo, che determina certe decisioni arrivate talvolta di fronte all’emergenza immediata dovuta alle scoperte ottenute dai servizi di sicurezza e talvolta anche da certi gravi errori nella gestione della politica interna. Pesa certamente sulle tensioni anche la volontà di proseguire sul sostegno alla lotta internazionalista, portata avanti con l’interventismo attivo del Comintern, seppur in forma via via subalterna alla difesa ed al consolidamento del socialismo in URSS. Non stupisce insomma che le potenze straniere continuassero a mantenere un atteggiamento ostile verso il Paese dei Soviet che, con il suo esempio anticapitalista, anticolonialista e antimperialista, metteva in discussione gli assetti sociali in tutto il mondo. Eppure tale modello soffriva di profonde contraddizioni, dovute in ultima istanza alla difficoltà di costruire un nuovo sistema socio-economico in un Paese profondamente arretrato, dove il Partito partiva da una base di quadri assai limitata. Il Partito di avanguardia leninista si era rivelato il mezzo migliore per fare la Rivoluzione, ma il passaggio al Partito di massa, tanto necessario per dirigere un Paese immenso, diventò assai problematico, scontrandosi in primo luogo con la difficoltà di fornire un livello di formazione e preparazione politica adeguati alla base militante, ma anche ai quadri intermedi e superiori. Dalla storia di questo periodo esce infatti gravemente compromessa l’immagine pubblica e il giudizio politico su una parte del gruppo dirigente rivoluzionario. È in ultima istanza una minoranza piuttosto nutrita di quella “vecchia guardia bolscevica” a diventare il principale fattore di instabilità della dittatura del proletariato sovietica.
Occorre altresì necessariamente constatare che si tende sempre a ricondurre questa stagione al “totalitarismo” imposto da Stalin, il quale avrebbe attuato un controllo asfissiante sulla popolazione. Niente sarebbe sfuggito al suo controllo. Nessuno avrebbe potuto scampare alla sua “longa manus”. Il Partito? Nient’altro che una finzione mantenuta in piedi per dare una facciata di continuità con la stagione di Lenin. In realtà, come abbiamo ben visto, la constatazione più evidente che si può fare è che Stalin, da solo, controllasse ben poco (nemmeno la propria polizia politica in certi periodi…) e che gran parte delle linee e principi emanati fossero diffusi per decreto o tramite discorsi e articoli, incappando in enormi difficoltà nel far applicare correttamente le direttive ai livelli inferiori. La gran parte degli eccessi è avvenuta per l’inadeguatezza dei quadri dirigenti intermedi del Partito, ma anche per lo stesso furore delle classi subalterne, che in certi casi hanno subito impotenti certi processi, in altri li hanno fomentati consapevolmente e volontariamente, in un deciso scontro di classe rivolto contro i nemici interni. Su tutta questa stagione pesa certamente il ruolo dell’ideologia, ma non in maniera deleteria come si vorrebbe far credere. In effetti tutte le tensioni sociali e politiche sono state conseguenza dalla necessità di modernizzare al più presto il Paese in previsione di un nuovo conflitto bellico scatenato dall’imperialismo. Tale indirizzo derivava anche dalla constatazione che la guerra sotterranea degli Stati stranieri all’URSS non era mai cessata dopo il ritiro delle ultime truppe dal suolo russo, avvenuto tra 1920 e 1921. La lotta era proseguita attraverso la destabilizzazione economica, lo spionaggio, l’incentivazione al sabotaggio e l’inserimento nei conflitti politico-sociali interni al Paese e al Partito. La Storia ha dimostrato come le previsioni di un conflitto di larga scala subito dall’URSS, fatte da parte dello stesso Stalin a partire dal 1927-28 facendo un uso corretto della teoria marxista-leninista, si siano pienamente concretizzate con l’invasione subita dalla Germania nel 1941. Si può certamente sorvolare su tutto ciò, affermando, come fanno gli storici borghesi, che questa sia stata solo una fortunata casualità e che i fatti in questione non siano da collegare. Si può anche certamente sostenere che nulla contino tutti i discorsi e i documenti ufficiali fin qui riportati, i quali attestano tale consapevolezza ideologica, mostrando come pure in frangenti di enorme pericolo (interno ed esterno), vi sia stata da parte di Stalin e della Direzione centrale del Partito nel complesso un atteggiamento perfino cauto e moderato. Fin troppo forse, arrivando a risolvere tardi e in maniera certamente inadeguata la necessità di risolvere il rischio della “quinta colonna” con le Grandi Purghe del 1937-38. Lo storico liberale potrà comunque obiettare su qualsiasi cosa, come è stato fatto per decenni d’altronde: potrà anche distorcere la verità storica con una varietà incredibile di falsità più o meno credibili. Così facendo però non si capirebbero davvero i pregi e i limiti di quanto accaduto. La borghesia non ha evidentemente interesse che ciò accada. Ma chi continua a subire le violenze quotidiane del capitalismo invece sì, e deve capire quali siano stati i problemi in cui è incappata la prima grande esperienza storica di costruzione del socialismo, al fine di trarne lezione per il presente e per il futuro.
Quali errori bisogna imputare a Stalin e ai suoi compagni della Direzione? Anzitutto di non aver saputo scegliere adeguatamente alcuni collaboratori (Ezov ne è il massimo esempio), ma anche su questo aspetto non si può dimenticare il comportamento tenuto da famosi e importanti dirigenti ed eroi della Rivoluzione che, con il proprio comportamento irresponsabile e arrogante, hanno messo a repentaglio l’esistenza stessa dell’URSS, rendendo evidentemente molto più difficile formare nuovi quadri dirigenti in un periodo di intemperie continue. Ricondurre tutti gli errori a spiegazioni soggettive sarebbe però non solo un errore ma anche un atteggiamento “idealista”, e quindi assai poco marxiano. La conclusione di tale discorso è che nella Storia la violenza, il ricorso alla violenza, è inevitabile quando la lotta di classe raggiunge picchi tali da mettere in discussione i rapporti di produzione e di proprietà dominanti. Una Rivoluzione non avviene mai in condizioni ottimali, per cui è normale che ci si trovi in una certa misura impreparati e si facciano errori. Da un punto di vista etico-politico non si può quindi condannare un’esperienza per i mezzi usati, se questi si rivelano indispensabili a salvaguardare dei fini nobili. L’obiettivo del socialismo, considerato in senso ampio come l’eliminazione strutturale della principale violenza economico-sociale quotidiana, è il fine più nobile possibile. Di fronte a tale orizzonte e alle ingiustizie millenarie e quotidiane tese a mantenere un dominio fondato sull’asservimento della maggioranza dell’umanità, anche gli errori compiuti dai bolscevichi impallidiscono. Gli anticomunisti diranno che queste sono parole da prete, da messianesimo para-religioso giustificazionista dei peggiori massacri. Per costoro citeremo Dante: «non ragioniam di lor, ma guarda e passa». Perché in fondo così fan loro, quando gli sbatti sul tavolo gli orrori quotidiani del capitalismo.
Nonostante il peso delle strutture di “longue durée” e dell’inevitabile recrudescenza della lotta di classe, non si può comunque scadere neanche nell’atteggiamento opposto di sorvolare sulle gravi responsabilità individuali. Toccherà quindi ora affrontare l’argomento di uno dei personaggi più importanti dell’Ottobre Rosso, mostrandone la parabola dapprima ascendente, poi discendente, fino alla sua trasformazione in uno dei maggiori pericoli per l’URSS. Parliamo di Lev Trockij.