Storia dell’utopia neoliberale. Con qualche considerazione finale sulle sinistre hayekiane

Un interessante contributo di Carlo Formenti

da https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com

Quinn Slobodian è autore di un libro (Globalists. La fine dell’impero e la nascita del neoliberalismo, Meltemi editore) che mi è parso la più esaustiva e intrigante analisi che mi sia capitato di leggere sull’evoluzione delle teorie neoliberali nei sessant’anni che vanno dalla fine della Prima guerra mondiale alla riforma del GATT e alla successiva nascita del WTO. Slobodian ricostruisce le principali varianti teoriche di questa corrente di pensiero, i loro rapporti reciproci, l’influenza che hanno esercitato su governi nazionali e istituzioni economiche e accademiche internazionali; infine cerca di spiegare i motivi che ne hanno favorito il trionfo sul keynesismo e altre scuole di pensiero a partire dalla crisi degli anni Settanta. 

Dalla lettura di questo lavoro si esce liberati da alcuni luoghi comuni. Come quello secondo cui il neoliberalismo sarebbe un paradigma socioeconomico relativamente recente, che avrebbe fatto il proprio esordio in occasione del colloquio Lippmann tenutosi a Parigi nel 1938, per poi consolidarsi con la fondazione della Mont Pelerin Society, avvenuta nel 1947. È vero che il termine neoliberalismo fu adottato per la prima volta nel 1938, tuttavia un gruppo organizzato di individui che condividevano un preciso insieme di principi, valori e idee all’interno di un comune quadro di riferimento intellettuale esisteva già da almeno vent’anni, per la precisione a partire dalla fine della Prima guerra mondiale, allorché nacque quella Scuola di Vienna che perfezionerà poi la propria visione attraverso la Scuola di Ginevra. Queste persone – Fra gli esponenti più noti figurano i nomi di von Mises, von Hayek, Ropke, Robbins, Haberler, Heilperin, Petersmann – condividevano un punto di vista preciso sulle linee generali da seguire per dare vita a un nuovo ordine mondiale, a partire dalla necessità di difendere l’economia globale dagli “eccessi” di una democrazia che rischiava di metterla in crisi, lanciando una sfida che il liberalismo classico non era in grado di gestire. 

Un altro luogo comune consiste nell’associare al neoliberalismo il concetto di Stato minimo. In realtà, anticipa Slobodian nella Introduzione, il problema di questi teorici non è mai stato quello di stabilire quanto Stato fosse necessario per proteggere la salute del mercato, bensì che tipo di Stato sarebbe stato più adatto a svolgere tale ruolo. Certamente tutti costoro erano convinti assertori del laissez faire, ma erano altrettanto convinti che il laissez faire non potesse funzionare se non entro una attiva e cosciente polizia del mercato, e ciò perché, a loro avviso, il mercato non è il prodotto di un’evoluzione sociale spontanea, bensì di un lavoro di costruzione politica da parte delle istituzioni in cui è inscritto: “il focus delle proposte neoliberali non era tanto il mercato come tale quanto la riprogettazione degli Stati, delle leggi e di altre istituzioni allo scopo di proteggere il mercato (…) l’oggetto [del loro pensiero] non era l’economia in sé bensì le istituzioni incaricate di creare per essa uno spazio” (1). 

La natura eminentemente politica di questa visione traspare infine dalla convinzione di questi intellettuali – le cui idee furono a lungo minoritarie, se non marginali, all’interno dello stesso campo borghese – che sarebbe stato necessario condurre una “guerra di posizione” per imporle e che, a questo scopo, avrebbero dovuto contrapporsi ai socialisti sul piano della narrazione utopistica. Un altro sintomo significativo in tal senso, è il fatto che il termine ordo, dal quale la corrente ordoliberale prende il nome, deriva dalla teologia medievale, a conferma della sua contiguità al campo della teologia politica. Ma veniamo al racconto dell’evoluzione storica del neoliberalismo tracciato da Slobodian, che meglio consente di ricostruire le molte sfaccettature e la complessità del fenomeno (un buon rimedio contro il semplicismo con cui a sinistra si parla spesso del neoliberalismo come di una mera ideologia che maschera inconfessabili interessi: in realtà gli interessi in questione sono esplicitamente dichiarati, chi li difende è sinceramente convinto che coincidano con l’interesse generale della società mondiale, e le applicazioni concrete dei principi neoliberali che si sono succedute nel corso del tempo sono parziali e contraddittorie, nella misura in cui, fortunatamente, hanno dovuto, e devono, fare i conti con varie forme di resistenza sociale e politica). 

Slobodian comincia la sua narrazione avanzando una tesi che contesta la tendenza complessiva che ha interpretato il pensiero neoliberale dal lato anglo-americano: “sono stati i neoliberali europei a dedicare più attenzione alle problematiche internazionali”, scrive, quindi aggiunge che questo è avvenuto perché “i loro paesi non godevano di un ampio mercato interno come gli Stati Uniti e ciò li obbligava a una maggiore sensibilità verso le questioni di accesso al mercato mondiale mediante il commercio” (2). Non è per caso se la culla del neoliberalismo è stata Vienna, la capitale di quella che, dopo il crollo dell’impero asburgico seguito alla Prima guerra mondiale, si presentava ormai come una piccola nazione centroeuropea. Ad alimentare la nostalgia dell’Impero dei liberali austriaci non era tanto il rimpianto per la perduta potenza politica del proprio paese, bensì un immaginario globale forgiato da Carl Schmitt, secondo il quale esistevano due mondi ben distinti: “il primo suddiviso in stati territoriali nei quali i governi detenevano il dominio sugli esseri umani (imperium), l’altro era il mondo della proprietà dove le persone possedevano cose denaro e terreni (dominium)” (3). Schmitt considerava questa suddivisione come un ostacolo all’esercizio della piena sovranità nazionale, viceversa i liberali austriaci assumevano una prospettiva del tutto opposta: la dissoluzione dell’impero aveva creato le condizioni per il proliferare di autonomie e sovranità nazionali che minacciavano l’ordine economico cosmopolita del dominium, il carattere sovranazionale dei diritti di proprietà e del libero commercio. 

Di fronte a quella che per loro appare una vera e propria catastrofe, i vari von Hayek e von Mises iniziano a ragionare su un modello di governance mondiale che, caduti gli imperi, inserisse le nazioni in un ordine istituzionale che salvaguardasse il capitale e il suo diritto a muoversi liberamente attraverso le frontiere.  La nuova utopia liberale, posto che la “felice” epoca della prima globalizzazione, conclusasi con la Prima guerra mondiale, appariva irreversibilmente perduta, implicava già allora l’idea di una “costituzione economica” in grado di implementare la totalità delle regole che governano la vita economica a una scala superiore a quella nazionale. Per realizzare tale obiettivo era necessario isolare l’attività legislativa dalle richieste di breve termine del governo quotidiano a scala nazionale. Il problema politico fondamentale, per questi autori, è quindi da subito quello di sterilizzare i potenziali  effetti negativi della democrazia : è necessario bypassare le decisioni popolari ogniqualvolta contravvengano il superiore principio dell’ordine economico globale. Questo “globalismo militante”, scrive Slobodian, “non avrebbe sostituito gli stati-nazione ma avrebbe operato attraverso di essi per assicurare il corretto funzionamento del tutto [economico], non contro lo stato in quanto tale ma contro lo stato-nazione” (4).

Il contesto internazionale, negli anni in cui la Scuola di Vienna viene elaborando queste idee, è a dire poco sfavorevole alla loro messa in pratica. Laddove la nuova utopia liberale presupponeva che economisti, governi e imprese si mettessero al lavoro per “ricostruire il mondo in frantumi del capitalismo globale” (5), tutte le potenze belligeranti andavano in direzione opposta, verso un capitalismo organizzato e un collettivismo di guerra, mentre la sacralità della proprietà privata transnazionale veniva sistematicamente violata. Di più: l’appoggio della neonata Unione Sovietica alla lotta dei popoli coloniali e il principio di autodeterminazione dei popoli di cui anche il presidente americano Thomas Woodrow Wilson si faceva portavoce, favorivano la proliferazione di nuovi stati nazione. Tre fattori, scrive Slobodian, spingono potentemente verso il rafforzamento del primato della politica sull’economia: 1) la generalizzazione del suffragio universale rafforza la sovranità popolare; 2) cresce la fiducia sulla capacità dei governi di allocare le risorse; infine 3) “si afferma l’idea che la nazione fosse la categoria più importante per l’organizzazione delle attività umane”(6). 

Questa contingenza sfavorevole non scoraggia il gruppo di intellettuali che decenni dopo avrebbe dato vita al neoliberismo, i quali continuano a sfornare i loro progetti di “internazionalismo capitalista”, che dovrebbero proteggere la proprietà privata dalle insidie delle legislazioni nazionali. Pur se le loro idee non riescono a influenzare le scelte dei governi, esse trovano riscontro nella Camera di Commercio Internazionale e nella Società delle Nazioni, tanto è vero che nella Conferenza economica mondiale del 1927 organizzata da queste due istituzioni “si ragiona sul ripristino del libero scambio internazionale e sugli ostacoli interni rappresentati dai sindacati” (7), nonché sulla necessità di abbattere le barriere all’interno del mercato che vengono erette da muri tariffari e rivendicazioni salariali. Contestando la definizione foucaultiana dell’ideologia liberale come “fobia di stato”; Slobodian ricorda che un autore come von Mises “definisce lo stato come un produttore di sicurezza, diffida dello stato che cerca consensi dal popolo, pensa allo stato che può ottenere legittimità solo nella difesa della sacralità della proprietà privata e delle forze della concorrenza” (8). Le ricette care a questo pensatore ferocemente antisocialista (che inneggia alla repressione dei moti operai di Vienna del 27) anticipano di un secolo quelle che ci sentiamo oggi proporre dalla totalità dei governi occidentali in carica: privatizzare le imprese pubbliche, eliminare tanto le barriere ai movimenti di capitali, merci e forza lavoro quanto i sussidi ai lavoratori. Tanto per lui quanto per von Hayek la democrazia è un optional: va bene finché è funzionale agli obiettivi del capitalismo, ma non appena cessa di essere tale non esistono ragioni per mantenerla. 

Nel periodo che va dalla fine degli anni Venti allo scoppio della Seconda guerra mondiale, tuttavia, nubi ancora più minacciose si affacciano all’orizzonte per questi sacerdoti del libero mercato. Dopo la dissoluzione dell’impero asburgico, essi avevano riposto le loro speranze in quello britannico che, almeno in parte, sembrava mantenere la capacità di garantire l’equilibrio fra le opposte esigenze del dominium e dell’imperium. Ma l’Inghilterra tradisce le loro aspettative decretando la fine del Gold Standard, una decisione che, assieme alla Grande Crisi del 29, contribuisce a far sì che “le potenze europee si affidino alle proprie colonie per accedere a materie prime scambiate all’interno dei muri tariffari dei blocchi imperiali” (9). Abbandonando il Gold Standard, l’Inghilterra “rompe l’unità del mondo e apre la strada all’idea keynesiana dell’autosufficienza nazionale”, tradendo così l’universalismo economico. Se a ciò si aggiungono la svolta che Franklin Delano Roosevelt impone alla politica americana con il New Deal e le politiche protezioniste dei regimi fascisti, è chiaro che il mercato mondiale va verso la balcanizzazione, piuttosto che verso l’apertura auspicata da quella che si è nel frattempo convertita da Scuola di Vienna a Scuola di Ginevra (anche per la diaspora degli autori costretti ad abbandonare l’Austria dopo l’Anschluss). 

È in questo periodo che nasce (nel 38 a Parigi, nel corso del colloquio Lippmann) la definizione di neoliberali per questa corrente teorica, ed è in questo periodo che la sua  componente europea si caratterizza per la sfiducia nei confronti della matematizzazione che la scienza economica sta subendo in quegli anni (soprattutto oltreoceano). Von Hayek contesta esplicitamente il concetto di mercato perfetto, in quanto non esiste qualcosa come la conoscenza perfetta che tale concetto implica, ed arriva a teorizzare l’utilità dell’ignoranza: se esiste un equilibrio, sostiene, è solo “perché alcune persone non hanno possibilità alcuna di apprendere fatti che, in caso contrario, li porterebbero a mutare i loro piani” (10). Per parte sua Wilhelm Ropke imputa alla sofisticazione dei modelli macroeconomici la responsabilità di generare “una cecità nei confronti dei contesti extraeconomici che costituiscono il vero problema del mondo reale” (11). Di più: attribuisce a questo paradigma matematico la colpa di avere incoraggiato una politica a base nazionale, tipica di quell’approccio keynesiano secondo il quale “lo stato nazione era il contenitore implicito dei progetti di pianificazione e delle politiche di ridistribuzione attraverso servizi pubblici e welfare state” (12). A partire da questi presupposti la Scuola di Ginevra concentra l’attenzione sulla progettazione di istituzioni sovranazionali capaci di salvaguardare il mercato, accentuando il carattere utopistico delle proprie speculazioni teoriche – speculazioni che, a cavallo fra i Trenta e i Quaranta, approdano alla proposta di un governo sovranazionale di tipo federale.

I modelli federali proposti dai singoli autori erano diversi (Ropke assumeva la sua Svizzera a esempio di un mondo in cui gli stati sarebbero stati come i cantoni, von Hayek guardava piuttosto all’impero asburgico come modello di un regime liberale cosmopolita) ma condividevano lo stesso obiettivo strategico: rompere il legame fra cittadinanza politica e proprietà economica. Ciò non si ottiene indebolendo lo stato; al contrario, si tratta di rafforzarlo cambiandone al contempo ruolo e funzioni. Nelle condizioni generate dalla democrazia di massa, argomentano i neoliberali, lo stato appare debole “perché cerca di compiacere tutti i gruppi di pressione nello stesso momento”, così gli illusori vantaggi che si spera di ottenere grazie alla pianificazione nazionale finiscono per generare il caos su scala internazionale. Per venire a capo di tale paradosso, si sarebbe dovuto dare vita a federazioni ampie ma lasche, in cui i singoli stati nazione avrebbero mantenuto il potere politico, anzi questo potere sarebbe stato rinforzato, ma esclusivamente in funzione dell’obiettivo di tutelare il libero commercio e la libera circolazione dei capitali. In poche parole, si cercava un modo per tenersi la nazione ma privandola degli artigli democratici, spegnendone cioè le velleità di politiche industriali e redistributive. “Lo stato socialdemocratico era appena in gestazione, commenta Slobodian, e già i neoliberali elaboravano uno schema che vi si opponesse” (13). Senza dimenticare che l’internazionalismo neoliberale che viene così definendo il suo progetto negli anni della Seconda guerra mondiale ha una chiara connotazione geopolitica: “la federazione e l’unione erano proposte come configurazioni atlantiche, anglosassoni ed europee occidentali, capaci di riportare gli isolazionistici Stati Uniti all’interno della comunità occidentale e agire da bastione contro fascismo e comunismo” (14). 

Ma il mondo che emerge dalla guerra non è quello sperato dai neoliberali. È il mondo del compromesso fordista fra capitale e lavoro, il mondo del welfarismo keynesiano in cui anche un presidente repubblicano come Eisenhower viene accusato di “socialismo” da una destra americana che cerca alternative in Europa, guardando, oltre che a teorici come Ropke e von Hayek, a esponenti politici come il ministro tedesco dell’economia Erhard e il presidente italiano Einaudi. È soprattutto il mondo della decolonizzazione, in cui nascono decine di nuovi stati che, in nome dello sviluppo, rivendicano il diritto di nazionalizzare i capitali esteri, di proteggere le proprie industrie dalla concorrenza dei paesi avanzati, perseguire politiche di piena occupazione, ecc. Questa svolta fa temere ai neoliberali, scrive Slobodian, “di avere vinto la guerra ma perso la pace”, per cui si armano per una nuova guerra di posizione in cui difendono l’idea secondo cui “lungi dal consentire alle nazioni postcoloniali di mettersi al riparo della concorrenza globale, esse andavano educate alle dinamiche dell’economía mondiale e a rispondere correttamente alle direttive della domanda di mercato” (15). Ma ciò che soprattutto terrorizza i neoliberali, è il tentativo dei paesi del Sud del mondo di tradurre il principio democratico una testa un voto nello slogan una nazione un voto da applicare negli organismi internazionali in cui si decidono le regole del commercio internazionale. In questa battaglia ideologica fra Nord e Sud del Mondo si distingue in particolare lo svizzero Ropke, il quale viene assumendo posizioni apertamente razziste, facendosi promotore di politiche che possano impedire che la fine degli imperi coloniali decreti la fine del dominio della razza bianca. Così, rilanciando a modo suo i caveat di Tocqueville in merito ai pericoli che la democrazia apra la strada a una “dittatura della maggioranza”, prende le difese del regime dell’apartheid sudafricano, suggerendo che, se si voleva evitare il rischio di un “imperialismo nero”, in quel Paese si sarebbe dovuto consentire al massimo un voto “ponderato” basato sul reddito. Questa posizione di Ropke resta però isolata in un filone neoliberale che non mirava a imporre un mondo di razze bensì un mondo di regole. 

Si è detto come Slobodian sottolinei più volte che il punto di vista neoliberale è assai più giuridico-politico che economico. Questa caratteristica emerge ancora più chiaramente nel trentennio postbellico a cui l’autore dedica gli ultimi capitoli della sua analisi. Uno snodo fondamentale in tal senso, nonché il momento in cui maturano le condizioni per un rovesciamento dei rapporti di forza fra paradigma socialdemocratico e paradigma neoliberale, è quel Trattato di Roma che getta le basi per la nascita dell’Unione Europea. Di fronte al fenomeno dell’integrazione europea il fronte neoliberale si spacca. Da un lato, la corrente “universalista” (Ropke e altri) vede nella coalizione europea un nuovo espediente per tenersi al riparo dalla concorrenza globale, e insiste nell’indicare la soluzione in un più ampio processo di integrazione di tipo federale, soluzione che non riesce tuttavia a liberarsi dei suoi connotati utopistici (anche perché, annota Slobodian, non prevede meccanismi di enforcement delle regole). Dall’altro lato, la corrente costituzionalista riconosce viceversa nell’integrazione europea il ponte che avrebbe potuto colmare la distanza fra il loro disegno istituzionale e la sua attuazione concreta. Gli aderenti a questa corrente – in maggioranza di formazione giuridica – “leggono il Trattato come una costituzione economica in grado di gettare le basi di futuri modelli di governance multilivello” (16). Nella costituzionalizzazione della CEE  vedono la chance di costruire un meccanismo di supervisione e di esecuzione effettiva delle regole nell’ambito dello stato nazione: “si trattava dell’applicazione delle teorie di Hayek”, ma non quelle degli anni Trenta, bensì quelle che costui delinea nei decenni successivi, allorché “suggerisce di progettare le costituzioni in modo da ancorare le libertà economiche contro i tentativi dei legislatori di applicare politiche protezioniste e redistributive” (17). 

Con l’avvio del processo di integrazione europea il sogno che von Mises e von Hayek avevano accarezzato fin dal primo dopoguerra, allorché guardavano con nostalgia all’impero asburgico in quanto cornice cosmopolita in grado di garantire le regole del dominium globale del capitale mondiale, si avvia a divenire realtà. Dopo avere sfornato per decenni progetti astratti, che non avevano speranza di essere accolti in un contesto caratterizzato da feroci conflitti geopolitici, politiche economiche “stataliste” ed egemonia del paradigma keynesiano, vedono sorgere un quadro istituzionale capace di scippare la sovranità agli stati nazione: “i soggetti giuridici europei non sono solo gli stati membri ma anche gli individui [Slobodian insiste giustamente sul fatto che, per i neoliberali, i diritti individuali si riferiscono anche a soggetti come le imprese] e se emerge un conflitto è la legge nazionale a dover cedere il passo” (18). Ci si avvia quindi verso la separazione fra diritto pubblico e privato che regala agli attori del mercato la facoltà di appellarsi a un forum al di fuori del proprio stato nazionale. Siamo ormai prossimi all’ultima parte dell’excursus storico di Slobodian, nella quale vengono esaminati, fra gli altri temi: 1) lo scontro ideologico fra Nord e Sud del mondo attorno alla questione del “diritto allo sviluppo” – scontro che avrà un ruolo determinante nella definizione delle regole del nuovo processo di globalizzazione; 2) la divaricazione di modelli teorici fra Scuola di Chicago e Scuola di Ginevra; 3) l’evoluzione del pensiero di von Hayek, sempre più affascinato dai modelli cibernetici e dalla teoria dei sistemi. 

Gli anni Cinquanta e Sessanta sono caratterizzati dall’offensiva dei paesi del Sud del mondo che aspirano a dare vita al NOEI (nuovo ordine economico internazionale). Alla base del NOEI si colloca il cosiddetto “diritto allo sviluppo”, che a sua volta implica la definizione di nuovi standard giuridici che dovrebbero consentire deviazioni dalle regole del libero commercio e la possibilità di nazionalizzare asset domestici (materie prime, terre, ecc.) di proprietà straniera (Slobodian ricorda che fra il 1967 e il 1971 vengono espropriate 79 imprese nordamericane). Le stesse nazioni che lottano per affermare il diritto allo sviluppo attaccano il celebre rapporto sui limiti dello sviluppo del Club di Roma, accusandone gli estensori di non distinguere fra le responsabilità delle diverse regioni del mondo (un tema che, come abbiamo potuto constatare nel corso delle recenti conferenze dei G20 e della Cop26, è ancora al centro dei conflitti fra Nord e Sud del mondo) e dell’intenzione di frenare lo sviluppo del Sud, per impedire che sorgano concorrenti alle ex potenze coloniali. I pensatori neoliberali, scrive Slobodian, “attaccano il NOEI manifestando un’ira sproporzionata rispetto alla percentuale del commercio globale  dei G77 (il gruppo dei paesi sottosviluppati) e ai mezzi di cui dispongono per far rispettare risoluzioni dell’ONU puramente simboliche (19). Ma questa volta i guru del neoliberalismo non sono profeti disarmati: i loro principi sono ormai integrati nelle strategie di organismi e istituzioni internazionali che, contrariamente alla vecchia Società delle nazioni, dispongono di efficaci strumenti di governance: i nuovi criteri per la gestione degli “aiuti” allo sviluppo adottati da Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale si avviano a costruire quella gabbia di acciaio che verrà più tardi battezzata come il Washington Consensus, mentre a dare il colpo di grazia alle velleità del NOEI provvederà il Volcker shock del 1979: alzando i tassi di interesse Usa si faranno lievitare i costi del debito per le nazioni del Sud, dando avvio alla crisi debitoria che metterà la museruola agli stati nazione. 

Più tardi non saranno solo i paesi del Sud del mondo a finire in una trappola che scatterà anche per i paesi del Sud e dell’Est europeo entrati a far parte della UE e assoggettati alle regole del Trattato di Maastricht, a conferma della giustezza dell’intuizione di von Hayek e altri che avevano visto nel modello europeo di governance multilivello e nella costituzione economica della UE l’arma strategica per realizzare il loro decennale progetto di separazione fra dominium ed imperium. La giuridicizzazione dell’economia globale attribuisce alla magistratura il carattere di “strumento per eludere l’interferenza di organi democraticamente eletti” e per consentire alle regole stabilite in sede internazionale di “pesare sulle decisioni legislative”, per cui “a quel punto sono le corti interne ad applicare il diritto economico globale” (20). La lex mercatoria internazionale prevale sulle leggi emanate dai parlamenti nazionali democraticamente eletti. I riformatori del GATT si atterranno a questo modello, dando vita al laboratorio di un progetto hayekiano su scala mondiale che porterà alla nascita del WTO. Secondo Slobodian questa evoluzione conferma che il vero motore ideologico della rivoluzione neoliberale non sta oltreoceano, bensì nella vecchia Europa. Non solo perché, come si è visto, tutte le idee forza sin qui analizzate vengono dai pensatoi della Scuola di Vienna prima e della Scuola di Ginevra poi, ma anche perché questa visione giuridico-politica del nuovo ordine mondiale nasce in contrapposizione alla fiducia nella possibilità nella modellizzazione matematica formale delle “leggi” dell’economia, e nella possibilità di prevederne tendenze e sviluppi, tipica della Scuola di Chicago. Ai teorici liberisti d’oltreoceano i neoliberali europei rimproverano di avere provocato una serie di crisi finanziarie, a causa delle loro illusioni di poter prevedere, controllare e gestire “scientificamente” i processi economici, così come rimproverano di alimentare – non meno dei loro rivali keynesiani – illusioni relative alla possibilità di pianificare certi meccanismi del sistema economico. 

Questa divergenza di prospettive emerge con grande chiarezza ove si consideri la “conversione” cibernetica dell’ultimo Hayek. La svolta filosofica dell’ultimo Hayek è radicale. Le convinzioni di fondo che aveva maturato nel corso della sua lunga militanza intellettuale nel campo neoliberale restano immutate, ma l’incontro con la teoria dei sistemi e la cibernetica, mediato dallo studio di autori come Ludwig von Bertalanffy (21) e Norbert Wiener (22), introduce elementi inediti nella sua visione. Si è ricordato a più riprese che, per lui, l’economia non è un sistema di cui si possano descrivere le leggi di funzionamento né prevedere le tendenze, ma ora questo punto di vista viene portato alle estreme conseguenze: il mercato viene descritto come un “sistema di comunicazione” (l’analogia con le tesi che anni dopo verranno avanzate da un altro grande teorico conservatore che si inspira alla teoria dei sistemi, Niklas Luhmann (23), sono evidenti) rispetto al quale non si possono estrarre dati concreti sul futuro (a dispetto dei modelli macroeconomici sviluppati dagli economisti neoclassici) ma al massimo previsioni di tendenze. Quel che succede in campo economico è il risultato dell’azione umana ma non di un consapevole disegno umano. Qui l’analogia con il punto di vista dell’ultimo Lukács (24) (che riprende a sua volta il pensiero di Marx) è sorprendente: citando a più riprese il detto marxiano “non sanno ciò che fanno ma lo fanno”, costui ribadisce che, per Marx, l’unica scienza è la storia, le cui “leggi” (cioè le catene causali che hanno prodotto determinati effetti) sono tuttavia conoscibili solo post festum. Detto altrimenti: gli uomini fanno la storia, ma non sanno di farla perché la loro azione è sovradeterminata da fattori ad essi sconosciuti. La differenza sta nel fatto che, per Marx e Lukács, è possibile appropriarsi della conoscenza dei fattori in questione per indirizzare consapevolmente il corso degli eventi in una determinata direzione. Viceversa per von Hayek questo è un errore catastrofico: l’economia è una sorta di scatola nera, un sistema cibernetico autoregolato da meccanismi di feed back negativi, e tentare di “pianificarne” il funzionamento può generare solo disastrosi effetti controintuitivi. L’ignoranza è insomma una virtù costituiva, nella misura in cui indica alla politica e al diritto la via regia da seguire, che consiste precisamente nell’impedire/vietare questi maldestri tentativi di governare ciò che è per definizione ingovernabile. La totalità è inconoscibile, si conoscono solo le regole necessarie a mantenerla, regole che si apprendono attraverso l’esperienza politica e non la scienza economica: “la forma più alta di razionalità consiste nell’arrendersi alla maggiore conoscenza delle istituzioni, essendo queste il prodotto dell’accumularsi di strategie di successo determinate da processi di selezione naturale di lungo periodo” (25). 

C’è infine un ultimo importante elemento di novità nella svolta teorica dell’ultimo Hayek: il suo pensiero non può in alcun modo essere definito “individualista”, non presenta cioè quella caratteristica che, a sinistra, viene automaticamente associata a questa ideologia. Von Hayek è sicuramente un autore antisocialista, reazionario, anticomunitario ma non individualista. Nei suoi ultimi scritti e discorsi non troviamo alcuna esaltazione della libertà individuale: “Il soggetto scompare, il protagonista è il sistema stesso, l’individuo autonomo è un effetto illusorio, gli individui vengono concepiti come guidati dagli imperativi della divisione internazionale del lavoro. Il timoniere è lo stesso mercato mondiale” (26). A dire alle persone cosa devono fare sono i prezzi delle merci (compresi quelli delle finte merci, come terra, denaro e forza lavoro NdA). Il valore centrale cui il nostro si inchina come a una entità trascendente, quasi divina, non è la libertà individuale bensì “l’interdipendenza del tutto” (che risponde alle imperscrutabili leggi del mercato). E anche qui è difficile non riconoscere una eco delle riflessioni marxiane dedicate al feticismo della merce (anche se il contesto politico appare capovolto).  

Concludo questa prima parte, nella quale mi sono sostanzialmente limitato a sintetizzare l’analisi storica di Slobodian, ricordando: 1) che l’autore, nella Introduzione, elenca quindici principi che, a suo avviso, stanno a fondamento dell’ordine mondiale auspicato da von Hayek e dagli altri teorici neoliberisti, qui ne richiamo solo i cinque che considero fondamentali: il mercato perfetto non esiste; l’ordine economico mondiale dipende dalla protezione del dominium dagli eccessi dell’imperium; la democrazia è una minaccia per l’ordine del mercato perché legittima le domande di ridistribuzione (è noto che von Hayek ha dichiarato che una dittatura liberale è preferibile a una democrazia senza liberalismo); la conoscenza umana è in gran parte inconscia; il commercio internazionale deve essere sancito da un codice giuridico che deve prevalere sulle leggi nazionali; 2) infine nelle ultime pagine del libro si avanza la tesi secondo cui il decennale sforzo dei teorici neoliberisti mirava, fra le altre cose, a rendere “naturale” l’ordine che si proponevano di costruire, a far sì che risultasse invisibile agli occhi delle masse, laddove il loro tentativo di depoliticizzare le relazioni economiche, a mano a mano che si calava dal mondo delle idee nella realtà concreta delle politiche economiche, ha finito per dare vita a un progetto altamente visibile “che non poteva non renderlo oggetto di controversia politica”(27). In quest’ultima parte dell’articolo cercherò di dimostrare, basandomi sul materiale fin qui illustrato, come e perché la cultura di sinistra si è rivelata sostanzialmente incapace di combattere il paradigma neoliberale, restando a un livello di contrapposizione puramente ideologica nei confronti dell’avversario. 

Inizio spiegando perché parlo di contrapposizione puramente ideologica (non nel senso positivo – cioè di battaglia delle idee – bensì in quello negativo di lettura superficiale e depistante della realtà). Nella polemica contro il neoliberismo si punta il dito – anche giustamente, sia chiaro – contro le politiche economiche che i governi occidentali hanno adottato a partire dagli anni Ottanta del Novecento: privatizzazioni dei servizi pubblici, tagli al welfare e alla spesa sociale (sanità, scuola, pensioni, ecc.), politiche antisindacali ecc. raggruppando il tutto sotto l’etichetta del “pensiero unico”. Ora questa definizione è corretta se e finché ci si riferisce ai programmi dei maggiori partiti e alla narrazione dei media mainstream, ma appare semplicistica e fuorviante ove applicata alle varie correnti del pensiero neoliberale di cui Slobodian ricostruisce origini e storia nel libro appena recensito. Come si è visto, infatti, il dibattito fra le varie scuole – sia al loro interno sia fra il campo angloamericano e il campo europeo – è sempre stato vivace, ma soprattutto le teorie neoliberali, nate nel primo dopoguerra, sono rimaste inascoltate e marginali per mezzo secolo, riuscendo a imporsi sul piano dell’azione politica soltanto a partire dalla crisi degli anni Settanta (28). In questo mezzo secolo la loro è stata quasi esclusivamente una battaglia ideale, tanto è vero che, per definirla, ho usato il termine gramsciano di “guerra di posizione”. Potrebbe sembrare un uso arbitrario, se non fosse che qui è in gioco una questione ideologica da intendersi “in senso forte”. Se infatti assumiamo l’ideologia nell’accezione gramsciana e lukacsiana del termine, dunque non come falsa coscienza, bensì come espressione consapevole di interessi di classe, sostenuta dall’intima convinzione che tali interessi coincidano con quelli generali dell’umanità (per cui mobilita principi e valori sostenuti da una sincera fede ideale e politica), occorre riconoscere che ciò non vale solo per l’ideologia social comunista ma anche per l’ideologia neoliberale che vi si contrappone. Non riconoscerlo – limitandosi a contrastare la narrazione del nemico di classe solo sul piano della comunicazione e della propaganda – significa correre il rischio di perdere la battaglia per l’egemonia, che per le classi subalterne è già più difficile nella misura in cui le idee dominanti sono sempre quelle della classe dominante, ma che diventa ancora più difficile se non si riconosce il potere di manipolazione culturale, antropologica che si annida in teorie che devono la loro efficacia ai meccanismi materiali che governano il modo di produzione sotto cui viviamo. Non averlo riconosciuto, ha fatto sì che principi e valori tipici del paradigma neoliberale analizzato nelle pagine precedenti siano penetrati in profondità nella cultura delle sinistre occidentali, al punto da renderle incapaci di contrastare l’avversario.

Uno snodo storico fondamentale che ha visto aprirsi le prime brecce alla penetrazione di idee neoliberali nel campo del marxismo occidentale è la crisi degli anni Settanta. Abbiamo visto come, in quegli anni, una delle battaglie strategiche dei neoliberisti fosse quella contro le velleità stataliste e nazionaliste dei paesi del Sud del mondo che rivendicavano il “diritto allo sviluppo”. Sul fronte opposto i migliori cervelli teorici  del marxismo schieravano autori come Samir Amin, Giovanni Arrighi, Immanuel Wallerstein e Gunder Frank che, aggiornando le teorie di Lenin sull’imperialismo e sulle lotte di liberazione dei paesi coloniali, avevano sviluppato quelle teorie della dipendenza (29) che analizzavano il rapporto necessario e speculare fra sviluppo delle metropoli e sottosviluppo delle periferie del mondo. Samir Amin, in particolare, con la sua teoria del delinking (30) offriva robusti argomenti a sostegno della necessità dei paesi sottosviluppati di sganciarsi dal mercato globale per proteggersi dalla concorrenza delle industrie capitalistiche, e di imboccare la via del capitalismo di stato come primo passo verso la transizione al socialismo. Viceversa le sinistre “radicali” dei paesi occidentali consideravano chiusa la fase delle lotte di liberazione coloniale, sostenendo l’idea di un’economia mondiale unificata in cui la lotta non era più fra grandi potenze e nazioni oppresse e sfruttate ma solo fra capitale e lavoro, considerati entrambi come entità sovranazionali. Questo “internazionalismo” astratto, cieco alle dinamiche reali del sistema capitalista mondiale offriva, di fatto, una sponda ideale all’ “internazionalismo capitalista” dei vari Von Hayek, Ropke e von Mises. L’unificazione del mercato mondiale era visto dagli uni e dagli altri come un fattore positivo, certamente per motivi opposti, ma in un contesto che garantiva vantaggi strategici solo ai fautori dell’internazionalismo capitalista. 

Globalismo di destra e di sinistra convergevano inoltre sul terreno dell’antistatalismo e dell’odio per la sovranità nazionale. Com’è noto un autore come Negri è arrivato a sostenere la tesi che le lotte dei popoli coloniali possono essere sostenute finché non approdano a conquistare il “dono avvelenato dello stato nazione”. In autori come lui e altri teorici della galassia post operista e trotskista l’odio è rivolto sia nei confronti dello stato, in quanto emanazione di un potere politico visto come incarnazione del male assoluto, sia nei confronti della nazione, in quanto ricettacolo di sentimenti patriottici considerati reazionari per definizione. Viceversa i neoliberisti, come si è visto, non sono antistatalisti (anche se concepiscono lo stato solo come strumento della tutela delle regole del mercato globale) ma sono ferocemente contrari allo stato-nazione, nel quale riconoscono (più lucidamente di Negri e soci) la cornice che rende possibile alle classi subalterne di contrattare diritti sociali e migliori condizioni di lavoro e di vita. Ebbene fra queste due visioni globaliste l’egemonia spetta chiaramente alla seconda. Entrambe si oppongono all’ imperium della politica, ed entrambe lo fanno in nome della tutela del dominium, che i neoliberisti intendono come autonomia del mercato e i libertari di sinistra come autonomia di un’astratta moltitudine: definire a quale delle due visioni spetti l’egemonia non è difficile. 

Credo valga la pena di sottolineare come anche la divaricazione fra versione angloamericana e versione europea del neoliberismo si rispecchi all’interno della cultura di una sinistra sempre più subalterna all’internazionalismo capitalista. La versione americana è quella con caratteristiche più spiccatamente individualiste e libertarie, per cui influenza più direttamente le componenti movimentiste impegnate nella lotta per i diritti civili di minoranze che poco o nulla hanno a che fare con la lotta di classe. Viceversa la versione europea, che si incarna nelle istituzioni e nella costituzione economica della UE, alimenta l’ideologia delle sinistre tradizionali, ossessivamente concentrata sul controllo delle regole del mercato. E ancora: un libro come Impero (31) riflette le condizioni di un paese come gli Stati Uniti che, grazie all’estensione del suo mercato interno e al controllo sulla finanza internazionale, può permettersi margini di manovra più ampi sul piano della politica economica rispetto ai paesi europei. Viceversa la visione “austeritaria” delle sinistre post comuniste e post socialdemocratiche europee affonda le radici in una tradizione che ha sempre interpretato il marxismo in chiave economicista e meccanicista. Da qui un “realismo” che ben si sposa con la svolta sistemica dell’ultimo Hayek il quale, in base alla fede nell’esistenza di una necessità sistemica immanente che, come si è visto, può essere (indebitamente) associata a certe formulazioni della teoria marxista, ha via via adottato una prospettiva che si fonda sulla inconoscibilità di meccanismi economici, che vanno solo rispettati e lasciati operare, evitando di disturbarli con turbative politiche. Concludo notando per inciso  che l’infatuazione per la teoria della complessità e per i paradigmi cibernetico-sistemici, che ha caratterizzato certi ambienti della cultura di sinistra nell’ultimo ventennio del Novecento, ha a sua volta potentemente contribuito a indebolire le difese immunitarie del marxismo occidentale nei confronti della controparte neoliberista. Dipanare questo groviglio è il compito tutt’altro che agevole che spetta a chi si propone di rilanciare un progetto socialista capace di rappresentare gli interessi delle classi subalterne traditi da queste sinistre hayekiane.

Note:

(1) Q. Slobodian, Globalists. La fine dell’impero e la nascita del neoliberalismo, Meltemi, Milanom 2021, p. 25.

(2) Ibidem, p. 29.

(3) Ibidem, p. 30.

(4) Ibidem, p. 38.

(5) Ibidem, p. 55.

(6) Ibidem, p. 56. 

(7) Ibidem, p. 57.

(8) Ibidem, p. 62.

(9) Ibidem, po. 96.

(10) Ibidem, p. 136.

(11) Ibidem, p. 99.

(12) Ibidem, p. 144.

(13) Ibidem, p. 166.

(14) Ibidem, p. 161.

(15) Ibidem, p. 234.

(16) Ibidem, p. 291.

(17) Ibidem pp. 324-325.

(18) Ibidem, p. 333.

(19) Ibidem, p. 352.

(20) Ibidem, p. 406.

(21) Cfr L. von Bertalanffy, Teoria generale dei sistemi, Mondadori, Milano 2004. 

(22) Cfr. N. Wiener, Introduzione alla cibernetica, Boringhieri, Torino 1966.

(23) Cfr. N. Luhmann, Potere e complessità sociale, Il Saggiatore, Milano 1979;  vedi anche Illuminismo sociologico, il Saggiatore,  Milano 1983 e Struttura della società e semantica, Laterza, Roma-Bari 1983.

(24) Cfr. G. Lukács, Ontologia dell’essere sociale, 4 voll. Pigreco, Milano 2012.  

(25) Globalists, cit. p. 374.

(26) Ibidem, p. 371.

(27) Ibidem, p. 437.

(28) Sulla lunga latenza del paradigma neoliberale come alternativa “orizzontalista” al paradigma “verticale” keynesiano, cfr. Onofrio Romano, la libertà verticale, Meltemi, Milano 2019.

(29) Cfr. A. Visalli, Dipendenza, Meltemi, Milano 2020.

(30) Cfr. S. Amin, La déconnextion. Pour sortir du système mondial, La Découvert, Paris 1986.

(31) Cfr. M. Hardt, A. Negri, Impero, Rizzoli, Milano 2000.