di Luigi Cavallaro | da il Manifesto
Un ideale al quale la società avrebbe dovuto conformarsi o il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente? Una risposta a Rossanda, Ruffolo, Ciocca, Tronti
Non possiamo più dirci comunisti, perché è cambiato il mondo e non abbiamo sufficientemente aggiornato né gli strumenti d’analisi né le proposte: ha scritto così Rossana Rossanda, invocando «un esame di noi stessi» (il manifesto, 18 febbraio).
Giorgio Ruffolo è stato anche più drastico: tranne che in alcune società arcaiche, il «comunismo» non è mai esistito e non è proponibile in alcuna società moderna e complessa «se non come pura aspirazione ideale alla comunione dei santi» (21 febbraio).
Di certo, non era «comunista» quel sistema sociale venuto fuori attraverso mille tragedie dalla Rivoluzione d’Ottobre: anzi, secondo Pierluigi Ciocca (22 febbraio), il «merito storico» del manifesto è proprio quello di averlo capito e denunciato per tempo e con chiarezza. E men che meno aveva a che fare con il comunismo il «keynesismo postbellico» del trentennio 1945-1975, sebbene – rileva ancora Rossanda – la critica che se ne è fatta abbia lasciato spazio solo a «spinte liberiste». E dunque, cosa siamo? E soprattutto, cosa vogliamo?
Se davvero il manifesto vuol essere un giornale capace di tener insieme riformismo propositivo e utopia concreta, sono domande che non possono essere eluse. Ha ragione Mario Tronti (26 febbraio) a suggerire che, se non ci si può più dire comunisti nei tempi brevi, non lo si può più fare nemmeno nel tempo lungo. Anche perché, se le cose stessero così come sostengono Rossanda, Ruffolo e Ciocca (e innumerevoli altri con loro), si dovrebbe far fuori non solo la testatina di questo giornale, ma la stessa testata: troppo legata a Marx, e troppo legato Marx all’idea che il comunismo non fosse «un ideale» al quale la società avrebbe dovuto conformarsi, ma «il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente».
Vale allora la pena di ricordare che la costituzione materiale dello stato borghese, ovunque vigente all’epoca in cui Marx visse e teorizzò, interdiceva ai pubblici poteri qualsiasi intromissione nell’ambito del processo produttivo: la stessa distinzione fra «politica» ed «economia» non ne era che il precipitato ideologico. Per quanto già a quei tempi gli stati si occupassero variamente della tremenda povertà in cui l’accumulazione originaria aveva gettato intere popolazioni, tuttavia essi si erano arrestati alle misure amministrative e caritative, o non ci erano nemmeno arrivati. Né ciò era da ascriversi (soltanto) a insipienza o malevolenza dei governanti: il problema era un altro, e cioè che era consustanziale alla «società politica» scaturita dalla rivoluzione borghese il non poter ammettere che ciò che non funzionava nella vita della «società civile» andasse ricercato proprio nella condizione di separatezza in cui veniva trovarsi lo stato rispetto al processo sociale di produzione, e di rintracciare piuttosto l’origine dei mali sociali in «leggi naturali» cui nessuna potenza umana poteva comandare.
Di fronte a quella situazione, già nelle sue opere giovanili Marx enuncia con chiarezza un punto dal quale non si discosterà più: la rivoluzione non può avere carattere «solo» politico, non può cioè mirare a prendere il possesso delle leve di un pubblico potere così strutturato; al contrario, dovrà sopprimere l’indifferenza della politica nei confronti delle condizioni materiali degli individui. «Imposta fortemente progressiva», «accentramento del credito nelle mani dello stato tramite una banca nazionale con capitale dello stato e monopolio esclusivo», «accentramento di tutti i mezzi di trasporto nelle mani dello stato», «aumento delle fabbriche nazionali», «miglioramento dei terreni secondo un piano collettivo», «uguale obbligo di lavoro per tutti» e «istruzione pubblica e gratuita per tutti i bambini», per limitarci solo ad alcune delle celebri misure proposte nel Manifesto comunista del 1848, servono appunto a questo.
Ma è proprio questo che si è cominciato a fare da quando, con la Rivoluzione d’Ottobre prima e l’avvento del «keynesismo» in Occidente poi, i pubblici poteri hanno preso a produrre valori d’uso e ad attribuirli ai cittadini in regime di «non-rivalità» e «non-escludibilità», per dirla con le categorie concettuali della scienza delle finanze (che non a caso da allora in poi hanno subito una torsione fortissima, fino ad approdare alle moderne trattazioni di economia pubblica). È questo che si è cominciato a fare da quando i pubblici poteri – burocrazie, partiti politici e associazioni sindacali – hanno preso a concertarsi reciprocamente per giungere a scelte che non riguardavano più soltanto la gestione delle risorse proprie del settore pubblico in senso stretto, ma altresì l’andamento generale della società, che veniva così sottratto così al moto «anarchico» tipico del modo di produzione capitalistico per diventare (almeno tendenzialmente) oggetto di consapevole scelta politica – di una politica economica. Sul finire degli anni ’60 lo dovette ammettere perfino sir Karl Popper: «che sia assolutamente assurdo identificare il sistema economico delle democrazie moderne con il sistema che Marx chiamò “capitalismo” risulta evidente al primo sguardo, confrontandolo con il suo programma in dieci punti per la rivoluzione comunista (…). La maggior parte di questi punti è stata messa in pratica, o completamente o in considerevole misura».
Non dovrebbe indurre in errore il fatto che uno sviluppo del genere abbia avuto forme diverse di realizzazione, talora essendo stato frutto di rivoluzioni «giacobine», per dirla con Gramsci, più spesso essendo stato effetto di «rivoluzioni passive», cioè di trasformazioni delle strutture economiche analoghe a quelle che, dopo il Congresso di Vienna (1815) e la Restaurazione, corsero per tutta Europa, ammodernandone le strutture economiche e sociali. Bisognerebbe piuttosto riconoscere che l’auspicio di un sistema economico in cui il denaro cessasse di essere (unicamente) la forma di esistenza del capitale e in cui l’attribuzione di certi beni e servizi venisse resa indipendente dai vincoli dell’appartenenza di classe si è ampiamente inverato nelle nostre società grazie all’azione dei pubblici poteri, che hanno affrancato un’ampia (e talvolta amplissima) categoria di valori d’uso dalla forma di merce e dunque dai vincoli della riproduzione capitalistica, cioè della valorizzazione del denaro stesso. Ed è indubbio che i comunisti (e i socialisti) siano stati parte integrante, ancorché non unica, di questo processo: basta rileggere Ceto medio e Emilia rossa di Togliatti (1946) per scorgervi la lungimirante anticipazione di ciò che l’Italia sarebbe diventata di lì a qualche decennio, soprattutto nelle sue regioni più avanzate dal punto di vista della consapevolezza politica e della vita civile – le «regioni rosse», et pour cause.
In questo senso, è assolutamente vero che, storicamente e teoricamente, il comunismo ha implicato la soppressione della proprietà privata (dei mezzi di produzione) e, per conseguenza, la pianificazione statale. Hanno però torto quanti sostengono che ciò meni di necessità al partito unico e al totalitarismo: l’esperienza occidentale insegna proprio il contrario, cioè che il «collettivismo egualitario» imposto dalla pianificazione statale può concernere amplissimi settori della vita sociale (sanità, previdenza, istruzione, trasporti, edilizia, perfino il credito) senza degenerare in partiti unici o totalitarismi o inefficienze – esemplare il caso delle socialdemocrazie scandinave.
Se si guardasse agli scritti di Marx con maggiore consapevolezza della «grande trasformazione» che il mondo in cui viviamo ha subito da novant’anni a questa parte, ci si potrebbe utilmente chiedere, piuttosto, come mai la «soppressione dello stato politico», cioè del carattere separato dei pubblici poteri, si sia storicamente accompagnata all’esistenza «viva e vitale» della politica, per dirla con le parole della Questione ebraica (1843). E proprio in quest’opera marxiana si potrebbero trovare delle penetranti risposte – filosofiche, certo, ma anche la filosofia parla della realtà, a saperci guardar dentro.
Il punto, però, qui è politico e non puramente storico-teorico. Il fatto che tramite l’azione dei pubblici poteri siamo riusciti ad affrancare la produzione di taluni beni e servizi dalla forma di merce non significa infatti in alcun modo che «c’è stata una storia e adesso non ce n’è più»: al contrario, la crisi che attraversano i nostri sistemi socioeconomici fin dagli anni ’70, e specularmente quei bisogni sociali sottesi agli slogan sui «beni comuni» o sulla «riconversione ecologica dell’economia», evidenziano che quella statuale non sarà certamente l’ultima forma di «produzione socializzata». Ma di qui a negare che il comunismo sia stato e sia «il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente» ne corre, a meno di dimenticare che per «comunismo» Marx intendeva semplicemente (ma non banalmente) un sistema sociale in cui gli esseri umani riuscissero a portare le condizioni della propria riproduzione sotto il proprio controllo, invece di essere dominati dal proprio movimento sociale come da una forza cieca.
Per tutto questo, io credo, potremmo e dovremmo continuare a dirci «comunisti»: beninteso, senza dimenticare di provare a immaginare una politica economica altra da quelle dominanti e di scriverne su un giornale (per dirla ancora con Tronti) «di popolo e di cultura». Dubito che riuscirò a convincere qualcuno dei miei illustri interlocutori o la stessa redazione di questo mio amatissimo «quotidiano comunista». Ma alla fine questo è un articolo di giornale, e servirà almeno ad incartare il pesce.