di Salvatore Tinè, Comitato scientifico di Marx XXI
La recensione di Roberto Saviano del libro di Alessandro Orsini “Gramsci e Turati” colpisce per la sua volgarità. Vi si accusa Antonio Gramsci di avere nientemeno fomentato la violenza e esaltato l’intolleranza nei confronti degli avversari politici. Per dimostrare tale assunto, Saviano cita alcune affermazioni del pensatore e dirigente comunista, che si possono leggere in alcuni suoi articoli e interventi degli anni ‘ 20. Si tratta di affermazioni, certamente molto dure, che non possono essere comprese, ove le si estrapoli dal contesto della lotta politica in Italia, negli anni che videro non solo la scissione del movimento operaio e socialista italiano, con la nascita del Partito comunista d’Italia ma anche l’insorgere della reazione fascista e l’avvento al potere di Mussolini. La durezza dei giudizi di Gramsci nei confronti non solo di Filippo Turati ma anche dell’intera tradizione del socialismo e del riformismo italiani appare, quindi, pienamente giustificata, in quel passaggio terribile della storia del nostro paese.
Essa discende peraltro da una riflessione profonda sulle debolezze e i limiti intrinseci delle culture politiche maggioritarie del movimento operaio italiano, di quella “massimalista” come di quelle “riformiste”, tutte incapaci di individuare i caratteri profondi della crisi della società e dello stato italiani del primo dopoguerra e di delineare così una concreta prospettiva strategica di fuoriuscita da essa. Il tema dell'”egemonia” è, non a caso, già al centro della riflessione di Gramsci nel periodo “ordinovista” come nella fase della sua biografia politica che lo vede impegnato nel lavoro di costruzione di un nuovo gruppo dirigente del PCd’I nel ’23-’24. Altro che esaltazione della violenza! Il riformismo aveva fallito per Gramsci proprio perchè non aveva saputo individuare nella lotta per l’egemonia, ovvero per la costruzione di un nuovo “blocco storico”, il terreno fondamentale della trasformazione in senso democratico e socialista della società. Certo, non sfugge a Gramsci il nesso fondamentale che lega ogni “egemonia” al “dominio” di una classe e quindi ad un apparato di coercizione statale. Ma Saviano forse non sospetta che a Gramsci ciò non sfuggiva proprio in quanto lettore attento non solo di Marx e Lenin ma anche di Machiavelli e del liberale Croce, grandi, geniali maestri di “realismo politico”. L’idea gramsciana dell’egemonia come “rapporto pedagogico”, come “direzione intellettuale e morale” è certo tutto il contrario di una astratta esaltazione della “forza” in quanto tale: come in Machiavelli, anche in Gramsci lo stato è sempre “egemonia corazzata di coercizione”, quindi tutt’altro che un mero apparato di dominio, teso alla pura e semplice eliminazione degli avversari. Il tema della violenza è peraltro al centro della grande riflessione teorica e politica del Novecento proprio negli anni in cui Gramsci si formava e diventava un protagonista della storia italiana. Si pensi, solo per fare un esempio, al grande saggio di Walter Benjamin “Sulla violenza”, un’analisi penetrante e geniale della immane violenza del potere “poliziesco” nei più grandi stati capitalistici e delle forme in cui tale violenza viene occultata e dissimulata dietro le “maschere” della “democrazia” e del “parlamentarismo”. C’è quindi una violenza nascosta e non solo palese, come quella, squisitamente “ideologica”, sottesa ad un siffatto attacco non solo al maggiore intellettuale italiano del XX secolo ma anche al più grande dei martiri dell’antifascismo, fulgido esempio di coerenza intellettuale e morale, per tutti noi, comunisti e no. Ma non è forse il caso di continuare: basta invitare Saviano non solo ad un atteggiamento di maggiore umiltà intellettuale ma anche a studiare e a riflettere di più sulla complessità della dialettica della storia e della politica.