[Quello che segue è il capitolo 15.3 di A. Pascale, Il totalitarismo liberale. Le tecniche imperialiste per l’egemonia culturale, La Città del Sole, Napoli 2018, pp. 434-438]
Nel 2013 l’economista francese Thomas Piketty ha pubblicato Il Capitale nel XXI secolo [1], giudicato dal New York Times «il libro più importante dell’anno, e forse del decennio. Un’opera superba, che cambierà il modo in cui pensiamo la società».
Non sembra per ora che ciò sia avvenuto, per il semplice fatto che i libri da soli non cambiano le cose, se non accompagnati da un adeguato livello di organizzazione politica.
Se anche ciò fosse avvenuto, l’opera di Piketty, ricchissima di dati, ha il difetto di non tenere in debito conto il peso delle condizioni politiche, astraendo gli aspetti economici dal contesto e identificando alcune leggi come “naturali” e non come determinazioni del modo di produzione e dei rapporti di produzione.
Siamo di fronte insomma ad una classica opera economicista di stampo “idealista”, che affronta la storia degli ultimi secoli scomponendola per nazioni o aree continentali, evitando invece di analizzare indici e statistiche suddivisi per sistema economico.
L’autore d’altronde confessa apertamente la propria appartenenza ideologica borghese: «sono vaccinato a vita contro i discorsi anticapitalistici convenzionali e triti […]. Non m’interessa denunciare le disuguaglianze o il capitalismo in quanto tali, tanto più che le disuguaglianze sociali non costituiscono un problema in sé, purché siano giustificate» [2].
Ciononostante Piketty è costretto a riconoscere alcuni aspetti che spiegano l’impatto del socialismo reale sul mondo. Si parte dal seguente presupposto:
«nessuna diminuzione strutturale delle disuguaglianze si produce prima della prima guerra mondiale. Tra il 1870 e il 1914 si assiste semmai a una stabilizzazione delle disuguaglianze, e a un livello alquanto elevato; anzi, per certi versi, a una perpetuazione della spirale senza fine della disuguaglianza con, in particolare, una concentrazione sempre più massiccia dei patrimoni» [3].
Che cosa succede poi? Esplodono quelli che l’Autore chiama i «traumi» del «primo XX secolo» (1914-45):
«prima guerra mondiale, Rivoluzione Bolscevica del 1917, crisi del 1929, seconda guerra mondiale, nuove politiche di regolamentazione, tassazione e controllo pubblico del capitale a seguito dei rivolgimenti citati hanno registrato come conseguenza, negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, un calo dei livelli storici raggiunti dal capitale privato. Il processo di ricostituzione dei patrimoni si rimette tuttavia in moto molto in fretta, per poi accelerare con la rivoluzione conservatrice anglosassone del 1979-80, il crollo del blocco sovietico del 1989-90, la globalizzazione finanziaria e la deregulation del decennio 1990-2000, eventi che segnano una svolta politica di segno contrario rispetto alla svolta precedente, e che permettono ai capitali privati di toccare dal 2010 in poi, nonostante la crisi del 2007-8, soglie di prosperità patrimoniale mai più raggiunte dopo il 1913» [4].
Abbastanza eloquente la constatazione che la riduzione delle disuguaglianze e il peso dei capitali privati sia stata duramente attaccata su scala globale proprio a seguito dell’Ottobre Rosso. Andiamo avanti nella disanima: «il peso economico dell’Europa ha raggiunto lo zenit alla vigilia della prima guerra mondiale (circa il 50% del PIL mondiale), per poi declinare costantemente nelle epoche successive, mentre quello dell’America ha raggiunto il vertice negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento (circa il 40% del PIL mondiale)» [5].
Sono esattamente i periodi di maggiore potenza dei rispettivi imperi coloniali o neocoloniali. Tutto ciò però non viene colto da Piketty, che astrae la questione. Si constata solo che «l’Africa subsahariana, con 900 milioni di abitanti e un PIL di soli 1800 miliardi di euro (meno del PIL francese: 2000 miliardi), è la zona economica più povera del mondo, con 2000 euro di PIL pro capite» [6].
Nessuna analisi sulle ragioni storiche e politiche di questo sottosviluppo, dovuto a secoli di sistematico saccheggio che prosegue tuttora. Eppure l’autore ha tutti i dati che gli servono per giungere a questa soluzione:
«L’unica soluzione di squilibrio continentale davvero rilevante riguarda l’Africa, la quale è, strutturalmente, proprietà degli altri continenti. In concreto, secondo le bilance dei pagamenti a livello mondiale stabilite ogni anno, dal 1970 in poi, dalle Nazioni Unite e dagli altri organismi internazionali (Banca mondiale, FMI), il reddito nazionale di cui dispongono gli abitanti del continente africano è sistematicamente inferiore di circa il 5% alla loro produzione interna (il divario, in certi paesi, supera il 10%)».
Ciò si traduce nel fatto che «circa il 20% del capitale africano è oggi nelle mani di proprietari stranieri». In nota a pié di pagina Piketty segnala anche che «il dato medio del 5% per il continente africano appare relativamente stabile sull’insieme del periodo 1970-2012. È interessante notare che il flusso d’uscita dei redditi da capitale è circa tre volte superiore al flusso d’entrata degli aiuti internazionali» [7].
Questi sono gli aridi numeri del saccheggio imperialista, attuato dalle multinazionali che operano grazie a governi compiacenti stabiliti con la forza delle armi o con il ricatto dalle principali potenze imperialiste. Ciò è avvenuto nonostante la dura lotta portata avanti nella regione da Cuba e dall’URSS, che hanno profuso enormi somme finanziarie per sostenere l’emancipazione africana. L’obiettivo dell’imperialismo nei riguardi del continente si può prevedere che sia allora il ritorno alla situazione del 1913, quando le potenze europee possedevano «tra un terzo e la metà del capitale nazionale asiatico e africano, e più di tre quarti del capitale industriale» [8].
Tra le falsità enunciate da Piketty c’è anche questa seguente affermazione:
«nessuno dei Paesi asiatici che hanno in qualche misura agganciato i Paesi più sviluppati, ieri il Giappone o la Corea o Taiwan, oggi la Cina, ha beneficiato di massicci investimenti stranieri. In sostanza questi Paesi si sono finanziati da soli […]. Al contrario, i Paesi posseduti da altri, come nel caso dell’epoca coloniale o dell’Africa di oggi, sono stati più penalizzati, in particolare da competenze ben poco sviluppate e da un’instabilità politica cronica» [9].
Nella prima parte di questo discorso si omette di ricordare il supporto finanziario statunitense a Giappone, Corea e Taiwan in funzione anticomunista, ma anche l’apertura fatta dalla Cina al mercato proprio al fine di attirare sempre più ampi capitali esteri, necessari per lo sviluppo delle forze produttive. Nella seconda parte, sull’Africa, si omette semplicemente il ruolo destabilizzatore giocato dall’imperialismo.
Il che non deve sorprendere troppo.
Non si pretende qui di svolgere una critica completa dell’impostazione data da Piketty. Quanto riportato dimostra inequivocabilmente il ruolo svolto dal socialismo reale nel corso del ‘900 per diminuire le disuguaglianze su scala mondiale e favorire un processo di sviluppo che potesse portare ad eliminare il flagello della fame.
Un processo ostacolato da quelle stesse potenze imperialiste che oggi discutono sull’impossibilità di accogliere migranti e si domandano ipocritamente cosa fare per risolvere il “problema” e fermare “l’invasione”.
Fortunatamente il ruolo progressivo svolto dai Paesi socialisti nella riduzione delle diseguaglianze su scala globale prosegue tuttora grazie alla Cina, che con il proprio sviluppo riesce a far tendere verso il rialzo il peso economico dell’Asia nel suo complesso, come constatato da un’ottimista Piketty che deduce da questo aspetto una naturale tendenza alla riduzione delle disuguaglianze su scala mondiale.
NOTE
[1] T. Piketty, Il Capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano 2014.
[2] Ivi, p. 57.
[3] Ivi, pp. 21-22.
[4] Ivi, pp. 71-72.
[5] Ivi, pp. 102-103.
[6] Ivi, p. 105.
[7] Ivi, p. 112.
[8] Ivi, p. 113.
[9] Ivi, p. 115.