Quanti errori su Gramsci. Una replica a Dario Biocca

di Nerio Naldi, Università di Roma, La Sapienza | da l’Unità

dibattitosugramsci thumbPurtroppo è ormai lunga la serie degli scritti che propongono ricostruzioni di aspetti della vita di Antonio Gramsci, e in particolare delle vicende che la segnarono dal 1926 al 1937, gli anni del carcere, basate su gravi errori interpretativi, se non addirittura su contraffazioni. E su questa linea, probabilmente in modo non voluto, si colloca anche un articolo a firma di Dario Biocca pubblicato il 25 febbraio da “La Repubblica”. Alcune delle considerazioni che si possono leggere in quell’articolo, che in realtà riassume il contenuto di un saggio in corso di pubblicazione sulla rivista “Nuova Storia Contemporanea”, sono svolte in modo troppo sintetico per poterle discutere senza attendere la pubblicazione del saggio completo. Ma quanto si afferma sulla richiesta presentata da Gramsci nel settembre del 1934 di accedere ai benefici previsti dalla legge per la concessione della libertà condizionale – e si tratta del punto più importante discusso nell’articolo – è espresso con grande chiarezza e merita già ora una risposta altrettanto chiara.

Secondo la ricostruzione proposta da Biocca, l’articolo 176 del Codice Penale in vigore negli anni in cui Gramsci presentò quella richiesta prevedeva che a tal fine il detenuto dovesse aver mostrato “ravvedimento”, e che in questo senso la procedura poteva e può essere considerata “analoga alla domanda di grazia”.

Ma tutto ciò bisogna dire che semplicemente non è vero.

Un riferimento al “ravvedimento” era contenuto nell’articolo 16 del Codice Penale del 1889 (il cosiddetto “Codice Zanardelli”):

“Il condannato alla reclusione o alla detenzione per un tempo superiore ai tre anni, che abbia scontato tre quarti della pena e non meno di tre anni, se si tratti della reclusione, o la metà, se si tratti della detenzione, e abbia tenuto tale condotta da far presumere il suo ravvedimento, può, a sua istanza, ottenere la liberazione condizionale, sempre che il rimanente della pena non supera i tre anni” (Codice Penale per il Regno d’Italia, Roma, Stamperia Reale, 1889).

Ma questo codice fu riformato nel 1930 con l’introduzione del cosiddetto “Codice Rocco”. E nel Codice Rocco l’articolo 176 recitava in questo modo:

“Il condannato a pena detentiva per un tempo superiore a cinque anni, il quale abbia scontato metà della pena, o almeno tre quarti se è recidivo, e abbia dato prove costanti di buona condotta, può essere ammesso alla liberazione condizionale, se il rimanente della pena non supera i cinque anni” (Il nuovo codice penale, Edizioni nuovo diritto, Roma, 1931; Codice Penale, Hoepli, Milano, 1939).

Dunque la richiesta di liberazione condizionale presentata da Antonio Gramsci nel 1934 non implicava nessun ravvedimento (la “buona condotta” è ovviamente cosa ben diversa) e nulla che potesse essere assimilabile a una domanda di grazia. E Gramsci, per quanto si può desumere da tutti i documenti disponibili, una tale domanda non solo rifiutò sempre di presentarla, ma volle evitare ogni comportamento che potesse consentire di indurre anche il semplice sospetto che egli volesse presentarla. E anche la dichiarazione che Gramsci firmò nell’autunno del 1934 impegnandosi a non utilizzare il beneficio ottenuto per fare propaganda politica in Italia o all’estero non aveva nulla a che fare con una “sottomissione” o un “ravvedimento” … certamente anche Mussolini sapeva che su questo terreno Gramsci non avrebbe accettato compromessi e capiva che era inutile sperare in una sua capitolazione.

Forse però Biocca non ha studiato né il Codice Zanardelli, né il Codice in vigore negli anni Trenta, ma il testo dell’articolo 176 secondo le modifiche introdotte nell’anno 1962; infatti è da questo che Biocca cita: “Il condannato a pena detentiva che, durante il tempo di esecuzione della pena, abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento, può essere ammesso alla liberazione condizionale” (Codice Penale, Giuffrè Editore, Milano, 1987) … ma non era questo il testo in vigore quando Gramsci presentava la sua domanda.

Ovviamente tutto ciò toglie ogni fondamento anche alle affermazioni di Biocca circa la possibilità che, presentando una richiesta di liberazione condizionale, Gramsci “tradisse” i propri compagni di partito.