riceviamo con richiesta di pubblicazione
di Sergio Crescenzi
da https://lonlordinenuovo
Ad uno sguardo distratto, sembra che gli scritti de “L’Ordine Nuovo” oggi non abbiano proprio nulla da dirci. La coscienza della dimensione ad un tempo tragica ed eroica della politica, in cui veniamo catapultati leggendo gli articoli del settimanale socialista torinese, stride inevitabilmente col cinico disincanto e la mesta comicità con cui siamo soliti approcciarla oggi. Ma Gramsci e i suoi avevano tutto il diritto di sognare: nel bene e nel male, fra il paradiso della lotta per l’emancipazione e la democrazia e l’inferno di quella macelleria borghese che furono la prima guerra mondiale e la reazione fascista, vivevano in un periodo in cui con la militanza si faceva la storia, in cui con la prassi si stabilivano i fini dell’umanità, in cui il socialismo (o meglio, il comunismo) non era solamente un rabbioso grido di libertà, ma un ordine (nuovo) che stava venendo costruito dal più grande statista di tutti i tempi. Non nascondo la mia simpatia e una qualche “malinconia” per quel periodo storico, ma in un certo senso riesco a capire chi preferisce la tranquilla eutanasia del presente a una faticosa lotta per un futuro.
Eppure, nonostante appaiano così distanti, e nonostante le inevitabili problematiche dovute al contesto storico, gli scritti de L’Ordine Nuovo hanno ancora molto da dire a noi socialisti e comunisti. A mio avviso, i lasciti dell’esperienza ordinovista sono principalmente tre, fortemente legati ma analiticamente scomponibili: la questione del rinnovamento del marxismo, l’antagonismo di classe portato anche sul piano culturale, e la concezione del comunismo come una radicale democrazia dei produttori. In questo saggio mi propongo quindi, dopo un profilo storico dei più importanti collaboratori della rivista, di mostrare come le tre questioni sono trattate e perché, anche passandole al vaglio della critica, siano rilevanti oggi.
Profilo Storico dei Collaboratori
Come detto, gli ordinovisti torinesi avevano tutto il diritto di sognare. L’Ordine Nuovo infatti nasce a Torino, città-avanguardia del movimento dei lavoratori (pensiamo agli operai della FIAT o all’Alleanza Cooperativa Torinese, potenza finanziaria che godeva di grande prestigio fra le masse), in un clima di imminente cataclisma proletario dovuto alla Rivoluzione d’Ottobre (il cosiddetto Biennio Rosso). Fra le rivolte contadine nel Sud e le occupazioni operaie delle fabbriche al Nord l’ora dei padroni sembrava scoccata, e l’agonia del liberalismo italiano era solo la conferma della prossima morte del liberalismo europeo. Il PSI invece, nonostante avesse mostrato atteggiamenti contraddittori e incerti verso la Prima Guerra Mondiale, usciva rafforzato dal conflitto e tentava di cavalcare il momento propizio guidato dall’ala massimalista di Serrati.Nata sotto la guida di Tasca da un piccolo sforzo finanziario (6000 lire) e tartassata dalla censura del tollerante Stato liberale, la rivista comincia a carburare però dopo il “colpo di stato redazionale” di Gramsci, ossia dal settimo numero sulla “Democrazia Operaia” in poi. Fu così che L’Ordine Nuovo passò dall’avere “come programma l’assenza di un programma concreto” all’essere “il giornale dei Consigli di fabbrica”. Ma chi erano questi giovani intellettuali socialisti torinesi, che presto si sarebbero imposti con forza nel dibattito politico italiano?
Angelo Tasca, all’atto di fondazione della rivista, è l’uomo più noto del gruppo. Laureato in lettere e filosofia nell’ateneo torinese, è stato uno dei primi esponenti della battaglia antipositivistica contro il PSI e “culturistico-pedagogica” contro Bordiga. Fra gli ordinovisti è quello più “a destra”, in quanto crescendo all’interno della dirigenza FIOM ha sviluppato un certo culto dell’organizzazione sindacale che mal si coniuga col sorellismo di Gramsci e che porta i due a vivaci dissensi politico-culturali visibili anche all’interno della stessa rivista.
Antonio Gramsci è oggi, per ovvi motivi, molto più conosciuto di Tasca. Qui voglio solo ricordare che il giovane intellettuale sardo, a differenza degli altri tre, non è preso da obblighi di guerra e non riesce a laurearsi, perché preso da una gavetta particolarmente severa come cronista politico-culturale (e a volte anche come direttore) nella sezione locale dell’Avanti, sul Grido del Popolo e su Città Futura. Ha così modo di esperire le reali capacità rivoluzionarie del proletariato torinese e di cogliere la portata universale della Rivoluzione d’Ottobre.
Anche Palmiro Togliatti non ha bisogno di molte presentazioni. Amico fraterno di Gramsci sin dagli studi universitari iniziati nel 1911, egli più degli altri riesce a coniugare sistematicità degli studi (laureato prima in legge, poi in lettere) e lotta cultural-politica. Non è un caso infatti che al futuro segretario del PCI viene affidata la rubrica intitolata “La Battaglia delle Idee”, con il compito di fare i conti con tutti i maestri, le tradizioni, le correnti e i movimenti di cultura politica che hanno influenzato la formazione giovanile degli ordinovisti.
Umberto Terracini, il più giovane fra i quattro, si laurea in legge alla fine della guerra. Pur facendo parte del gruppo L’Ordine Nuovo, non ne sarà redattore, perché preso dalla sua attività squisitamente politica (ha iniziato a sedici anni). Gobetti ne tesserà le lodi chiamandolo “ragionatore dialettico, sottile, implacabile, fatto per la polemica e per l’azione”.
Il Rinnovamento del Marxismo
La questione del rinnovamento del marxismo si pone (o dovrebbe porsi) nei momenti di crisi filosofica e politica del movimento dei lavoratori, come un’esigenza naturale per chiunque voglia porsi il problema di cambiare il mondo usando gli strumenti di questa scienza filosofica della totalità sociale. Nel caso del gruppo di Gramsci si trattava di metabolizzare quello straordinario evento di portata universale quale era la Rivoluzione d’Ottobre per renderlo possibile anche in Europa occidentale. L’idea di una rivista rinnovatrice, che valga a “mobilitare le intelligenze e la volontà socialiste”, era comunque presente in Gramsci anche prima dell’ “atto proletario”:
“Prima che la guerra si sferrasse nel mondo col suo flagello irresistibile, con alcuni amici si era deciso di lanciare una nuova rivista di vita socialista che fosse come il focolare delle nuove energie morali, del nuovo spirito [parola censurata] ed idealista della nostra gioventù. Avrebbe dovuto essere slancio e riflessione, incitazione all’azione e al pensiero.” [1]
L’Ordine Nuovo deve quindi il suo nome sia all’intento di questa mobilitazione (la rivista si rivolge a operai, giovani, studenti e intellettuali), in cui è sottesa l’idea che solo attraverso la funzione attiva e unificatrice della coscienza il proletariato può “distinguersi, uscire dal caos, essere un elemento d’ordine, ma del proprio ordine e della propria disciplina ad un ideale. […] Ogni rivoluzione è stata preceduta da un intenso lavorio di critica, di penetrazione culturale, di permeazione di idee”, sia alla Rivoluzione russa, che è interpretata da Gramsci come l’estrinsecarsi storico dei suoi convincimenti più profondi, “l’avvento di un ordine nuovo che coincide con tutto ciò che i nostri maestri ci avevano insegnato“.
“I nostri maestri” sono ovviamente Marx ed Engels, ma se così stanno le cose il loro “insegnamento” non è minimamente conciliabile con gli schemi tipici del socialismo italiano, delle sue strutture (il PSI, con la sua rivista “Critica Sociale”, e la CGL) come in generale di tutta la Seconda Internazionale, e questo Gramsci lo sa benissimo. In un certo senso, la scissione di Livorno del 1921 era già stata compiuta a Torino nel 1919, in Via dell’Arcivescovado. Il determinismo, il positivismo ed il riformismo fanno a pugni col volontarismo, l’idealismo storicistico e la voglia di rivoluzione che pervade i giovani ordinovisti sull’esempio della “Rivoluzione contro il Capitale” (Il Capitale, beninteso, come veniva interpretato dai riformisti) di Lenin. Per uscire dalle “incrostazioni positivistiche e naturalistiche” di Marx è inevitabile fare riferimento sia alla lezione di Antonio Labriola, che per primo aveva introdotto il pensiero marxiano in Italia mettendoci in guardia dalle sue riduzioni deterministiche, sia all’idealismo, anche di Gentile ma soprattutto di Croce. Croce serve agli ordinovisti, oltre che come maestro di vita morale, come ispirazione per un approfondimento teoretico: attraverso un parallelismo Hegel-Marx, la filosofia crociana costituiva una premessa per la ripresa del marxismo da parte di quei giovani che ripudiavano il vecchio modo di intendere la democrazia, la libertà e la vita morale, col fine di ricominciare da capo. Non può essere dimenticata, infine, la grande influenza di Sorel. Chiunque abbia letto Sorel (e chi non l’ha fatto si sbrigasse, è un pensatore politico chiave del Novecento) sa quanto la sua filosofia sia perfetta per saltare le mediazioni politiche e fare a pezzi ogni bardatura gerarchica e burocratica (quindi partitica e sindacale). La feroce polemica sorelliana sia contro il partito socialista francese che lo sciopero politico serve quindi a Gramsci e ai suoi per attaccare il PSI e la CGL rivolgendosi direttamente all’operaio in quanto produttore, prima che all’operaio in quanto salariato o in quanto appartenente all’idea o al partito: c’è qui in fondo l’idea che “la rivoluzione proletaria è immanente nel seno della società industriale”[2], idea resa viva dalla combattività dell’avanguardia operaia torinese. Lo “spontaneismo” sorelliano è però sempre coniugato da Gramsci con l’esigenza proletaria di darsi forme proprie:
“Egli [Sorel] non si è chiuso in nessuna formula e oggi, conservando quanto di vitale e nuovo vi era nella sua dottrina, cioè l’affermata esigenza che il moto proletario si esprima in forme proprie, dia vita a proprie istituzioni, oggi può seguire non solo con occhio pieno di intelligenza, ma con animo pieno di comprensione il movimento realizzatore iniziato dagli operai e dai contadini russi, e può chiamare ancora compagni i socialisti italiani che vogliono seguire quell’esempio.” [3]
Cultura e Lotta di Classe
Un’altro ispiratore de L’Ordine Nuovo, per cui ho voluto fare un discorso a parte, è Anatolij Lunačarskij, animatore del movimento di Cultura proletaria (Proletkult) e futuro Commissario del popolo all’istruzione. Gramsci, animato da una lotta contro il determinismo, che equivale ad una lotta contro l’economicismo, condivide con Lunačarskij il ruolo fondamentale assegnato all’attività culturale organizzata del movimento dei lavoratori e al contributo che a esso spetta dare in questo campo per assicurare la completa egemonia della classe operaia. Riporto qui una corposa citazione di Lunačarskij che sarà decisiva per il programma cultural-politico ordinovista:
“1. È chiaro che per me non si tratta della solita istruzione, bensì di porre la quistione su così vaste basi che la parola ‘propaganda’ non è più sufficiente ad abbracciare il concetto ed è meglio parlare di auto-educazione e di auto-istruzione del proletariato
2. È altrettanto chiaro che non si tratta qui del socialismo o della cultura socialista, la quale nascerà solo dopo la vittoria sul capitalismo, bensì di foggiare una nuova indispensabile arma per la lotta del proletariato contro il capitalismo. La cultura attuale non può essere un fiore, è una spada, un’arma ideale per difendersi e schiacciare l’avversario
3. Gli sforzi non coordinati delle singole organizzazioni politiche, economiche e cooperative debbono unificarsi; in altre parole, per approfondire la coscienza socialista è necessario istituire un’organizzazione distinta e centralizzata, un separato organismo di cultura socialista, che dovrebbe possedere i suoi specifici organi: club, scuole di ogni grado, biblioteche, giornali, riviste, teatri ecc. In tutti i paesi dovrebbe esistere, oltre al comitato centrale direttivo del partito, del sindacato e delle cooperative, anche una commissione centrale socialista di cultura, e tutti insieme dovrebbero essere subordinati ai congressi generali e ad una direzione unica di un’unica organizzazione di classe
4. Se nell’Europa occidentale, e specialmente in Germania, sono già state gettate le basi per un tale lavoro, da noi invece bisogna incominciare tutto fin dalle fondamenta. D’altra parte, però, nell’Europa occidentale il lavoro può essere ostacolato dalla routine, mentre da noi il nostro movimento giovane e pieno di entusiasmo potrà fare dei miracoli!”[4]
Quindi, l’asse centrale attorno al quale si cimenta la ricerca e la battaglia ideale di Gramsci è costituito dalla proposta, rivolta a tutto lo schieramento rivoluzionario, di contribuire, parallelamente alla creazione dello Stato dei Consigli (di cui si dirà in seguito), alla formazione di un nuovo programma culturale ed educativo per la formazione dell’uomo nuovo nella nuova società di imminente avvento.
Ora, è bene tenere a mente che cultura nel giovane Gramsci ha un significato bivalente. Da una parte si può intendere come un processo di “organizzazione e disciplina del proprio io interiore, presa di possesso della propria personalità, conquista di coscienza superiore”, potenzialmente alla portata di tutti, dove l’individuo (o la classe) forma la propria interiorità specifica attraverso la negazione dialettica degli elementi fornitigli dalla tradizione con la propria elaborazione originale, attuando un atto politico liberatorio. Dall’altra va vista assieme al concetto di civiltà, ossia il modo d’essere (in un senso quasi antropologico, come modo di vivere, di sentire, di agire) di una determinata formazione economico-sociale, un disvelamento dei suoi valori (o disvalori): la cultura assume in questo caso il significato di un critica della civiltà da altri edificata (la civiltà capitalistica) da parte del soggetto antagonista. È evidente qui la continuità con la bellissima concezione della cultura di Lunačarskij (“la cultura attuale non può essere un fiore, è una spada, un’arma ideale per difendersi e schiacciare l’avversario”).
Inoltre, il concetto di civiltà collegato a quello di cultura apre ad una diversa concezione della rivoluzione. La coscienza del proprio ruolo storico rivoluzionario si ottiene non attraverso la semplice appartenenza al proletariato: perché una rivoluzione sia proletaria, non basta che essa sia compiuta dal proletariato, ma “è necessario che intervengano altri fattori, i quali sono fattori spirituali […] è necessario che il fatto rivoluzionario si dimostri oltre che un fenomeno di potenza anche un fenomeno di costume, si dimostri un fatto morale”[5]. La rivoluzione proletaria non è solo una disputa per il potere, ma una rottura storica in tutti i campi dell’esistenza umana, una trasformazione radicale anche della mentalità (processo che agisce anche al livello morale, filosofico e politico).
Per quanto riguarda invece l’ “auto-educazione e auto-istruzione del proletariato”, bisogna dire che Gramsci assegna alla cultura una funzione pedagogica in ambito di classe: l’elevazione culturale è un modo per rendere le masse autonome, “è essa stessa libertà, è essa stessa stimolo all’azione e condizione dell’azione”. Così, da un lato, l’opera di elevazione culturale permette agli operai-produttori di accedere alla coscienza del proprio ruolo storico rivoluzionario e, dall’altro, all’indipendenza dai quadri dirigenti e dagli intellettuali stessi, in modo tale da determinare l’autogoverno negli stabilimenti industriali. L’intellettuale “organico” al proletariato lavora quindi avendo di mira questi obiettivi: per raggiungerli, egli deve dimostrarsi all’altezza dello scontro di classe e di civiltà, allargando il suo raggio d’intervento critico su tutti i livelli culturali ed ideologici in cui si articola la società in cui opera, in modo tale da assicurare l’egemonia completa alla classe operaia. La questione della cultura diviene così una questione immediatamente politica ed è quindi dirimente per la vittoria della Rivoluzione in Occidente.
Il Comunismo Democratico Ordinovista
I Consigli di fabbrica sono un’istituzione di cruciale importanza per gli ordinovisti. Attraverso questi, Gramsci e i suoi riescono simultaneamente a legare a doppio filo il politico al culturale, a cavalcare la potente analogia con l’esperienza soviettista del nuovo Stato socialista, e a corrodere il socialismo italiano e l’agonizzante democrazia borghese.
All’interno di questa forma politica, “cellula storica” del movimento dei lavoratori, l’operaio raggiunge la coscienza di classe, perché si rende conto che è possibile non essere più sottoposto alla “proprietà” prodotta dalla vendita della forza-lavoro ai capitalisti, e che può auto-definirsi attraverso la propria funzione di produttore. È attraverso questa forma quindi che il lavoratore conquista la libertà. Infatti, come ogni libertà, la libertà del lavoratore non preesiste al lavoratore stesso, ma è una conquista e una creazione storica che si ottiene sottoponendosi ad un regime di auto-educazione utile a superare la semplice coscienza immediata e tradeunionistica, per giungere ad una coscienza complessa del sistema sociale, nella quale il lavoratore si conosce come “nodo fondamentale” intorno a cui questo si articola e si tiene, ed è proprio qui che sta la logica immanente di Consigli. Si capisce così perché nella concezione ordinovista-gramsciana il commissario di reparto, oltre al controllo sui meccanismi produttivi dati, deve anche stimolare i suoi compagni a studiare “i sistemi borghesi di produzione e di lavoro, suscitando le loro critiche e le loro proposte di innovazione”[6] e soprattutto che “Tutti i problemi che sono inerenti all’organizzazione dello Stato proletario, sono inerenti all’organizzazione del Consiglio. Nell’uno e nell’altro il concetto di cittadino decade, e subentra il concetto di compagno: la collaborazione per produrre bene e utilmente sviluppa la solidarietà, moltiplica i legami di affetto e di fratellanza. Ognuno è indispensabile, ognuno è al suo posto, e ognuno ha una funzione e un posto. Anche il più ignorante e il più arretrato degli operai, anche il più vanitoso e il più ‘civile’ degli ingegneri finisce col convincersi di questa verità dall’esperienza dell’organizzazione di fabbrica […]. Il Consiglio è il più idoneo organo di educazione reciproca e di sviluppo del nuovo spirito sociale che il proletariato sia riuscito ad esprimere dall’esperienza viva e feconda della comunità di lavoro”[7].
Da Lenin viene preso, oltre una certa concezione del partito-avanguardia, il pensiero secondo cui la lotta sul terreno politico è prima di tutto lotta per rompere la macchina dello Stato borghese e costruire a partire da questi istituti-ingranaggi una macchina nuova. Perciò, il processo rivoluzionario comincia dal basso, si ramifica dalle fabbriche, trasforma molecolarmente lo Stato precedente. Ma per venire a creare questo Stato partendo da quegli istituti, e collegarli poi in una gerarchia superiore armonica, è necessario in primo luogo potenziarli come fonte del potere operaio in fabbrica, nel cuore della produzione.
Ora, quando L’Ordine Nuovo comincia a porsi questo problema, studiando il problema dei Consigli e delle Commissioni interne, questi erano organismi lungamente richiesti e rivendicati dai lavoratori, ma scarsamente democratici e rappresentativi, in quanto scorrevano lungo i binari posti dai concordati sindacali (in particolare dalla FIOM) e non erano collegati alle unità produttive (avevano scarsa considerazione ed erano organizzati in maniera rudimentale). Gli ordinovisti sono i primi a porre e impostare il tema delle commissioni interne quali futuri organi del potere operaio, addirittura proponendo una specie di ricognizione del territorio per affinare le strategie politiche di intervento rivoluzionario nella situazione nazionale: i compagni e i lettori della rivista erano invitati ad aiutare gli ordinovisti “inviandoci relazioni sulle condizioni particolari nelle quali si svolge la lotta di classe nelle loro sedi di lavoro; cercando di fissare con esattezza e precisione la configurazione economica di queste sedi, la psicologia dei lavoratori e dei ceti possidenti, la distribuzione della proprietà, i sistemi di lavorazione e di distribuzione”, cioè tutti quegli elementi atti a formare i quadri proletari che dovranno gestire e guidare il processo di transizione verso l’ordine nuovo, pena il fallimento di ogni azione di cambiamento.
È innegabile che la proposta ordinovista ha avuto grande successo, all’interno dell’angusto spazio della sezione torinese, sia in termini di dibattito che in termini di consenso fra gli operai, andando a tradursi in un nuovo accordo organizzativo degli istituti di rappresentanza di fabbrica. Gli operai avevano adesso diritto ad eleggere i propri rappresentanti all’interno dell’unità produttiva (che però dovevano essere iscritti al sindacato, in compromesso con la CGL), a consultazioni rapide elettori-eletti e, in caso, alla sostituzione di questi ultimi. In particolare, gli operai avevano notato che quest’organo era già in grado, molto meglio delle precedenti istituzioni, di fare pressioni sul padronato e di difendere gli interessi di classe in tutti i campi “vertenziali”, tutto questo in quadro di profondo spirito democratico sia formale che sostanziale: “i lavoratori avvertono che la parola d’ordine della rivoluzione socialista non è solo una promessa, una chiamata a raccolta per il domani della palingenesi […] ma è un processo già iniziatosi, in grado di mutare qualcosa sul luogo di lavoro. Esso li fa sentire soggetti e non oggetti del loro destino e dà loro un senso di orgoglio”[8].
Questa forte impronta industrialista evidenzia una seconda grande influenza sulla Teoria dei Consigli, ossia quella di De Leon. Da questi infatti vengono tratte due idee principali: che la classe lavoratrice è il fattore produttivo più importante e che la struttura del movimento operaio debba rispecchiare la struttura industriale. L’Ordine Nuovo vuole perciò suscitare a raggiungere un partito qualitativamente diverso da quello socialista tradizionale, che sia radicato nelle fabbriche, che da qui esprima la sua gerarchia e la sua democrazia. Va quindi abbandonata la vecchia struttura di organismo della democrazia liberale, basato sulle sezioni territoriali e sulle assemblee. Ed è proprio il fatto che il PSI non abbia capito questo, o non abbia voluto capirlo, che irrita gli ordinovisti a tal punto da indicare proprio nel socialismo italiano il nemico principale della rivoluzione: “La rivoluzione corre il rischio di essere soffocata in Italia da due capitali nemici: dall’impotenza demagogica del massimalismo e dalla piattitudine del riformismo,la più velenosa serpe che mai sia riuscita a nascondersi nel seno del nostro Partito”[9]. C’è ormai, in Gramsci e i suoi, la volontà di puntare ad una trasformazione organica del partito, farne uno strumento di democrazia socialista, espressione vera dell’avanguardia proletaria, avanguardia costituita dal movimento dei Consigli.
La critica alla subalternità del PSI allo Stato liberale apre ad una critica dello stesso liberalismo. Ovviamente, nella critica di Gramsci è presupposto che l’ordine liberale nell’Europa del suo tempo è in agonia e che gli operai possono potenzialmente mandare avanti da sé la produzione attraverso la creazione dell’ordine nuovo. La diagnosi gramsciana di “agonia” prende le mosse dall’irrompere di grandi masse popolari sulla scena storica a seguito della Prima Guerra Mondiale, che da un lato apre a potenziali dinamiche inclusive, ma dall’altro non rende le stesse masse coscienti del loro potenziale ruolo e, poiché dopo questa irruzione non sono mutati i rapporti sociali, contrae le possibilità meccaniche di sociabilità incoraggiando formidabili tentativi di reazione. Da questa crisi di egemonia dello Stato borghese, da questa scissione Stato/società che si ripercuote sul Parlamento (istituzione chiave del liberalismo), ha origine la reazione in senso “autoritario” e “anti-operaio” delle classi dirigenti. In particolare, il “dispotismo borghese” si manifesta attraverso una subdola manipolazione, per cui lo Stato liberale cerca di legittimarsi attraverso le elezioni, contrapponendo “l’empiria del maggior numero democratico”, che si limita a rispecchiare immediatamente il dato fenomenico e quantitativo, alle avanguardie operaie, magari minoritarie ma strutturate e consapevoli. Il liberalismo tenta così di affogare la voce del proletariato cosciente nel mare delle masse disorientate, nascondendo la logica effettuale dei rapporti sociali capitalistici.
I Consigli servono perciò, in contrapposizione al Parlamento, a sovvertire la legalità borghese, perché essi hanno la capacità di eroderla dall’interno come un potere nel potere, non come un potere giustapposto: con essi viene finalmente posto l’atto produttivo al fondamento della sovranità democratica, mettendo una volta per tutte la parola fine a quella sciocca menzogna secondo cui l’organizzazione economica è qualcosa di distinto in maniera dualistica dalla sovranità e dal potere politico.
L’Ordine Nuovo Oggi: Critiche e Proposte
Pensando di fare cosa gradita, elenco brevemente i punti per cui, a parer mio, il progetto ordinovista non riuscì a “sfondare”:
• Il giornale-rivista, per ragioni di mezzi, non uscì mai dall’ambito regionale piemontese, spesso non toccando nemmeno la totale ampiezza della regione
• Non era stata messa in campo un’estesa politica di alleanze sociali (anche se era qualcosa a cui si aspirava), si era rimasti troppo piegati sull’operaismo e sulla fabbrica. Schiacciando la “forma” sulla “figura” (il lavoratore sull’operaio di fabbrica) come direbbe Fineschi, si è persa la possibilità di costruire un movimento più ampio e ci si è isolati, dato che l’Italia era un paese prevalentemente agricolo
• Inizialmente mancava il partito, e ricordando quanto detto non si può considerare il PSI come una struttura adeguata per i progetti ordinovisti
• Quando nacque il Partito Comunista d’Italia, a seguito della scissione di Livorno, questo fu minoritario e settario, influenzato principalmente dalle posizioni bordighiste
• Al progetto erano ovviamente ostili i riformisti, i sindacati e i massimalisti di Serrati, che avevano importanti strutture in tutta Italia ed esercitavano una pesante egemonia sul movimento dei lavoratori
È quasi ridicolo e lapalissiano dover affermare che i contenuti del progetto ordinovista non siano più riproponibili, per diversi motivi storico-sociali di cui il più importante è decisamente la fine del comunismo storico novecentesco. Ripeto, Gramsci e i suoi all’epoca avevano tutto il diritto di sognare, ma oggi questo diritto noi, giovani socialisti e comunisti europei, non lo abbiamo. Ci è stato portato via da una classe politica cinica, dispotica e nichilista che alla prima occasione disponibile si è riciclata come filo-americana e filo-capitalista ed ha rinnegato le proprie esperienze precedenti cercando di “avvelenare i propri pozzi teorici” (la cosiddetta sinistra post-PCI). Ciò che rimane, oltre a folli fughe in avanti post-operaistiche, a irrilevanti partitini settari che attendono agonizzanti il giorno in cui la propria riproduzione sociale sarà finita e a professori universitari marginalizzati dal dibattito pubblico anche se qualitativamente pregevoli, sono proprio i tre temi che qui abbiam trattato: il rinnovamento del marxismo, l’antagonismo al modo di produzione capitalistico portato sul piano della battaglia culturale e la concezione del socialismo/comunismo come forma di democrazia. La grande differenza è che, se ieri era necessario liberarsi del vecchio socialismo per tentare l’assalto al cielo, oggi è necessario liberarsi del vecchio socialismo per sperare in una rinascita dalla terra. Dei tre, qui mi occuperò molto schematicamente e in maniera “minimalista” del primo e del terzo, essendo io, nel mio piccolo (forse è più corretto dire piccolissimo), già impegnato in termini pratici sul secondo.
Per superare criticamente le passate elaborazioni marxiste ed aprire ad un possibile rinnovamento, Costanzo Preve è un autore formidabile. La sua produzione è costellata di argute critiche filosofico-politiche sia alle più disparate formazioni ideologiche del movimento dei lavoratori (stalinisti, maoisti, bordighisti, trotskyisti, anarchici post-moderni) che ai grandi marxisti critici (Gramsci, Lukács, Bloch, Althusser). Ma Preve non si limita a questo: egli cerca di integrare il pensiero marxista con le punte più alte del pensiero filosofico (penso ad Aristotele, Spinoza, Fichte ed Hegel) e di collocarlo all’interno di una specifica tradizione filosofica (l’idealismo tedesco) e politica (il comunitarismo). Dei suoi testi consiglio in particolare la Storia Critica del Marxismo, l’Ideologia Italiana e il suo ultimo capolavoro, la Storia Alternativa della Filosofia.
Per rileggere la critica dell’economia politica di Marx liberandola da manipolazioni politiche e secche teoriche, è fondamentame il filone della Neue Marx Lektüre, sviluppatosi attorno alla nuova edizione critica delle opere complete di Marx ed Engels (MEGA2). Gli autori sono tanti, ma noi italiani abbiamo la grande fortuna di avere Roberto Fineschi e Marcello Musto, oltre a Riccardo Bellofiore e Giovanni Sgrò. Dei primi due consiglio l’intera produzione (nomino qualche testo chiave: Ripartire da Marx, Marx ed Hegel, Un Nuovo Marx del primo; Karl Marx. Biografia Intellettuale e Politica, L’Ultimo Marx e Ripensare Marx e i Marxismi del secondo) che distrugge tanti luoghi comuni limitanti attraverso la critica e la ricostruzione filologica (penso all’immagine di Marx come teorico del valore-lavoro o come anti-hegeliano), liberando tutta la potenza di una pensatore che ha ancora molto da dire sull’oggi. Dei secondi invece, fra le loro sterminate produzioni saggistiche, voglio consigliare in particolare il recente Le Avventure della Socializzazione, in cui Bellofiore ripercorre criticamente, con la sua mostruosa conoscenza della scienza economica, le tesi della NML, per proporre una sua critica dell’economia politica e fondare un’economia politica critica, e Natura, Storia e Linguaggio, in cui Sgro’ indaga i tre nuclei tematici in Marx dal punto di vista della NML. Uno dei miei obiettivi è quello di rileggere i testi chiave del marxismo alla luce di questa nuova, fondamentale interpretazione.
Mi permetto anche di segnalare, oltre all’opera ormai divenuta classica di Antonio Gramsci, due testi per gettare le basi di una ricostruzione della teoria del materialismo storico, tassello fondamentale della scienza filosofica della totalità sociale: si tratta di Karl Marx’s Theory of History. A Defence di Gerald Allan Cohen e di Per la Ricostruzione del Materialismo Storico di Jürgen Habermas. Inoltre a mio parere, la stessa opera di Karl Polanyi, seppur con dei limiti, può essere considerata un tentativo di fondare una scienza analoga alla teoria del materialismo storico.
Per ultimo, la questione del comunismo come forma di democrazia. Anche se solleva diverse problematiche, pensare il comunismo come una forma di democrazia comunitaria e radicale implica il riconoscimento della questione del modo di produzione non come di un semplice “sistema economico”, ma come di una totalità sociale in cui è compreso anche il politico, o più precisamente di una totalità sociale la cui politicità è generata dai rapporti sociali che intercorrono nelle strutture in cui è organizzata la vita degli individui. Banalmente, oltre ad avere un alto livello di plausibilità, questa posizione può mettere in difficoltà i propri oppositori, in quanto a volte li costringe a sostenere scomode posizioni reazionarie ed élitarie. Mi limito qui a segnalare tre autori.
Il primo di questi è Robert Dahl, scienziato politico americano che ha dedicato praticamente tutta la sua carriera accademica a studiare la democrazia, compresa la democrazia economica. Segnalo tre suoi libri: A Preface to Economic Democracy, Democracy and its Critics e Polyarchy.
È però il ricco filone cooperativista ad essersi occupato del socialismo come sistema in cui la sovranità democratica è tutt’uno con la produzione. In particolare, segnalo i lavori di Bruno JossaL’Impresa Democratica e Un Socialismo Possibile. Egli ha il pregio di unire nella sua riflessione concetti fondamentali come comunità, democrazia, socialismo e autogestione.
Infine, non posso non citare i bellissimi testi Ontologia dell’Essere Sociale e La Democrazia della Vita Quotidiana, ultimi progetti di György Lukács scritti in aperto scontro con lo stalinismo e i suoi eredi. Qui il significato di democrazia si riempie di un significato completamente nuovo, direi esistenziale: la democrazia è la “concreta forza ordinativa politica di quella particolare formazione economica sul cui terreno essa nasce, opera, diviene problematica e scompare”.
Note
[1] La Città Futura, Torino Operaia, Raccolta Scritti 1915-1921
[2] L’Ordine Nuovo (Gramsci A.), Il Partito Comunista, 4 Settembre 1920
[3] Cronache de L’Ordine Nuovo, 11 Ottobre 1919
[4] Lunačarskij A. V., La Cultura nel Movimento Socialista, ne Il Grido del Popolo, 1 Giugno 1918
[5] Gramsci A., Il Grido del Popolo, 29 Aprile 1917
[6] L’Ordine Nuovo (Gramsci A.), Il Programma dei Commissari di Reparto, 8 Novembre 1919
[7] L’Ordine Nuovo (Gramsci A.), Sindacato e Consigli, 11 Ottobre 1919
[8] Spriano P., L’Ordine Nuovo e i Consigli di Fabbrica, Einaudi, 1971
[9] L’Ordine Nuovo (Leonetti A.), Avremo la Rivoluzione?, 21 Agosto 1920
Bibliografia
Appongo qui una bibliografia per i più curiosi. Per ragioni di interesse e di spazio, non ho trattato diversi temi che però sono rilevanti per comprendere il contesto storico e il progetto ordinovista (oltre ad una ricostruzione più dettagliata del “disordine” del tempo, penso alle influenze più “letterarie”, come Péguy, Rolland e Barbusse, al dialogo con gli anarchici, la polemica con Bordiga, il rapporto con altre importanti riviste dell’epoca come la Critica Sociale, La Voce, Umanità Nova, L’Unità di Salvemini ecc.) che potete però ritrovare nei libri indicati.
Angelino C., Gramsci al Tempo de L’Ordine Nuovo (1919-1920), Editori Riuniti, 2014
Burgio A., Gramsci. Il Sistema in Movimento, DeriveApprodi, 2014
Spriano P., L’Ordine Nuovo e i Consigli di Fabbrica, Einaudi, 1971
Spriano P., L’Occupazione delle Fabbriche, Einaudi, 1972
Williams G., The Proletarian Order, Pluto Press, 1975