di Gianni Fresu
da gramscicagliari.it
Riceviamo dal compagno Gianni Fresu un suo contributo, che volentieri pubblichiamo
Nel dibattito politico della sinistra di classe, essenzialmente nell’ambito dell’eurocomunismo, per molto tempo, si è discusso dell’esigenza di affermare il “valore universale della democrazia”, dunque di conciliare questo principio con i valori di uguaglianza e giustizia sostanziale propri del socialismo. E’ un discorso ineccepibile, che nasce dalle contraddizioni della nostra storia novecentesca ma che, purtroppo, a guardare la realtà concreta, rischia di apparire maledettamente astratto. Nella retorica democratica del mondo occidentale un punto su cui sempre si insiste è il primato della volontà popolare espressa nel voto, dunque il rispetto dei governi legittimamente eletti. Andando però a vedere bene cosa significa storicamente tutto ciò bisognerebbe aggiungere: “sempre che questa volontà e i governi da essa espressi stiano nel campo dei nostri valori” (primato delle leggi di mercato e tutela dell’ordine sociale nei termini classici di questo modo di produzione). La strategia della tensione da noi, il Cile di Allende, ma anche più recentemente la Bolivia, il Brasile e soprattutto il Venezuela ci dimostrano come il risultato del voto interessi ben poco i grandi santoni del mondo politico e intellettuale liberale, sovente, pronti a utilizzare qualsiasi mezzo, compresa la scorciatoia autoritaria dei colpi di Stato, per tutelare i propri interessi minacciati.
Per tutte queste ragioni, è lecito credere nel valore assoluto della democrazia, ma solo in un contesto nel quale una o più classi non si trovino in una condizione di abissale vantaggio in termini di risorse economico-materiali di cui disporre nella competizione politica, sia per costruire il proprio universo ideale e rappresentativo, sia per, molto più prosaicamente, corrompere il mondo intellettuale e comprare chi è costretto dal bisogno. Insomma, possiamo fare affidamento sul valore universale della democrazia solo in un contesto nel quale il privilegio e la differenza economico sociale non siano di ostacolo all’effettivo esercizio dell’uguaglianza formale.
Proseguendo la discussione, e nella speranza di non apparire blasfemo: Berlinguer ha il merito di aver posto nel movimento comunista con forza e profondità il tema del rapporto tra uguaglianza e libertà, dunque tra socialismo e democrazia, cogliendo una contraddizione reale del “socialismo storico”. Con altrettanta forza è il caso, credo, di occuparci delle contraddizioni che, fino ad oggi, hanno impedito (in qualsiasi latitudine del pianeta) una qualsivoglia transizione pacifica e democratica non solo al socialismo o comunque a diversi rapporti sociali di produzione, ma a forme più avanzate di democrazia sociale. Senza andare al Cile di Allende, pensiamo solo al significato programmatico della nostra Costituzione e a tutti gli strumenti – leciti e illeciti – utilizzati per disattenderlo. Con questo non sto mettendo in discussione il valore del processo di democratizzazione, in sé indispensabile al socialismo, semplicemente richiamo l’attenzione su un problema storico concreto. Negli anni Settanta si scriveva “i tempi sono maturi per discutere serenamente delle contraddizioni che hanno limitato e minato le esperienze reali di socialismo”. Oggi, in un contesto dominato dal progressivo svuotamento di ogni contenuto sociale della democrazia, penso siano i maturi anche i tempi per discutere serenamente dei limiti e delle contraddizioni che hanno limitato e minato le esperienze storiche di socialdemocrazia, impedendo una completa emancipazione dell’uomo e del lavoro dal dominio del capitale. Libertà e uguaglianza non sono ossimori e non debbono essere contrapposti, anzi, i due termini si integrano e completano a vicenda. Il problema è la traduzione concreta, in termini positivi, della loro dialettica storica, tenendo sempre bene in mente che tra gli strumenti di governo più sofisticati ed efficaci a disposizione della borghesia resta comunque “la falsa coscienza”, ossia, la rappresentazione mistificata della realtà, attraverso la quale i suoi interessi particolari finiscono per assumere una (apparente) natura generale. Analizzando i paradigmi di storia etico-politica presenti nella Storia dell’Europa nel secolo XIX di Benedetto Croce, Gramsci localizzò un uso politico delle categorie come «strumento di governo» assai significativo. Il limite maggiore della rappresentazione compiuta da Croce dell’età liberale, risiederebbe nel mantenere due livelli nettamente distinti (uno per gli intellettuali, uno per le grandi masse popolari) di ciò che si intende per religione, filosofia, libertà. «La libertà come identità di storia e di spirito e la libertà come religione superstizione, come ideologia circostanziata, come strumento pratico di governo». La presupposta eticità dello Stato liberale si scontra cioè con la sua poca propensione espansiva-inclusiva. Non abbiamo necessita di richiamare concetti e categorie relativi agli apparati privati dell’egemonia nella società civile per spiegare cosa intendiamo.