Ma quanti erano i quaderni del carcere di Gramsci?

di Ruggero Giacomini

gramsci alesNon era ancora arrivato nelle librerie, che è partito il lancio sui principali quotidiani nazionali “Repubblica” e “Corriere della Sera” – seguiti poi da altri giornali – del nuovo libro del professore di filosofia del linguaggio all’Università di Palermo Franco Lo Piparo (L’enigma del quaderno. La caccia ai manoscritti dopo la morte di Gramsci, Donzelli, Roma 2012), in cui l’autore conferma e rilancia la tesi della scomparsa di uno dei quaderni del carcere di Gramsci, già espressa con non meno clamore lo scorso anno nel libro I due carceri di Gramsci. La tesi, affacciata inizialmente con qualche prudenza e poi sempre più aggressivamente è che sia stato tenuto nascosto un quaderno di Gramsci, e che a nasconderlo sarebbe stato Togliatti perché vi sarebbe stata documentata la rottura di Gramsci con il pensiero e il mondo comunista e la sua conversione al liberalismo.


Tesi non nuova questa della conversione di Gramsci, e anzi ricorrente, sia religiosa da parte di coloro che con generosità cristiana ne vogliono l’anima salita in paradiso, e sia politica. A suo tempo l’ex ministro della difesa ai tempi dell’aereo abbattuto di Ustica, Lelio Lagorio, sosteneva che Gramsci prima di morire fosse passato al partito socialista, forse presago della sua craxiana evoluzione; e assicurava che negli archivi di stato era presente una scheda-questionario da lui compilata, che dimostrava questo passaggio; e poiché tale documento che egli assicurava qualcuno avesse visto non si riusciva a trovare, suggeriva che a farlo sparire potesse essere stato, indovinate un po’? Togliatti, ovviamente. 

Ci sarebbe da approfondire perché Togliatti sia “l’uomo nero” delle campagne ideologiche anticomuniste, irrecuperabile e inconvertibile; mentre con Gramsci si cerchi già dai tempi della prima edizione delle Lettere dal carcere e della recensione di Croce, l’assimilazione da parte degli avversari (“era dei nostri” scrisse don Benedetto, prima di conoscere che cosa Gramsci avesse scritto di lui in carcere). E anche oggi la linea della contrapposizione frontale col socialismo riformista sostenuta da Alessandro Orsini (Gramsci e Turati. Le due sinistre, Rubettino, Soveria Mannelli 2012) e condivisa da Roberto Saviano, appare marginale rispetto ai più sofisticati tentativi di riconversione, che trovano alimento nel trasformismo degli intellettuali sbandati dopo la fine del Pci. Ma qual è il Gramsci ritenuto assimilabile dal pensiero dominante? Non quello giovanile, del rivoluzionario che lotta per un ordine nuovo a fianco del movimento dei consigli di fabbrica. Né tanto meno quello da dirigente del Pci nel 1921-26, di cui si è anche cancellata l’edizione critica degli scritti già in programma e annunciata presso Einaudi, privando il pubblico degli scritti politici più interessanti per conoscere Gramsci, ma anche la storia d’Italia di quegli anni: cancellazione che è avvenuta nel silenzio tombale dell’intellighenzia vetero e neo-liberale che si dice anticensoria. E neanche il Gramsci dei Quaderni, di cui stando allo stesso Lo Piparo almeno fino al ’30 è “possibile una lettura leninista”. Lo sforzo esegetico si concentra dunque sulla vicenda biografica raccontata in modo deformato e sugli ultimi quaderni, ora anche sull’ultimissimo “scomparso” di cui si può pensare tutto. 

Il clamore mediatico per la tesi missionaria di Lo Piparo, rilanciata in quest’ultimo lavoro, ha celato e mantenuto sullo sfondo quella che è invece una clamorosa ritirata e correzione rispetto a come era impostata la stessa tesi nel libro precedente. Ne I due carceri infatti Lo Piparo fondava la sua argomentazione sulla scoperta che nella numerazione dei quaderni fatta da Tania c’era un “salto” tra il numero XXXI e il numero XXXIII e dunque c’era stato un quaderno 32 che ora non c’era più (p. 82). Il fatto che comparisse un numero XXXII-IVbis era parso a Lo Piparo una chiara conferma che il buco c’era e si era tentato maldestramente di coprirlo, e accusava senza mezzi termini Gerratana di “manipolazione” (ibidem).

Successivamente sul “Corriere della Sera” del 6 giugno 2012, Lo Piparo aveva dato conto anche di una perizia grafologica commissionata a un esperto consulente di uffici giudiziari, il cui “responso”, annunciava, “è stato netto: il numero XXXIII non è attribuibile alla mano di Tania.” Come il XXXII-IV bis.

Era la classica scoperta… dell’acqua calda! Infatti era stato Gerratana, quando aveva cominciato a lavorare all’edizione critica dei Quaderni del carcere, a segnalare di aver numerato lui gli ultimi due a matita, perché Tania si era fermata al numero XXXI. Un fatto forse scientificamente discutibile, ma dichiarato pubblicamente in un convegno a Cagliari del ’67 e che risulta dagli atti dello stesso (Gramsci e la cultura contemporanea, a cura di P.Rossi, Editori Riuniti, 1969-70). Per cui ora Lo Piparo è costretto a riconoscere che sulla clamorosa scoperta del “buco” da coprire ha equivocato: “Nel libro sostenevo (e ho continuato a sostenere in interventi giornalistici) – ammette ora – che la numerazione di Tania tramandataci saltava da XXXI a XXXIII senza individuare un quaderno XXXII. Il salto non c’è” (pp. 76-7).

Nel frattempo in virtù anche di quella “scoperta”, il libro di Lo Piparo è stato insignito del premio Viareggio, collocato al livello delle Lettere dal carcere di Gramsci, il che suggerisce anche considerazioni amare sullo stato della cultura in Italia oggi. 

Scoperto l’infortunio non da poco in cui era caduto, Lo Piparo, secondo il detto classico che la migliore difesa è l’attacco, ha rilanciato, modificando trama e protagonisti. Questa volta il punto di partenza è un passo di una lettera di Tania alle sorelle del 25 maggio 1937 dove il testo letterale suona che i quaderni erano “XXX pezzi”, mentre la prima traduttrice Rossana Platone aveva reso “una trentina”. A convalida del numero “30” Lo Piparo, sostenuto anche da Canfora in interventi sul “Corsera”, adduce Togliatti, che riporta tale numero in una lettera a Manuilskij dell’11 giugno successivo. In realtà Togliatti, che i quaderni non li aveva ancora visti, aveva appreso il numero tramite la sorella Eugenia, dalla stessa lettera di Tania (e non da Sraffa come immagina Lo Piparo); e dunque la sua non è una testimonianza aggiuntiva. Resta Tania, che dicendo “XXX pezzi” chiaramente arrotondava, perché i quaderni tutti erano e sono 33. Né si può attribuire a lei di aver voluto distinguere i quaderni di testi da quelli delle traduzioni, come si vorrebbe credere, dal momento che Tania stessa nel numerarli li mescola assieme indistintamente. E’ Gerratana che li numera separatamente, assegnando agli ultimi le lettere A, B, C, D.

Su come e dove poi il “quaderno mancante” possa essere scomparso, in questo libro Lo Piparo cambia opinione rispetto a quello precedente e a Luciano Canfora. Per quest’ultimo e la tesi vecchia infatti poteva essere stato solo dopo il ritorno dei manoscritti in Italia all’indomani della guerra. Motivo il fatto che sia l’ambasciatore sovietico che li consegna, che Togliatti che li riceve, fanno il numero di “34”. Cioè uno in più dei 33 che conosciamo. Che poi Togliatti, che a quell’epoca i quaderni li conosceva bene, abbia riferito quel numero senza preoccuparsi di quaderni da nascondere dovrebbe essere indicativo che non aveva alcuna volontà di occultamento.

In realtà le fonti più sicure attestano che il numero complessivo dei quaderni di Gramsci era 32. Lo fa la moglie di Gramsci, Giulia, ricordando in una lettera a Dimitrov databile tra la fine del ’43 e gli inizi del ’44 che la famiglia aveva consegnato a suo tempo all’archivio del Comintern, prima di tutti gli altri oggetti, “le lettere e le opere di Gramsci (32 quaderni)” (cf.r. Antonio Gramsci jr, La Russia di mio nonno, pp. 84-5). Erano dunque entrati 32 quaderni all’archivio del Comintern provenienti dalla famiglia, e 32 ne escono quando il 21 febbraio 1945 “gli originali dei Quaderni del Carcere al completo (nella quantità di 32) furono dati al membro del Partito comunista italiano Rottiers” (sic). Si tratta quasi certamente del cognato di Togliatti Paolo Robotti, e ad attestare la consegna è il vicedirettore dell’Archivio di storia sociale e politica della Federazione russa V.N.Sepelev in risposta a una richiesta di Canfora, di cui dà notizia lo stesso Lo Piparo (p.93) senza trarne tuttavia le conseguenze. 

O meglio una conseguenza l’ha tratta e cioè immaginare che il quaderno sia stato sottratto prima di arrivare a Mosca alla famiglia. Deve avere avvertito anche lui che è di qui che bisogna partire, da questi 32 quaderni originali esattamente contati dalla famiglia di Gramsci al momento della consegna e certificati da una documentazione archivistica inoppugnabile. Allora il problema vero di ricostruzione storica è come i quaderni gramsciani da 32 diventino 33, e perché si dica alla consegna nel ‘45 che sono 34. La spiegazione c’è se si vuole accettarla. Il 33° quaderno gramsciano è quello scritto solo per due pagine e mezzo e considerato assieme a un altro di cui è il completamento nei contenuti. E che le cose stiano così lo dimostra anche la Relazione sui quaderni del carcere, pubblicata nell’aprile 1946 su “Rinascita” da Felice Platone, dove i quaderni vengono descritti analiticamente e sono 32; non viene cioè neanche da lui considerato separatamente quello scritto solo per due pagine e mezzo. E il 34° è quasi certamente il quaderno degli indici di Tania, identico nell’aspetto esteriore agli altri e che fin dall’inizio viaggia insieme a loro.

Lo Piparo conosce le varie fonti, la diversa autorevolezza e le discrepanze, ma gira i numeri secondo ciò che gli conviene per la propria tesi. Ne I due carceri liquida la precisa testimonianza di Giulia, addebitandola bontà sua a “un errore di memoria umanamente comprensibile” (p. 88). Ed ora la nuova tesi è appunto che il quaderno mancante sia stato “rubato” prima, che cioè non sia neppure mai arrivato in Russia. Intercettato e trattenuto dall’agente Sraffa per conto, manco a dirlo, di Togliatti. Per cui a voler seguire insieme Canfora e Lo Piparo i quaderni dovrebbero essere stati 35, di cui 2 scomparsi. Oppure un quaderno sarebbe scomparso due volte, prima dell’arrivo alla famiglia e dopo il ritorno in Italia, ricomparendo solo per il viaggio. Un vero miracolo di moltiplicazione e sottrazione di quaderni.

Nella spy-story immaginata da Lo Piparo entrano in scena in questo nuovo lavoro nuovi personaggi. Il primo è un segreto amico di Tania, presso cui lei potrebbe aver nascosto i quaderni invece di portarli all’ambasciata. Che siano stati portati da Tania all’ambasciata e da lì spediti è oggi accertato e generalmente riconosciuto (ma non da Lo Piparo). Possibile invece e anche probabile che ne sia stata fatta prima della spedizione per sicurezza una copia fotografica e che questa sia stata custodita in Italia nel caveau della banca commerciale di Mattioli, secondo la testimonianza di Nilde Jotti confermata da Sraffa e l’ipotesi che a me pare nella sostanza verosimile, formulata da Giuseppe Ricuperati negli Annali della Fondazione Luigi Einaudi XLIII-2009 (p. 8). E molto probabilmente si tratta della stessa copia data in visione a Niccolò Gallo quando attendeva all’antologia delle 2000 pagine di Gramsci e non più restituita, che trovasi oggi in un archivio privato a conoscenza di Canfora e Lo Piparo.

Un altro misterioso personaggio evocato da Lo Piparo è “l’emissario di Sraffa”, a cui Tania avrebbe consegnato i preziosi quaderni, per la più tortuosa e rischiosa spedizione che si possa immaginare, alternativa all’itinerario Roma-Mosca tramite ambasciata, ma che consentiva il controllo dei contenuti da parte di Sraffa-Togliatti immaginato da Lo Piparo e consente ora a quest’ultimo di formulare la sua tesi.

Compare inoltre ad arricchire il quadro la casa di Sraffa. Tania scrive alle sorelle il 5 luglio ’37 che ha fatto vedere a Sraffa tre quaderni “che gli avevo portato a casa”, intendendo con tutta evidenza che dall’ambasciata un po’ avventatamente li aveva portati a casa sua per farglieli vedere, insieme al suo quaderno di indici per un consiglio su come proseguire. Invece Lo Piparo traduce che Tania abbia preso i quaderni che teneva in casa sua o del suo amico segreto e li abbia portati alla casa di Sraffa, dove lui li avrebbe trattenuti senza restituirli. E questa “casa di Sraffa” deve aver tanto affascinato Lo Piparo, che la cita e sottolinea in un libro di piccolo formato di 160 pp., almeno undici volte.

Ora tutti coloro che hanno una minima familiarità con la vicenda carceraria di Gramsci sanno che Sraffa a Roma non aveva alcuna casa, e quando scendeva nella capitale prendeva alloggio solitamente all’albergo “Ambasciatori”. 

Questa è solo una delle approssimazioni informative di cui è cosparso il libro di Lo Piparo. Ad esempio chiama “processo di Milano” quello in cui Gramsci fu condannato dal tribunale speciale, tenutosi invece come è noto nella capitale. E non si tratta di una svista, perché detto ne I due carceri (p. 124), è ripetuto pari pari ne L’enigma (p. 16). 

Se nel primo libro Lo Piparo aveva molto congetturato sul salto di etichetta, sbagliando come abbiamo visto, nel secondo si diffonde su due etichette sovrapposte dalla stessa Tania su un quaderno. Si era sbagliata, forse, scrivendovi “Incompleto/ da 1 a 26/ XXXII” e perciò aveva corretto sovrapponendogli la nuova con scritto “Incompleto/ XXIX”. Spiegazione troppo semplice e dunque inaccettabile per Lo Piparo, per il quale Tania, “funzionaria” dei servizi segreti sovietici e addestrata ai messaggi in codice (in realtà era stata una semplice traduttrice all’ambasciata), non poteva che voler trasmettere in quel modo particolare un messaggio segreto. Che Lo Piparo decifra così: c’è un quaderno di 26 pagine scritte che non mi è stato restituito.

Qualcuno si è chiesto giustamente: ma non era più semplice che lo scrivesse alle sorelle o lo dicesse loro a voce una volta tornata a Mosca? Ma Lo Piparo esperto di linguaggi è affascinato dal linguaggio segreto, con cui si comunica tutto il contrario di quello che si dice. Per esempio se Tania scrive a Sraffa il 7 luglio 1937 che ha consegnato il giorno prima per la spedizione a Giulia tutti i quaderni, e sottolinea “tutti quanti”, vuol dire ci spiega Lo Piparo che non li ha potuti consegnare tutti, perché tutti non li aveva (p. 123).

A questo punto la telenovela lopiparesca ha aperte per una prossima puntata tre strade di possibili sviluppi: 

a) la love story di Tania col segreto amico romano, romanticamente promettente; b) il percorso non meno intrigante dei “tre quaderni” lasciati a “casa Sraffa”, fino al loro ricongiungersi con gli altri, salvo uno che si perde per la strada; c) lo scoop grosso, cioè la “scoperta del quaderno”. Gli originali in riproduzione anastatica sono facilmente reperibili; le pagine da realizzare sono appena 26, una sciocchezza rispetto ai Diari di Dell’Utri; il contenuto in sintesi e forma dubitativa è stato pure detto: “Conteneva giudizi sul fascismo che non era possibile rendere pubblici? Conteneva riferimenti troppo personali a Togliatti e al suo ruolo nella vicenda della famigerata lettera di Grieco? O conteneva una critica esplicita del comunismo sovietico?… Aspettiamo di leggerlo” (p. 140).

L’esistenza infine dell’“archivio privato” con le copie fotografiche dei quaderni suggerisce indirettamente che non sarebbe neanche necessario avere un originale da sottoporre a un rischioso controllo, basterebbero le fotografie. E’ un mio eccessivo mal pensare, che qualcuno possa meditare la costruzione di un quaderno e farcelo trovare? Vedremo.

(“Storia e problemi contemporanei”, n.62, gennaio 2013, pp. 115-20)

PS. Devo rettificare l’attribuzione a Rossana Platone della traduzione dal russo della lettera di Tania in cui l’espressione “XXX pezzi” a proposito dei Quaderni era resa con “una trentina”. L’avevo ripresa da un’intervista di Giuseppe Vacca a “Repubblica” del 2 febbraio scorso, poi – come ho appena appreso – rettificata solo verbalmente. Questo non cambia la sostanza del mio ragionamento, ma è doveroso il rispetto della professionalità di ognuno.

Ringrazio Nerio Naldi per aver segnalato la presenza nel mio articolo di un refuso -“accertato” invece “accettato” – e di uno scambio di persona: Togliatti e non Sraffa è il convalidante della testimonianza della Jotti. 

La testimonianza di Sraffa è infatti nel senso della conferma che i Quaderni furono inviati tramite l’ambasciata sovietica, come del resto era stata indicazione del partito comunista (Donini), e sua sollecitazione a Tania.

Il 24 maggio scorso c’è stato un intervento di Luciano Canfora sul “Corriere della Sera”, secondo cui dalla perizia svolta sui quaderni grazie al gruppo di lavoro istituito presso la Fondazione Istituto Gramsci di cui lui fa parte sarebbe emerso “al di là di ogni dubbio, che i Quaderni all’indomani della morte di Gramsci erano 34”, rilanciando dunque la tesi del quaderno mancante di Lo Piparo. 

Scrive Canfora che Tania provvide dopo la morte di Gramsci “ad apporre una etichetta su ciascun quaderno. Ma c’è un quaderno su cui manca qualunque etichetta: è il più compiuto, il più elaborato, il più significativo, quello che nel dopoguerra (1948) sarà edito per primo, La filosofia di Benedetto Croce.” Il quale quaderno, sempre secondo Canfora, non sarebbe stato “sin dal primo momento, tra quelli in possesso di Tania, per ragioni che potremo approfondire in altra sede”. 

In attesa che Canfora chiarisca le ragioni fondanti della propria convinzione, mi permetto delle brevi osservazioni:

1. Il quaderno sulla filosofia di Croce – che ha il n.III di Gramsci in copertina e il 10 attribuito da Gerratana -, non è l’unico che Tania non abbia numerato; c’è anche il IV bis, corrispondente al 18 di Gerratana.

2. Il quaderno che Tania non avrebbe avuto è analiticamente descritto da Felice Platone nel ’46, come uno dei 32 quaderni pervenuti dalla Russia: quegli stessi che la famiglia Schucht a Mosca aveva consegnato all’archivio del Comintern e dall’archivio dell’ormai ex Comintern erano tornati in Italia. E’ impossibile dunque che non sia stato nella disponibilità di Tania.

3. Che Tania senza esperienza ed emozionata abbia un po’ pasticciato nell’etichettatura dei quaderni risulta da vari elementi. Ad esempio sul quaderno a cui appose il n. VIII (6 di Gerratana) scrisse sulla copertina in alto a destra: “Completo da pg. 1 a 79”, mentre le pagine effettivamente scritte da Gramsci sono 156. Questo è un errore di cui Tania non si accorse e che non cercò di correggere.

E nel quaderno col n. XXI di Tania (29 di Gerratana) – uno dei quattro sottoposti all’esame dell’Istituto centrale per il restauro -, è emerso che sotto l’etichetta sul dorso apposta da Tania con il n. 21 in caratteri arabi, ce n’è un’altra identica di Tania… con il numero 21!

Forse è “puerile” pensare che Tania possa aver fatto confusione, ma quale sarebbe allora l’arcano, il significato riposto di questa… rinumerazione?