Marx e l’effetto di sdoppiamento: il colonialismo occidentale in America Latina, India e Algeria

scopertaameriche[Pubblichiamo in anteprima un breve capitolo del libro Effetto di sdoppiamento, il “paradosso di Lenin” e la politica struttura, con contributi di Giorgio Galli, Alessandro Pascale, Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli, e che verrà pubblicato a fine anno. Lo scritto in oggetto si intitola Marx e l’effetto di sdoppiamento: il colonialismo occidentale in America Latina, India e Algeria. Buona lettura. Di Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli]

È stato sicuramente l’antidogmatico Karl Marx che ha creato i primi germi della teoria dell’effetto di sdoppiamento: oltre alle bozze di lettere e alla missiva inviata alla fine dal geniale scienziato-rivoluzionario tedesco a Vera Zasulich nel 1881, si possono utilizzare in tal senso anche gli estratti effettuati sempre da Marx, verso la fine del 1879, rispetto a un libro di Maksim Kovaleskij intitolato “La proprietà comune della terra. Cause, corso e conseguenze del suo declino”.

Non a caso, infatti, il grande comunista tedesco commentò ed estrapolò parte del lavoro di Kovaleskij e principalmente le sezioni del saggio di quest’ultimo nelle quali veniva analizzata la questione centrale della proprietà della terra: Marx, focalizza la sua attenzione e loda apertamente l’opera dello storico russo specialmente riguardo all’indagine relativa a tre distinte aree geopolitiche del nostro pianeta, nelle quali si scatenò via via una durissima pluridecennale lotta socio-produttiva e politico-sociale tra gli invasori europei, alfieri della “linea nera” classista, e le comuni rurali “rosse” create e riprodotte invece per millenni dalle popolazioni autoctone, con una forte presenza al lato interno di rapporti di produzione collettivistici e cooperativi.

Come ha notato in una sua ottima (e discutibile, almeno in campo politico) biografia su Marx lo storico Marcello Musto, insospettabile di qualunque forma di simpatia per la teoria dell’effetto di sdoppiamento, Marx iniziò a sezionare lo studio di Kovaleskij sulla proprietà comune della terra partendo dall’America Latina nell’epoca delle civiltà precolombiane e riportando che, con l’inizio dell’egemonia degli imperi (classisti) azteco e inca, «la popolazione rurale continuò, come in precedenza, a possedere la terra in modo comune, ma dovette, allo stesso tempo, rinunciare a una parte del suo reddito, sotto forma di pagamenti in natura a beneficio dei loro regnanti». Secondo Kovalevskij, questo processo pose le «basi per lo sviluppo dei latifondi [realizzati] a spese degli interessi patrimoniali di coloro che possedevano la terra comune. La dissoluzione di quest’ultima venne soltanto accelerata dall’arrivo degli spagnoli». Le terribili ripercussioni del loro impero coloniale furono condannate sia da Kovalevskij, che denunciò la «originaria politica di sterminio degli spagnoli nei confronti dei pellerossa», che da Marx, il quale aggiunse di suo pugno che «in seguito al saccheggio dell’oro trovato [dagli spagnoli], gli indiani [furono] condannati a lavorare nelle miniere». A compimento di questa parte degli estratti dall’opera di Kovalevskij, Marx osservò che, ciò nonostante, vi era stata una «sopravvivenza (in larga misura) della comune rurale», resa possibile anche per la «assenza di legislazione coloniale (a differenza delle Indie orientali inglesi) relativamente a regolamentazioni che avrebbero dato ai membri dei clan la possibilità di vendere le porzioni di terreno che appartenevano a loro».

Oltre la metà degli estratti che Marx eseguì da Kovalevskij furono dedicati al dominio inglese in India. Egli rivolse particolare attenzione a quelle parti del libro nelle quali era stata ricostruita l’analisi delle forme contemporanee della proprietà comune della terra, nonché alla storia del possesso della terra al tempo dei ragià. Utilizzando il testo di Kovalevskij, Marx osservò che anche in seguito alla parcellizzazione dei terreni, introdotta dagli inglesi, la dimensione collettiva del passato restava viva: «(tra questi atomi continua[va]no a esistere alcune connessioni) che, a distanza, rievoca[va]no i precedenti gruppi di proprietà comune della terra» […].

Infine, relativamente all’Algeria, Marx non tralasciò di porre in evidenza l’importanza che la proprietà comune rivestiva in quel Paese prima dell’arrivo dei colonizzatori francesi, così come dei cambiamenti che questi avevano introdotto. Al riguardo, da Kovalevskij egli ricopiò che «la formazione della proprietà privata della terra (negli occhi del borghese francese) è una condizione necessaria per tutto il progresso nella sfera politica e sociale. L’ulteriore mantenimento della proprietà comune “come forma che supporta le tendenze comuniste nelle menti” [era] pericolosa sia per la colonia che per la patria». Da La proprietà comune della terra. Cause, corso e conseguenze del suo declino, Marx trasse anche le seguenti considerazioni:

«la distribuzione della proprietà ai clan è incoraggiata e persino ordinata; innanzitutto, come mezzo per indebolire le tribù soggiogate che, però, sono permanentemente sotto l’impulso della rivolta e, in secondo luogo, quale unico modo per un ulteriore trasferimento della proprietà fondiaria dalle mani dei nativi a quelle dei colonizzatori. Questa stessa politica è stata perseguita dai francesi sotto tutti i regimi […]. Lo scopo è sempre lo stesso: la distruzione della proprietà collettiva degli indigeni e la sua trasformazione in un oggetto di libero acquisto e vendita, il che significa renderne più semplice il passaggio finale nelle mani dei colonizzatori francesi».

Quanto al progetto di legge sulla situazione algerina, presentato al parlamento dal deputato della sinistra repubblicana Jules Wamier e approvato nel 1873, Marx riprese da Kovalevskij la denuncia che ciò avesse come unico obiettivo «l’espropriazione della terra alle popolazioni native da parte dei colonizzatori europei e degli speculatori». La spudoratezza dei francesi era giunta fino al «furto esplicito», ovvero alla trasformazione in «proprietà del governo» di tutte le terre incolte che erano rimaste in uso comune agli indigeni. Tale processo si prefiggeva di produrre un altro importante risultato: annullare il rischio di resistenza delle popolazioni locali. Sempre tramite le parole di Kovalevskij, Marx prese nota e sottolineò che:

«la fondazione della proprietà privata e l’insediamento dei colonizzatori europei tra i clan arabi […] sarebbe divent[ato] il più potente mezzo per accelerare il processo di dissoluzione dell’unione dei clan. […] L’espropriazione degli arabi voluta dalla legge [serviva]: I) a procurare più terra possibile per i francesi; e II) a strappare gli arabi dai loro vincoli naturali con la terra, così da rompere l’ultima forza dell’unione dei clan e, dunque, dissolta questa, ogni pericolo di ribellione».

Marx osservò che questo tipo di «individualizzazione della proprietà della terra» avrebbe procurato, pertanto, non solo un enorme beneficio economico agli invasori, ma avrebbe favorito anche un «obiettivo politico […]: distruggere le basi di questa società».

Dalla selezione di appunti realizzata da Marx, così come dalle poche ma inequivocabili parole di condanna verso le politiche coloniali europee che aggiunse al testo di Kovalevskij, si evince il suo rifiuto a credere che la società indiana e quella algerina fossero destinate a seguire, ineluttabilmente, il medesimo corso di sviluppo di quella europea. (estratti da M. Musto, Karl Marx, pp. 177-179, ed. Einaudi).

L’eccellente sintesi di Musto relativa alle posizioni di Marx e Kovaleskij, nella sostanza concordi sull’analisi della “lotta planetaria” scatenata dal colonialismo europeo (semifeudale, nel caso spagnolo) anche contro la proprietà comune della terra e rapporti sociali di produzione/distribuzione almeno in parte collettivistici e cooperativi, va in ogni caso integrata riportando alla luce anche la plurisecolare guerra, sanguinosa e orrenda, scatenata dal colonialismo britannico prima (fino al 1776) e dal capitalismo statunitense in seguito contro i nativi americani e i cosiddetti “pellerossa”, in uno degli esempi su scala geopolitica più vasta e di durata maggiore di quell’«opera sistematica e pianificata di distruzione e annientamento delle comunità sociali non-capitalistiche» descritta con grande forza polemica da Rosa Luxemburg nel 1913.

Un’opera sistematica pianificata di distruzione adottata dalla “linea nera” socioproduttiva e politica made in USA anche contro l’alternativa “linea rossa”, quasi sempre ben presente e a volte egemone sul piano delle relazioni di produzione riprodottesi nei diversi clan dei nativi americani del 1620 al 1887, azione sistematica che trova una delle sue armi più efficaci nella “Dawes Act” del 1887: un provvedimento di politica economica con cui la borghesia e gli apparati statali americani privatizzò gran parte delle centinaia di migliaia di chilometri quadrati di terra di proprietà comune delle tribù dei cosiddetti “pellerossa” sostituendoli con piccoli lotti privati, destinati poi ad essere acquisiti a prezzi stracciati dai coloni e dagli speculatori bianchi.

Ancora una volta, “linea nera” socioproduttiva e politica contro “linea rossa”, come rilevò del resto anche l’ultimo Marx attraverso lo studio attento del libro di Maksim Kovalevskij, molto apprezzato – a ragion veduta – dal geniale pensatore di Treviri.