
di Ruggero Giacomini1
Il 5 marzo 1953 moriva Giuseppe Stalin, forse il maggiore dei protagonisti della storia del Novecento, a lungo a capo dell’Unione Sovietica e figura eminente del movimento comunista internazionale, catalizzatore nel tempo di forti e contraddittorie passioni, che ne hanno fortemente condizionato nel bene e nel male il giudizio storico e tuttora lo condizionano. Ricostruirne anche per brevi tratti la figura non è facile senza cadere in stereotipi e luoghi comuni: per la complessità di un operato intrecciato a lungo strettamente con la storia sovietica e del movimento comunista e per le accuse e polemiche sedimentatesi nell’arco della lunga guerra fredda.
Iosif Vissarionovič Džugašvili nacque a Gori in Georgia il 6 dicembre 1878 da povera famiglia di discendenti da servi della gleba, il padre era calzolaio e la madre lavorava come donna di servizio. Grazie soprattutto alla caparbietà e conoscenze della madre che stravedeva per questo figliolo così vivace, poté accedere agli studi, dapprima nella scuola teologica locale e poi al seminario ortodosso di Tbilisi. Qui si accostò al marxismo e al movimento rivoluzionario di ispirazione socialista, e fu per questo espulso. Abbracciò allora la professione del rivoluzionario. Che l’avrebbe portato ad assumere in clandestinità vari nomi tra cui da ultimo quello di Stalin (acciaio), in linea col suo carattere duro.
Sulla sua vita illegale e le imprese avventurose, prigionia, deportazioni e fughe, si può utilmente leggere, anche se prevenuto e un po’ fazioso, il libro Il giovane Stalin, dello storico inglese Simon Sebag Montefiore (or. 2007).
Rivoluzionario bolscevico
Nel Partito operaio socialdemocratico russo (Posdr) fece parte della frazione bolscevica di Lenin e dal 1912 del Comitato centrale. Nel ‘17 a Pietrogrado partecipò alla fondazione del giornale “Pravda” e all’organizzazione dell’insurrezione di ottobre come membro del comitato militare del partito. Fu commissario del popolo alle nazionalità nel primo governo sovietico presieduto da Lenin; e gestì il processo che portò alla nascita dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (Urss), il 30 dicembre 1922
Impegnato su vari fronti durante la guerra civile quale commissario politico, aveva guidato la vittoria di Caricyn sul Volga, assicurando in un momento cruciale i rifornimenti di Mosca. Per questo la città aveva mutato nome in Stalingrado.
Per le straordinarie capacità di lavoro, grande memoria e abilità organizzative, nel 1922 fu nominato segretario generale del comitato centrale, carica tecnica che con lui acquistò progressivamente centralità politica. Da allora, la vicenda politica di Stalin è praticamente un tutt’uno con la storia dell’Urss.
Sostenne la possibilità, già intuita da Lenin, della vittoria del socialismo anche in un paese singolarmente preso, in contrasto con la tesi di Trockij, secondo cui la rivoluzione sarebbe fallita se non avesse trionfato su scala internazionale: una posizione che, secondo il giudizio di Gramsci, se fosse prevalsa, avrebbe portato all’avventura e alla disfatta.
Difese la Nuova politica economica (Nep) inaugurata da Lenin, dapprima in accordo nel gruppo dirigente con Kamenev e Zinov’ev, e poi assieme a Bucharin. Alla fine del 1929 concepì tuttavia la svolta verso la collettivizzazione delle terre e la costruzione dei kolchoz. Era iniziato il primo piano quinquennale e le poche risorse erano concentrate nella costruzione della base industriale del paese, di cui erano avvertite la necessità e l’urgenza. Nelle campagne prevaleva la piccola economia di autoconsumo e le eccedenze di grano con cui poter dare pane alle città erano in mano ai contadini più ricchi (kulaki). Questi rifiutavano di vendere allo stato nonostante i prezzi rialzati, sia a scopo speculativo che per la mancanza di beni di consumo in cui spendere il denaro. Il problema oggettivo era quello dell’arretratezza e della prima accumulazione necessaria per l’avvio dello sviluppo, che in occidente era stato risolto in un lungo processo di brutale sfruttamento operaio e delle colonie.
La collettivizzazione agricola
È questo uno dei passaggi più drammatici e contestati dell’esperienza sovietica, che portava la lotta di classe nelle campagne forzando a superare l’atavico attaccamento al lavoro individuale della terra, col quale si dovette comunque venire a compromesso, concedendo ad ogni famiglia per proprio uso un po’ di terra e di bestiame. Lo scontro più aspro fu con i kulaki, la cui resistenza si tradusse in alcune zone dell’Ucraina in insurrezione armata, con assalto alle fattorie collettive, distruzione dei raccolti e uccisione su larga scala degli animali. Ad essa si fece fronte con una dura repressione e deportazioni in massa. La scelta della distruzione del bestiame, compreso quello da cortile, istigata dai movimenti nazionalisti clandestini che puntavano alla disfatta dello stato socialista, si combinò con due annate consecutive di cattivi raccolti per la siccità (1931-1932). Vennero a mancare le riserve di carne con cui tradizionalmente in Russia si alleviavano i periodi di carestia, e ci fu in varie zone una estesa fame, migrazioni e morti terribili per fame. Sull’entità della tragedia mancano ricerche obiettive e fondate su dati certi, come sarebbero i registri anagrafici comunali, che pure si sono conservati. Si danno invece cifre arbitrarie ed esagerate, come in generale per la repressione in Urss durante tutta l’era sovietica. Soprattutto, si vuole attribuire a Stalin e ai russi, con una strumentalizzazione in chiave nazionalistica, la volontà genocida di annientamento degli ucraini per fame (holodomor), puntando a fare di questa narrazione l’elemento fondante di una nuova identità ucraina contrapposta all’elemento russo. È un disegno lucidamente perseguito dalle forze filo-occidentali di destra giunte al potere in Ucraina con il colpo di stato di Majdan del 2014, che si pongono esplicitamente in continuità con i kulaki ribelli di allora e i collaboratori dell’invasione hitleriana del 1941.
Per quanto riguarda i risultati della collettivizzazione dal punto di vista produttivo è ritenuto da più parti che sia stata un totale fallimento. In una recente conversazione insieme a Luciano Canfora sull’inserto culturale domenicale del “Corriere della Sera”, il professor Ettore Cinnella sostiene che “i risultati furono disastrosi sotto tutti gli aspetti” e che “la collettivizzazione distrusse per sempre l’agricoltura”.
In realtà, pur scontando un periodo di caos e difficoltà di assestamento, il passaggio all’organizzazione cooperativa dei kolchoz consentì una rapida uscita delle campagne russe dalla secolare arretratezza, passando dall’aratro di legno al trattore e producendo un salto di qualità nella vita rurale, in termini sia di riduzione della fatica fisica che di istruzione, salute e nuove opportunità di servizi socio-culturali. Anche la produzione dal raccolto del 1933 aumentò: l’Urss figurava nelle statistiche mondiali della seconda metà degli anni Trenta come il maggior produttore mondiale di grano, staccando nettamente in cifre assolute gli Stati Uniti. Soprattutto, furono garantite in modo stabile le consegne allo stato, e si poterono accumulare anche riserve; il che consentì di poter affrontare l’emergenza della seconda guerra mondiale, quando con l’occupazione tedesca venne meno la produzione delle regioni occidentali.
Gli stessi tedeschi, dopo aver annunciato con clamore nell’Ucraina occupata il ripristino della proprietà privata, tornarono sui loro passi per non vedersi ridotte le fonti di cibo. E l’ucraino Chruščëv, nell’ampio dossier di accuse elevate a carico di Stalin, si guardò dall’inserirvi la collettivizzazione agricola, difesa anzi alla sua epoca in maniera integralistica.
Processi contraddittori
Gli anni Trenta sovietici furono attraversati da processi inediti e contraddittori. Mentre il mondo capitalista era colpito dalla grande depressione iniziata col crollo azionario di Wall Street dell’ottobre 1929 e contava milioni di disoccupati, nell’Urss del primo piano quinquennale la disoccupazione cessava di esistere.
Nel 1935 si avviava la redazione della nuova Costituzione sovietica. Un’ampia e rappresentativa Commissione provvide a una prima stesura, che fu sottoposta ad una larga discussione in tutto il Paese. Si tennero centinaia di migliaia di riunioni e furono raccolte oltre 150mila proposte di emendamenti. Mentre in tutta Europa soffiava il vento dell’autoritarismo fascista e militarista, in Urss veniva avanti una proposta nuova di democrazia, alternativa a quella capitalistica. Approvata in via definitiva dal congresso straordinario dei Soviet il 5 dicembre 1936, la nuova Costituzione sanciva il primato della proprietà socialista nelle due forme statale e cooperativa-kolchosiana. Erano ammesse la piccola proprietà artigiana e quella dei contadini che non avevano voluto aderire ai kolchoz, col divieto tuttavia di impiegare e sfruttare dipendenti.
Il lavoro era un diritto assicurato e un obbligo d’onore e si affermava il dovere della società di provvedere a coloro che per età o invalidità non erano in grado di lavorare. L’uguaglianza delle opportunità e dei diritti era effettivamente garantita, indipendentemente dal sesso, dalla razza e dalla nazionalità. Universalmente assicurato il diritto all’istruzione. L’orario di lavoro come regola era fissato in 7 ore giornaliere, con riposo settimanale e ferie assicurate, e cure termali in luoghi un tempo riservati agli aristocratici. Queste misure non solo hanno anticipato di molti anni la costruzione dello stato sociale in tutta Europa, ma l’hanno fortemente stimolata.
Il diritto di voto esteso a tutti si tradusse in una legge elettorale su base uninominale, ove tutte le associazioni di lavoratori potevano avanzare proposte di candidatura. E mettersi d’accordo per un candidato o una candidata comune. Chi non avesse raggiunto la maggioranza assoluta del corpo elettorale non sarebbe stato eletto e le elezioni si dovevano ripetere. Tanto per dire, con la legge elettorale sovietica le ultime elezioni politiche in Italia avrebbero lasciato a casa tutti i candidati.
Le prime votazioni a carattere universale fortemente coinvolgenti, il 12 dicembre 1937, furono un evento che si impresse fortemente nei ricordi di coloro che vi parteciparono. Una mobilitazione eccezionale dal basso in campo economico si espresse nel movimento stacanovista.
In contrasto con questi processi democratici ci fu un inasprimento dei contrasti attorno al potere e l’avvelenamento della lotta politica con atti di terrorismo di gruppi clandestini, di cui l’assassinio, il 1° dicembre 1934, del capo del partito di Leningrado e numero due del gruppo dirigente sovietico,Sergej Mironovič Kirov, fu la manifestazione più eclatante. Seguirono i grandi processi pubblici ai vecchi oppositori, l’epurazione di massa nelle file del partito e il grande terrore del 1937-38 rivolto ciecamente in ogni direzione, e che la critica storica oggi qualifica come una peculiare forma di “guerra civile nel partito”, assimilata per certi aspetti alla rivoluzione culturale in Cina trent’anni dopo.
Per altro, nel 1957 proprio il leader comunista cinese Mao Zedong, riflettendo sui fatti d’Ungheria ma tenendo anche presente il periodo staliniano, aveva scritto un importante saggio di arricchimento della teoria marxista, sul modo corretto di risolvere le contraddizioni in seno al popolo e sulla necessità di non confonderle con le contraddizioni con il nemico: contraddizioni di natura differente vanno affrontate in modo differente.
Il contesto internazionale
Fondamentale per la comprensione dell’esperienza sovietica è il contesto internazionale, che fu sempre fortemente condizionante. In un mondo dominato dal capitalismo ostile, l’Urss elabora la proposta della coesistenza pacifica fra sistemi sociali diversi e si avvale per la salvaguardia della propria esistenza della simpatia diffusa tra i lavoratori di tutti i paesi, della contrarietà a una nuova guerra e delle contraddizioni tra capitalisti.
Gli anni Trenta furono segnati, specie dopo l’avvento al potere di Hitler, da una costante crescita di aggressività e volontà espansiva delle potenze fasciste – Germania, Italia e Giappone – rispetto a cui insistentemente l’Unione Sovietica perorò la causa degli accordi per una sicurezza collettiva, ove la pace fosse garantita per tutti. Ma le potenze fasciste si presentavano come la punta di lancia dell’anticomunismo e mostravano di rivolgere le mire di rivincita soprattutto verso il territorio sovietico, come vollero anche reclamizzare con il patto anti-Komintern; per cui le potenze del capitalismo democratico – Regno Unito, Francia e Stati Uniti, in particolare – ritennero che tali mire fossero da non ostacolare. Il disegno accarezzato era che fosse il fascismo a liberare il mondo capitalista dall’alternativa insidiosa del socialismo, portando a compimento ciò che non era riuscito all’intervento delle 14 potenze all’indomani della rivoluzione.
A tale obiettivo furono sacrificate via via le sorti della Repubblica Spagnola lasciata priva di ogni aiuto in balìa dell’interventismo italo-tedesco, dell’Austria sacrificata all’annessionismo germanico, della Cecoslovacchia tradita.
Il culmine di questa politica, impropriamente definita di pacificazione (appeasement) in realtà attivamente collaborazionista, fu la conferenza di Monaco (29-30 settembre 1938), da cui non a caso si volle escludere l’Urss, che era la meta finale oltre quegli accordi. Francia e Inghilterra non si limitarono a rassicurare Hitler del loro non intervento sulle vicende cecoslovacche, ma si assunsero il compito di spingere il governo di Benes a capitolare, cedendo i Sudeti, dove c’erano le fortificazioni difensive e le miniere. Il leader ceco dovette dimettersi, dopo che anche la Polonia si era unita alla Germania nell’intimare con un ultimatum la cessione dei territori di Teschen, partecipando alla spartizione. I militari di destra al potere in Polonia, poco previdenti, credevano di poter trarre vantaggio dall’espansionismo tedesco verso est.
Dopo Monaco, gli anglo-francesi si impegnarono anche per far cessare la resistenza antifascista in Spagna: riconobbero il governo di Franco (27 febbraio 1939) e i servizi segreti inglesi spinsero il generale Casado a Madrid al colpo di stato, estromettendo il governo del socialista Negrìn (4 marzo 1939) e ponendo fine alla resistenza. Il 14 marzo Hitler occupava quello che restava della Cecoslovacchia, imponendo il protettorato sulla Boemia e la Moravia e uno stato vassallo in Slovacchia.
Con questa operazione la regione dell’Ucraina carpatica era a disposizione della Germania e la stampa anglo-francese preannunciò come prossima mossa l’avanzata tedesca sull’Ucraina sovietica. Sembrava dunque prossimo a realizzarsi il sogno di Chamberlain. Sennonché, deludendo gli osservatori plaudenti, Hitler lasciò l’Ucraina carpatica all’Ungheria e Ribbentrop il 21 marzo sollecitava in maniera stringente la Polonia a cedere Danzica e consentire una strada extraterritoriale di collegamento (corridoio).
A questo punto gli anglo-francesi cercarono di rientrare in gioco offrendo la propria garanzia alla Polonia (31 marzo e 6 aprile), poi tradotta in un impegnativo patto militare. Contando su queste assicurazioni i capi polacchi respinsero le richieste tedesche, ma si opposero anche a qualunque accordo difensivo con l’Urss. Con la quale gli anglo-francesi portavano avanti trattative inconcludenti, cercando di prendere tempo senza assumere impegni. Eppure, nel suo rapporto al 18° Congresso del Partito Comunista (bolscevico) nel marzo 1939, Stalin aveva lanciato un chiaro avvertimento: l’Urss non era disponibile a cavare le castagne dal fuoco e scottarsi per conto terzi.
Quando è iniziata la guerra
Si è soliti far coincidere l’inizio della seconda guerra mondiale con l’invasione tedesca della Polonia il 1° settembre 1939, cioè con la guerra tedesco-polacca. Questa datazione è oggi contestata, perché riflette una visione tutta eurocentrica o per meglio dire anglo-centrica: la guerra inizia quando il Regno unito la dichiara (3 settembre 1939).
In realtà a quella data la “guerra mondiale a pezzi” era già in corso da anni. In Asia il Giappone aveva invaso nel 1931 la regione cinese della Manciuria e nel 1937 la Cina centrale; ed ora premeva con attacchi di assaggio alle frontiere sovietiche.
In Africa l’Italia fascista aveva invaso l’Etiopia il 3 ottobre 1935, nel maggio 1936 aveva occupato Addis Abeba e proclamato l’impero; e tuttavia né il governo legittimo si era arreso né il paese era pacificato, era in corso la guerra partigiana.
Nell’Europa stessa i fascio-hitleriani erano intervenuti contro la Repubblica spagnola, in aiuto della quale si era mossa l’Urss, con gli anglo-francesi trincerati dietro un ipocrita “non intervento”. E prima della Polonia c’erano state l’invasione e l’annessione dell’Austria (marzo 1938), e della Cecoslovacchia (1938-39).
In questo quadro internazionale è semplicemente ridicolo voler addebitare all’Urss la corresponsabilità dello scoppio della seconda guerra mondiale, per aver colto nell’estate ‘39, di fronte al rifiuto anglo-francese di alleanza e all’ostilità della Polonia a qualsiasi accordo, l’opportunità offerta del patto di non aggressione con la Germania, per guadagnare tempo e rafforzarsi economicamente, politicamente e militarmente. Con le clausole segrete annesse al patto, l’Urss impediva all’espansionismo tedesco, ormai chiaramente dispiegato verso est, di installarsi ai propri confini, premunendosi con una fascia di sicurezza fino al Baltico che gli anglo-francesi non avevano voluto garantire.
Nei piani di Hitler, già enunciati a suo tempo nel Mein Kampf, un testo non meditato a fondo in Occidente, l’attacco all’Urss doveva essere preceduto dalla “spiegazione” con la Francia, cioè dalla sconfitta di questa. E qui risalta ancora di più la miopia dei governi franco-inglesi accecati dall’anticomunismo. Quanto alla garanzia che Regno unito e Francia avevano dato alla Polonia, Hitler la riteneva un bluff; e quando Chamberlain gli mandò una lettera per dire che questa volta faceva sul serio, pare lo abbia liquidato con i suoi generali rievocando i precedenti: “sono piccoli vermi. Li ho visti a Monaco”.
E Francia e Inghilterra gli diedero ragione!. Al di là della nominale dichiarazione di guerra, non fecero effettivamente nulla per aiutare la Polonia invasa, non una bomba dal cielo, non un colpo di fucile sparato. La loro fu una “finta guerra”. L’intervento dell’Urss in Polonia di fronte alla passività occidentale e mentre il governo polacco fuggiva in Romania, permise di riunire all’Ucraina e alla Bielorussia le regioni occidentali che la Polonia aveva occupate con la guerra del 1919-21, arrestando l’avanzata tedesca. Erano, per altro, sostanzialmente gli stessi confini che il ministro degli esteri inglese Curzon aveva disegnato nel quadro degli accordi di pace di Versailles dopo la prima guerra mondiale. E sono i confini di oggi.
Eppure, la propaganda anticomunista e antirussa, impegnata a fomentare una nuova guerra fredda, rovescia i fatti storici puntando a fare del patto Molotov-Ribbentrop il capro espiatorio delle responsabilità occidentali, presentandolo come la causa della seconda guerra mondiale. Una grossolana falsificazione, che è arrivata anche ad essere accolta dallo stesso Parlamento europeo, dove la maggioranza dei deputati plaude ormai a tutto quello che viene dai governi di destra est-europei maggiormente dipendenti dagli Stati Uniti.
La cosa è anche paradossale per paesi come l’Ucraina, che di quei confini, poi riconosciuti anche dagli Alleati, si giovano tuttora.
Fu la Germania a porre fine alla “guerra finta”, attaccando il 10 maggio ‘40 ad occidente e sbaragliando in poche settimane il potente esercito francese e l’armata inglese che lo affiancava, costretta ad un precipitoso rimpatrio. Truppe che erano rimaste per tutto il tempo inoperose, in attesa, trincerate dietro la linea Maginot. Churchill, subentrato a un Chamberlain disfatto nella guida dell’Inghilterra, poteva sperare ora solo nell’Unione sovietica.
La grande guerra patriottica
Il 22 giugno 1941 il più potente esercito di tutti i tempi invase da tre direzioni l’Unione Sovietica senza dichiarazione di guerra; il 7 dicembre successivo il Giappone, pure senza dichiarazione di guerra, attaccava la flotta americana a Pearl Harbour. È a seguito di questi due avvenimenti che i diversi teatri della guerra si unificarono e la guerra divenne effettivamente mondiale.
Che Stalin all’indomani dell’attacco tedesco sia andato a nascondersi è uno di quei miti che si sono incrostati sulla sua figura nel quadro di quella che Domenico Losurdo, in un libro del 2008, ha chiamato la “leggenda nera”. Al contrario, dai registri degli incontri al Cremlino che si sono conservati risulta un’attività spasmodica per orientare, organizzare e galvanizzare la resistenza, in uno sforzo rivolto a mobilitare tutte le risorse, di cui è espressione alta il discorso alla radio del 3 luglio. Certo, non fu al riparo da errori, ma nel complesso gli storici riconoscono che fu all’altezza della sfida imposta ai popoli dell’Urss. Appena dieci giorni dopo l’invasione Goebbels, che si aspettava il crollo dell’Urss “come un castello di carte”, annotava nel suo diario che non sarebbe stato “un picnic. Il regime russo ha mobilitato il popolo”.
Già dai primi giorni dunque cominciarono a saltare i piani della progettata guerra lampo. I tedeschi furono bloccati alle porte di Mosca e Leningrado, e la battaglia di Mosca nell’inverno mostrò che l’esercito tedesco poteva essere battuto.
L’anno dopo a Stalingrado arrise all’Armata rossa una grande vittoria, che con la disfatta dell’Armir si riflesse anche in Italia mettendo in crisi la tenuta del fascismo. Con la successiva battaglia dei carri armati a Kursk l’iniziativa della guerra fu perduta dai nazisti definitivamente.
Il ruolo di Stalin capo politico e militare nella guerra, già bistrattato da Chruščëv in un quadro di accuse in gran parte fantasiose – rimando per l’analisi al mio Il processo Stalin – viene oggi rivalutato in Russia, come anche si è visto con l’inaugurazione di recente di un suo busto a Volgograd, la città sul Volga che non si capisce per altro cosa aspetti a riprendere il suo glorioso nome.
Finita la guerra si presentò il compito immane della ricostruzione. L’Urss avrebbe avuto bisogno di pace e si trovò di fronte, invece, alle tensioni della guerra fredda. Gli Usa ostacolarono la conclusione dei trattati di pace con la Germania e il Giappone, si insediarono stabilmente con basi militari nei paesi dove erano arrivati e intervennero militarmente nelle vicende interne alla Corea, portando il mondo sull’orlo di una nuova guerra generale.
All’interno dell’Urss il clima distensivo che aveva portato nel 1947, tra i primi paesi al mondo, all’abolizione della pena di morte, lasciò il campo a rinnovati sospetti e caccia al nemico interno, con esasperazioni tragiche, di cui fu vittima lo stesso Stalin, lasciato solo e senza cure al momento della morte.
Degno di nota per la sua lucidità il suo ultimo atto pubblico, quasi un testamento: l’invito rivolto dalla tribuna del 19° congresso del Pcus (ottobre 1952) ai partiti comunisti dell’occidente a prendere in mano la bandiera delle liberta democratiche affossata dalla borghesia. Un messaggio che conserva molto della sua validità.
Un bilancio controverso
Morendo Stalin lasciava un’Urss assurta a seconda potenza mondiale, in grado di tenere testa all’enorme forza economica e militare dell’imperialismo americano, di cui aveva spezzato il monopolio atomico. La scienza sovietica aveva fatto passi da gigante e di lì a poco avrebbe aperto la via all’esplorazione spaziale. Si era creato dopo la guerra un vasto campo socialista, riferimento e sostegno per i popoli coloniali in lotta per la propria liberazione. Il movimento comunista internazionale si era grandemente rafforzato ed esteso, specie con la vittoria della rivoluzione cinese. E contro la guerra fredda si era dispiegato il grande movimento mondiale dei partigiani della pace, precedente fondativo del pacifismo politico contemporaneo.
Ai funerali furono presenti numerosi capi di stato, e di altri pervennero omaggi riconoscenti. Dalle diverse parti dell’Unione sovietica, comprendente 15 repubbliche associate, accorsero in centinaia di migliaia, testimonianza di un prestigio e di un affetto reali, cresciuto nelle difficoltà e tragedie dell’edificazione socialista e nel superamento delle terribili prove e sacrifici della guerra patriottica e della ricostruzione.
Anche quei funerali tuttavia, a causa di una insipiente organizzazione affidata dal gruppo dirigente allo scalpitante Chruščëv, furono funestati dalla tragica morte di decine di persone, schiacciate nella calca dall’enorme folla in un afflusso caotico e indisciplinato.
La sorda lotta scatenatasi dopo la morte di Stalin per la successione, di cui furono espressione l’uccisione di Beria, il “rapporto segreto” del ‘56, la liquidazione successiva come “gruppo antipartito” della maggioranza dell’ufficio politico, mostra un limite irrisolto della struttura istituzionale sovietica: l’assenza di un meccanismo in grado di consentire un ordinato avvicendamento e rinnovamento in un quadro di garanzie del gruppo dirigente.
Fu responsabilità di Stalin il prolungamento indefinito dello stato di eccezione, che consentiva eccessi di arbitrio e di violenza. Ma erano anche tempi violenti quelli, tempi di guerra in cui, come ricorda Brecht “a coloro che verranno”, non si poteva essere “gentili”. Una guerra prolungata, di trent’anni e oltre, inaugurata dal totalitarismo degli eserciti e dagli spaventosi massacri della guerra ‘14-’18, scaturita dalla competizione imperialistica tra le potenze liberal-democratiche, ai cui esponenti non si è chiesto mai conto, in vita o in morte, dei crimini commessi.
Abbozzando un bilancio dell’opera di Stalin, non potendo condividere quello iconoclasta e demolitorio di Chruščëv, il leader cinese Mao Zedong disse che l’operato di Stalin poteva considerarsi per il 70 per cento positivo e per il 30 per cento negativo; fornendo una traccia per una ricostruzione storica critica che è ancora da fare.
Note:
1Storico, autore, tra i numerosi libri pubblicati, de Il processo Stalin, Castelvecchi, Roma 2019.
Bibliografia
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Antonio Carioti (a cura di), Processo a Stalin, conversazione tra Luciano Canfora ed Ettore Cinnella, “La Lettura-Cds”, 12 febbraio 2023, pp. 44, 46-7;
Chris Bellamy, Guerra assoluta. La Russia sovietica nella seconda guerra mondiale, Einaudi, Torino 2010;
Costituzione (legge fondamentale) dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, Edizioni in Lingue Estere, Mosca 1947, in https://www.associazionestalin.it/costituzione_1936.pdf
Ruggero Giacomini, Il processo Stalin, Castelvecchi, Roma 2019;
Id., La carestia del 1933 in Ucraina e le responsabilità, Marx21.it, 25 luglio 2019, https://www.marx21.it/storia-teoria-e-scienza/storia/la-carestia-del-1933-in-ucraina-e-le-responsabilita/
Clement Leibovitz, Alvin Finkel, Il nemico comune. La collusione antisovietica fra Gran Bretagna e Germania nazista, Fazi, Roma 2005;
Mao Tse-Dun, Sulle contraddizioni nel popolo, Editori riuniti, Roma 1957, consultabile in http://www.bibliotecamarxista.org/Mao/libro_14/sull_sol_cd_sen_pop.pdf;
Roj A. Medvedev, Žores A. Medvedev, Stalin sconosciuto. Alla luce degli archivi segreti sovietici, Feltrinelli, Milano 2021;
Simon Sebag Montefiore, Il giovane Stalin, Longanesi, Milano 2010;
Stalin, Questioni del leninismo, traduzione di Palmiro Togliatti, Edizioni Rinascita, Roma 1952;
Id., Discorsi di guerra (1941-1944), Macchiaroli, Napoli 1944, consultabile in https://scintillarossa.forumcommunity.net/?t=46122809; Id., Problemi della pace, prefazione di Pietro Secchia, Edizioni di Cultura Sociale, Roma 1953.
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