di Norberto Natali
Cinquant’anni fa (7 luglio 1973) moriva il compagno Pietro Secchia, assassinato dalla CIA.
Fu avvelenato -come dimostrò il prof. Biocca, grande microbiologo che lavorò anche per l’ONU in America Latina- in Cile i primi giorni del 1972, con l’uso di un fungo sudamericano all’epoca sconosciuto in Europa: in genere la morte era istantanea ma la sua forte tempra lo fece sopravvivere (sia pure in condizioni sempre peggiori) per un anno e mezzo.
Aveva appena compiuto 68 anni ed era in ottima forma quando fu avvelenato, e avrebbe potuto dare molto, ancora forse per altri dieci-quindici anni, alla lotta di classe italiana ed internazionale e al P.C.I.
Mi fece impressione, circa trentuno anni fa, quando si parlò per la prima volta della “Gladio” sentire da Andreotti (fu la sua prima versione) che certi apparati erano stati sciolti vent’anni prima: quasi volesse “rivendicare” le trame e i crimini compiuti fino al 1972, quando fu realizzato l’assassinio del Capo comunista della Resistenza.
Fu anche per coprire questa realtà che qualche marionetta dell’imperialismo (circa un ventennio dopo) escogitò la balla dell’attentato sovietico al compagno Berlinguer, in Bulgaria, nel 1973. Anche la morte assai prematura di Secchia, oltre alla sua emarginazione (avvenuta quasi venti anni prima) dalla Direzione del Partito -insieme ad un gran numero di compagne e compagni protagonisti della vita clandestina del P.C.I., della Resistenza e delle lotte successive- contribuì ad influenzare gli avvenimenti che seguirono fino all’effettiva liquidazione del Partito, unico (se non erro) caso al mondo tra le varie sezioni della Terza Internazionale.
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Tuttavia non è corretto definire Secchia un “eretico” poiché egli incarna la storia e la natura più autentica del P.C.I.: ancora recentemente, per esempio, qualche troschista ha detto che furono “Togliatti e Secchia” a… tradire il socialismo per servire il capitalismo italiano!
D’altra parte, quando morì, gli furono riservati dal P.C.I. onori molto simili a quelli di un Segretario Generale a cominciare dal fatto che la sua morte fu annunciata con la massima solennità -sulla prima pagina de L’Unità, con grande rilievo- da un comunicato ufficiale del Comitato Centrale e della Commissione Centrale di Controllo.
Dopo la sua scomparsa un certo numero di Comandanti Partigiani (e prestigiosi dirigenti del Partito, tra cui diversi parlamentari) si “organizzarono” sia per proseguire l’opera di Secchia e valorizzarne la memoria, sia per contrastare le tendenze o posizioni di carattere revisionista.
Scusandomi per i torti verso coloro che ingiustamente non nomino, ricordo: Arnaldo Bera, operaio lombardo, valoroso Partigiano catturato dai fascisti, poi senatore, dirigente di Partito e dell’ANPI, il quale fu designato da Secchia stesso come colui che doveva prendere tutte le decisioni in merito alla propria eredità politica e morale; Ambrogio Donini, prestigioso dirigente del P.C.I. ed esponente della Terza Internazionale (tra l’altro seguì i tentativi per liberare Gramsci), anche lui con una biografia avventurosa di lotta e compagno che Togliatti volle a dirigere il fronte della battaglia culturale del Partito; Alessandro Vaia, operaio milanese, militante del Partito clandestino, valoroso combattente di Spagna (divenne Generale delle Brigate Internazionali), poi Comandante Partigiano. A loro si unirono anche Ludovico Geymonat -noto come grande filosofo della scienza a livello mondiale- ma che fu anche combattente di una delle prime formazioni Partigiane garibaldine e militante comunista; Paolo Robotti, operaio torinese, dalla vita eroica in Italia e all’estero, Partigiano e dirigente del Partito nonché cognato di Togliatti, e molte altre ed altri.
Dopo aver pubblicato l’archivio di Pietro Secchia, questi compagni diedero vita alla rivista Interstampa che dalla fine degli anni ’70 iniziò una tenace, coraggiosa, lucida battaglia per la difesa delle più autentiche ed originali caratteristiche del P.C.I., tutto ciò nel rispetto dello statuto.
Interstampa fu salutata da una parte dei gruppi dirigenti del Partito con una persecutoria montatura contro il compagno Sorini, all’epoca giovane e promettente dirigente, molto preparato e che nei decenni successivi ha avuto a livello nazionale una funzione di primo piano nella lotta per la difesa degli ideali comunisti e per la solidarietà internazionale. Con motivazioni pretestuose e contraddittorie, nel 1982, fu sospeso dal Partito.
L’opposizione del compagno Cossutta allo “strappo”, poi la presentazione dei suoi emendamenti congressuali furono fatti successivi e, per così dire, indipendenti da Interstampa e dai compagni che l’avevano fondata. Molti pensano che negli anni ’80 ci fu una unica area “filosovietica” o addirittura “cossuttiana” ma non è così: origini e finalità politiche dei compagni di Interstampa (cioè di Secchia) e del compagno Cossutta (e di tanti altri collegati a lui come il compagno Cappelloni) erano diverse ma trovarono il modo, per qualche anno, di convivere per una battaglia comune.
Basti ricordare che fu proprio il giovane dirigente “amendoliano” Cossutta, alla fine degli anni ’50, ad essere eletto Segretario della Federazione milanese del P.C.I. per estromettere i compagni ritenuti vicini a Secchia, tra i quali Alberganti, Bera, Ricaldone, Sacchi, Vaia ed altri.
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Interstampa fin dai primi anni ’80 aggregò diversi compagni giovani in parecchie regioni (tra cui anche chi scrive) i quali insieme a coloro che avevano collaborato con Secchia, si orientarono, nel giro di pochi anni, verso la scelta di separarsi dal gruppo dirigente centrale del P.C.I. (quindi separarsi dal P.C.I. e non dal PDS) e dare vita ad un nuovo Partito Comunista in Italia.
D’altronde, la stessa cosa, in quegli anni, successe almeno in metà dei Partiti Comunisti d’Europa mentre in Unione Sovietica nacque “Iniziativa Comunista”, una aggregazione interna al PCUS che combatteva la direzione di Gorbaciov.
Si possono rintracciare molti riscontri di questa tesi. Per esempio, già alla fine del 1985, commentando su Interstampa le tesi elaborate dal Comitato Centrale per il XVII congresso, il compagno Vaia afferma che esse erano a favore dei “liquidatori”. Ovvero, nel vertice del Partito, c’era una componente non di revisionisti (che potevano presentarsi più elegantemente come “innovatori”) ma un gruppo che voleva proprio eliminare il Partito, nella sua connotazione politica e storica a prescindere dal nome e dal simbolo.
Se c’erano dei liquidatori, se questi potevano prendere il sopravvento (e dunque liquidare il Partito, con o senza il cambiamento di nome e simbolo) era inteso che la prospettiva -sia pure da dispiegare nel giro di qualche anno- era di dotarsi di un altro partito, comunista. Pochi mesi dopo, nella primavera del ’86, a XVII congresso concluso, Interstampa pubblica un’apposita lettera di Vaia, il cui fulcro è che “hanno vinto i socialdemocratici”. Tutti sanno che ciò che caratterizza i comunisti (e Vaia era un comunista, eccome!) è la scelta di non mischiarsi con i socialdemocratici o i riformisti nello stesso partito. Dunque era solo una questione di tempo: se il Partito è caduto in mano ai socialdemocratici, il problema concreto è separarsi, avere un Partito senza riformisti.
Qualcuno, in disaccordo con quanto appena scritto, potrebbe invocare la parte conclusiva di quella lettera del compagno Vaia. Invece, proprio in quella parte, si critica chi abbandona SUBITO e ISOLATAMENTE il Partito, si sostiene che la scelta di separarsi non deve essere “impulsiva” o “improvvisata”: appunto, va preparata ed organizzata bene, se ne deduce.
Così si manifestò la coesistenza -volendo essere sbrigativi- tra due linee: la prima (Cossutta, ecc.) che puntava alla lotta interna al P.C.I. (pur consapevole della sua “mutazione genetica”) avente come possibile sfondo strategico la sua riconquista; la seconda (Vaia, Bera e altri) che considerava la predetta lotta interna solo come momento tattico in vista dell’inevitabile scissione per la nascita di un nuovo Partito. Tanto che dopo le elezioni politiche del 1987 (marcata sconfitta elettorale causata dalla linea revisionista) si decise di andare ad una sorta di “congresso” di quell’intera area, il quale fu fissato per l’inizio dell’estate del 1988.
Doveva trattarsi di un’assemblea nazionale con centinaia di delegate e delegati scelti, regione per regione, in proporzione al numero di abbonati a Interstampa e ad Orizzonti, una rivista da poco tempo fondata dal compagno Cossutta e che -secondo i più diffidenti- aveva lo scopo di sabotare Interstampa.
Con tutta probabilità, tale assemblea avrebbe chiuso con la linea della “lotta interna” al Partito fine a se stessa e deciso la costituzione di un altro Partito: magari non subito ma comunque nel breve periodo. Tanto era diffusa questa convinzione che lo stesso compagno Cossutta, quasi all’ultimo momento, si ritirò (insieme a tutti coloro che condividevano la sua linea) ed impedì lo svolgimento di quel consesso. Ricordo ancora quando parlammo a tu per tu in uno di quei giorni, Cossutta ed io. Gli risposi con chiarezza che lui mi aveva convinto a schierarmi con gli “altri compagni”: gli dissi che sottrarsi al confronto dimostrava da parte sua una tale sfiducia nelle proprie posizioni da farmi ritenere che gli altri avessero ragione.
Si noti un dettaglio di valore strategico e dunque storico: mancava un anno e mezzo al famigerato discorso della Bolognina (novembre ’89) nel quale Occhetto preannunciò il cambiamento di nome e simbolo del Partito. Dunque, la nostra separazione non riguardava il nome e il simbolo ma la sostanza politica, la natura e l’identità di quel Partito, le sue finalità nonché la prospettiva che esso fosse destinato ad un grave indebolimento (ma all’epoca non avremmo mai immaginato che la disfatta avrebbe avuto le proporzioni conosciute nei decenni successivi).
In seguito alla mancata assemblea nazionale finì la convivenza all’interno di quell’area. Alcuni compagni rimasero intorno a Cossutta e Cappelloni più chiaramente come “corrente” interna al P.C.I.; altri abbandonarono il Partito, fondarono la rivista Comunisti Oggi per poi confluire in Democrazia Proletaria oppure (come lo scrivente) presero comunque una propria via autonoma dalla quale più tardi -tra l’altro- sorse Iniziativa Comunista.
Se veramente nell’estate del 1988 fosse stata decisa la nascita di un nuovo partito, comunque la si pensi, questo sarebbe stato molto diverso dalla Rifondazione Comunista nata appena tre anni dopo. Il mai nato partito “del 1988” avrebbe dovuto riflettere le caratteristiche da cui era scaturita Interstampa, ovvero i nessi con il pensiero e l’opera del compagno Secchia e -nel bene o nel male- avrebbe avuto un corso diverso da quello dei partiti scaturiti dalla scissione col PDS del 1991.
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Il compagno Armando Cossutta, Partigiano di Sesto San Giovanni, aveva grandi qualità ed esercitava un forte ascendente verso tanti di noi; in questo senso era ben poco paragonabile a molti dei dirigenti espressi dalla sinistra degli ultimi trent’anni. Tuttavia, ci ho messo un po’ di tempo a convincermene, egli puntava solo ad una “corrente” che procurasse una certa quota di posti negli organismi di Partito e -soprattutto- nelle assemblee elettive e nelle istituzioni.
Probabilmente ancora non lo sapeva ma -sia pur nelle condizioni corrispondenti all’epoca- anticipava una linea (sciagurata e fallimentare) poi seguita da molti quanto meno dal 1993 in poi: ovvero essere la sinistra del centrosinistra. In altri termini la simbologia e la “rappresentanza” comunista come ragione per partecipare alla vita di un partito inizialmente grande ma genericamente progressista, prima e ad una coalizione di governo -presentata come “meno peggio” della destra più becera- dopo. D’altra parte, pensava molto alle battaglie congressuali e ben poco a tutto il resto.
Dal 1988 tutto ciò divenne assolutamente chiaro: lui voleva evitare una scissione (un decennio dopo se ne è anche vantato pubblicamente) e puntava ad una corrente senza escludere unioni o compromessi anche disinvolti. Malgrado qualche frase di circostanza, i “cossuttiani” erano decisi a rimanere anche nel PDS, d’altra parte come il resto del fronte del NO (al cambiamento del nome, nel periodo 1989-1990).
Lo dicevano apertamente tutti che avrebbero accettato l’esito (scontato fin dall’inizio) dei congressi orchestrati da Occhetto. Si parlava di “Rifondazione Comunista” (così venne chiamata anche una mozione congressuale) ma si aggiungeva che essa si sarebbe realizzata all’interno del PDS. L’argomento più usato, all’epoca, era un arzigogolo paradossale: siccome il P.C.I. aveva già fatto -in politica internazionale, come in quella economica o nella vita interna, ecc.- tutte le “modernizzazioni” e cambiamenti necessari (cioè non era più comunista, direi banalmente) non c’era alcun bisogno di… cambiargli nome! Ossia il nome si poteva tenere, tanto c’era rimasto solo quello, di comunista!
Simili “ragionamenti”, del resto, risuonavano spesso anche all’interno del PRC, quanto meno nei suoi primi anni di vita. Si capisce perchè, dunque, quando il P.C.I. diventò PDS il fronte del NO si spaccò ed una sua parte cospicua rimase, appunto, nel nuovo partito di Occhetto: perfino il coordinatore della corrente di Cossutta -il prof. G. M. Cazzaniga (ex di Potere Operaio)- rimase nel PDS, lucrando un posto nella sua prima Direzione Nazionale.
Del resto, il compagno Cossutta, solo il 6 gennaio 1991 (appena un mese prima dello scioglimento formale del P.C.I.) propose timidamente di costituire una “Federazione” tra il PDS e quanti (come lui) avessero deciso di non aderirvi.
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Rovesciando il ragionamento, ci si può chiedere come mai nacque comunque un altro partito (quello di Rifondazione Comunista) nonostante le premesse fin qui ricordate. La risposta possiamo trovarla in un articolo di Dario Cossutta (il figlio di Armando) apparso su L’Unità il 7 agosto del 1990. Fatta eccezione per l’area di Interstampa, fu la prima volta in assoluto che nel P.C.I. si parlò di scissione o, meglio, di separazione.
Dario Cossutta sostenne che una separazione sarebbe stata di reciproca convenienza. Spiegò che “…non vi sarebbero in questo caso scissioni nel vero senso del termine, ma una consensuale decisione di separazione”. E aggiunse che diversamente un’unica organizzazione “…aprirebbe invece, inevitabilmente, spazi che verrebbero coperti in maniera politicamente sterile da formazioni culturalmente minoritarie (…) con il rischio, anche, di degenerazioni avventuriste…”.
Dopo parleremo degli “avventuristi minoritari” che impensierivano tanto l’autore del testo che all’epoca noi interpretammo alla luce dei motivi appena citati. Sbagliando, perchè il resto dello scritto ci appariva tanto astratto e inconsistente che lo liquidammo come pretesti per “allungare il brodo” e coprire il progetto discriminatorio con motivazioni apparentemente culturali. Invece Dario Cossutta aveva messo a fondamento della sua proposta una situazione che a noi (forse a tutti) appariva impossibile e invece si realizzò nel giro di tre-quattro anni, dando luogo a mutamenti profondi e gravi rispetto al mezzo secolo precedente.
Molti chiamarono ciò Seconda Repubblica, ovvero il regime bipolare della fasulla alternanza tra centrodestra e centrosinistra, destinati entrambi a condurre politiche molto simili tra loro. L’autore dello scritto, in realtà, spiegava che la nascita di un partito simbolicamente comunista era necessario per il sistema che si stava preparando e per lo schieramento di centrosinistra.
Per brevità, mi limito a citare il passaggio nel quale egli sostiene che la nascita (dallo scioglimento del P.C.I.) di due partiti, di cui uno con nome e simbolo comunista era “...la premessa per costituire a livello politico percorsi e forme vincolanti di impegno comune, rendendo nel fatti credibile la prospettiva di un governo di alternativa”.
Nel vecchio assetto elettorale proporzionale allora vigente, non potevamo capire il reale contenuto di questa frase, che ha senso solo alla luce del sistema maggioritario bipolare di quattro anni dopo.
In quel periodo, non sapevamo che sarebbe arrivato l’Ulivo, mentre Dario Cossutta preconizzava “…un villaggio composto da autonomi edifici abitati da famiglie solidali, pur con riconosciute ed esplicite sensibilità diverse…”. Infatti la sua tesi era che non bisognava cercare di fare una “casa comune” ma, al contrario, fare in modo che ogni “sensibilità” della sinistra fosse libera di agire in proprio per conquistare ciascuna più consenso possibile. A questo scopo, l’estensore del testo condannava i “preoccupanti atteggiamenti di sospetto, di incomprensione e di litigiosità” che si manifestavano nel Partito: un gruppo di traditori tentava di soffocarlo ma i compagni dovevano comportarsi con eleganza, distacco, bonton, per le ragioni che aveva esposto.
Si spiega meglio, allora, perchè la preoccupazione per gli spazi che si aprivano per minoritari e avventuristi era dovuta al timore che ciò provocasse “un indebolimento complessivo dell’intero
schieramento progressista” ovvero -direbbe un sempliciotto poco istruito come me- gli avventuristi non avrebbero aderito all’Ulivo di Prodi!
Uno come me, al tempo, non poteva capire fino in fondo tutto il significato di questo discorso: la futura politica antioperaia e anticostituzionale, di asservimento ulteriore alla NATO e alla UE, doveva poter contare sui voti di milioni di proletari i quali, sulla scheda elettorale, avrebbero scelto solo la falce e il martello e il nome comunista (almeno per qualche tempo).
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Trattando di quell’epoca non si deve mai dimenticare che -soprattutto il periodo 1989/1991- fu quello forse di maggiore incertezza, smarrimento e confusione di tutto il ventesimo secolo. È questo che spiega anche posizioni o scelte che oggi (con i parametri odierni) possono apparire non comprensibili o anche sbagliate.
Quindi è importante capire, per esempio, come tutta la compagine riconducibile a Interstampa o meglio al compagno Secchia, fosse ancora impreparata, nel 1988, al cimento della costruzione di un Partito, soprattutto sotto il profilo organizzativo. Ebbe una certa influenza, in questo, anche l’interazione (a volte forse l’interferenza) della parte più legata al compagno Cossutta o -se vogliamo- più “legalitaria” cioè contraria alla scissione.
Quel che più conta, però, è che il P.C.I. andava perdendo rapidamente i connotati marxisti-leninisti, diversi attributi internazionalisti e ancor più rivoluzionari; tuttavia (salvo forse negli ultimissimi anni) non ha mai perso il suo ruolo di partito (non propriamente rivoluzionario) della classe operaia italiana, la funzione di partito di eccellenza della pace, della democrazia, della Costituzione, dei Partigiani, della questione morale.
Pertanto, l’azione concreta (e la relativa organizzazione) dell’area di Interstampa si era sviluppata essenzialmente sui due campi nei quali ciò era possibile e necessario: quello delle relazioni e della solidarietà internazionalista e quello della lotta ideologica o di tipo dottrinario. Lo stesso periodo, per esempio, in cui il compagno Vaia già parlava di “liquidatori” nella Direzione del Partito, si era svolta la forte e fiera lotta contro il decreto di Craxi che tagliava la scala mobile, Berlinguer aveva “spaccato” la CGIL senza esitazioni per questo e il difficile referendum contro quel taglio: cosa dovevamo fare, su quel terreno, di diverso o addirittura critico nei confronti del P.C.I.? Non di meno alcune critiche da parte nostra, pur nella piena adesione e partecipazione alle iniziative e battaglie in corso non mancò.
Ciò richiama anche un’altra riflessione, ovvero che l’azione (nel senso di ricerca del consenso e proselitismo) inizialmente era rivolta -di norma, sebbene con qualche eccezione- a quella parte delle masse che GIA’ erano iscritte o simpatizzanti del P.C.I. Si lottava per lo più per far prendere coscienza a quanti GIA’ si reputavano comunisti (o vicini al Partito) di come parte dei suoi dirigenti si stava allontanando dalla nostra identità.
Questo, però, era solo l’inizio di un processo storico ma non esauriva i compiti che avremmo dovuto affrontare in futuro per separarci dal P.C.I. e dare vita ad un partito nuovo ed autentico. Avevamo bisogno, sul piano organizzativo e programmatico, di avere una funzione di avanguardia nel vivo dello scontro di classe nel paese, nella lotta sindacale, sociale, nei movimenti di massa e -per questa via- estendere i legami con la classe, radicarci e dunque conquistare direttamente il consenso popolare ed avanzare con il proselitismo.
Non ci fu tempo, l’azione di molti “cossuttiani” fu di intralcio e di impedimento all’impegno per questi nuovi compiti, e alla fine ci fu tutta la confusione e lo scompaginamento dell’anno e mezzo che precedette lo scioglimento del Partito.
Ciò che è storicamente chiaro è che la “Rifondazione Comunista” non poteva essere -se così si può dire- lo sbocco naturale o storico dei compagni che avevano seguito gli insegnamenti di Secchia e lottato per difendere il P.C.I., la sua identità e i suoi ideali. Lo dimostra quanto già esposto fin qui ma anche il fatto che il compagno Bera (e noi stessi e tanti altri) uscimmo in modo organizzato e pubblico dal Partito PRIMA della Bolognina, uscimmo dal P.C.I., non da un partito che aveva deciso di diventare PDS e PRC. Ed avevamo ben chiari i compiti -già richiamati- che avevamo di fronte.
Nella primavera del ’89 (cinque mesi prima della Bolognina) Interstampa pubblicò la motivazione con cui il compagno Bera lasciava il Partito e lì non si parlava solo di rapporti internazionali o dottrina politica: al centro c’era la lotta contro i monopoli finanziari e l’accentramento dei loro poteri, la difesa degli interessi dei lavoratori, della pace e della Costituzione. Lo stesso si può dire dell’editoriale di “Nuova Interstampa” del gennaio 1991 nel quale, tra l’altro, lo stesso Bera ricorda i temi appena citati ed anticipa un giudizio molto scettico sulle prospettive del cosiddetto fronte del NO interno al P.C.I.
Dello stesso tenore, a Roma, fu un documento sottoscritto anche da Geymonat con il quale trenta militanti del P.C.I. e della F.G.C.I. lasciavano le loro organizzazioni per costituire il comitato “Comunisti Sempre”.
Per tutto il 1990 si svolse un’intensa battaglia da parte nostra per dire che il P.C.I. non sarebbe finito e -checchè avessero fatto gli oppositori di Occhetto- noi avremmo comunque lottato per ricostituirlo: per questo motivo facemmo alcune importanti e partecipate manifestazioni nelle quali parlarono insieme Arnaldo Bera, Ludovico Geymonat e il generale Nino Pasti.
Ecco cosa preoccupava Dario Cossutta, quando scrisse il succitato articolo dell’agosto ’90.
Bisogna ancora ricordare che Vaia, Geymonat e Donini morirono nel 1991, che io stesso portai -in un certo senso “imposi”- il compagno Geymonat ad una grande manifestazione di Rifondazione Comunista a Roma, nella primavera del ’91, nella quale il vecchio filosofo Partigiano -applaudito con simpatia da tutti i compagni presenti- disse apertamente che non condivideva il documento che era la base della nascita di quel nuovo partito ed esortò i comunisti al “coraggio morale e fisico” per il futuro. Neanche Bera ha mai aderito al PRC.
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Spero che questi sommari ed approssimativi ricordi possano contribuire ad una riflessione storica per trovare una via che ci permetta di trovare una soluzione alla disfatta della sinistra italiana degli ultimi trent’anni, una via per ricostituire il P.C.I.
Tutta la sua storia, spero, potrebbe essere in questo cimento quello che per il Brunelleschi furono i piani del Pantheon: dopo molti secoli ritrovò in essi lo slancio e le soluzioni per avviare il rinascimento ed andare oltre quegli stessi vecchi piani. Noi abbiamo bisogno di un partito di classe, internazionalista, rivoluzionario -perciò di avanguardia- il quale sappia affrontare le lotte e le sfide del futuro come il P.C.I. seppe essenzialmente fare con quelle dei suoi tempi.
Può darsi che ciò significhi che dobbiamo tentare oggi (è perfino superfluo dirlo, con le caratteristiche adeguate alla situazione odierna) quello che la storia non ci consentì di fare trentacinque anni fa.
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