LENIN E LA TRANSIZIONE DAL CAPITALISMO AL SOCIALISMO

a 100 anni dalla morte di Lenin riteniamo utile pubblicare la relazione di Andrea Catone tenuta in occasione del Convegno Lenin e il Novecento, Urbino, 13-15 gennaio 1994. Atti a cura di Riggero Giacomini e Domenico Losurdo, pubblicati da La Città del Sole, Napoli, 1997, pp. 175-215.

di Andrea Catone

1. Il concetto di transizione

Il termine transizione diventa equivoco e inutilizzabile per l’analisi scientifica quando lo si assuma nel suo significato letterale di ‘stato di passaggio’, forma astratta del divenire, momento relativo di un assoluto processo di trasformazione del reale. In questo senso tutto appare come transizione: qualsiasi società o regime sociale, dovrebbe essere definita di transizione, poiché segna il passaggio da una forma di società all’altra o da una precedente a una successiva formazione economico–sociale. […] Se si vuol dare al termine ‘transizione’ un significato che non sia indeterminato, non si può parlare concretamente di ‘problemi della transizione’ che in relazione a regimi e a periodi storici di trapasso da un modo determinato di produzione, riferibile a un’organica formazione sociale, a un altro modo di produzione proprio di una nuova formazione sociale (Gerratana, 320).

Lenin, com’è noto, non dedica nessun lavoro specifico ad una teoria della transizione dal capitalismo al socialismo. Tuttavia, il problema della transizione è costantemente presente al suo orizzonte, almeno a partire dal momento in cui si fa concreta la possibilità della rivoluzione socialista.

Al di là delle svolte strategiche (l’ultima in ordine di tempo e forse la più travagliata è quella della NEP), rimangono alcune costanti nella sua concezione della transizione.

Essa è caratterizzata da un’“infinita varietà di forme” (Lo sviluppo del capitalismo in Russia, Lenin, III, 181), da una combinazione di sistemi economici opposti, dalla coesistenza conflittuale di modi di produzione diversi in una medesima formazione economico–sociale: “Che cosa significa dunque la parola transizione?”, si chiede Lenin nel ‘18. “Non significa, quando la si applichi all’economia, che in quella determinata società vi sono elementi, particelle, frammenti e di capitalismo e di socialismo?”. Nella Russia post–rivoluzionaria Lenin distingue ben 5 diversi tipi economico–sociali: patriarcale, piccola produzione mercantile, capitalismo privato, capitalismo di Stato, socialismo (Sull’infantilismo di sinistra e sullo spirito piccolo borghese, Lenin XXVII, 304–305). Nella transizione non si ha affatto a che fare con una combinazione armonica, un blocco coeso di modi di produzione diversi. “Si trattava di forme sociali le più diverse, unite nel tutto di una peculiare forma concreta di società, in cui il trapasso dal capitalismo al comunismo iniziava in presenza di simultanee forme precapitalistiche” (Gerratana, 324). Il periodo di transizione è caratterizzato da una “realtà a mosaico” (Lenin, XXIX, 150–51).

Teoricamente è fuori di dubbio che tra il capitalismo e il comunismo vi è un determinato periodo di transizione. Esso non può non racchiudere in sé i tratti o le particolarità di ambedue queste forme di economia sociale. Questo periodo di transizione non può non essere un periodo di lotta tra il capitalismo agonizzante e il comunismo nascente, o in altre parole,: tra il capitalismo vinto ma non distrutto, e il comunismo che è nato ma è ancora debolissimo. Non soltanto per un marxista, ma per ogni persona che conosca più o meno la teoria dell’evoluzione, deve essere ovvia la necessità di un’intera epoca storica che si distingua per i tratti propri dei periodi di transizione” (Economia e politica nell’epoca della dittatura del proletariato, Lenin, XXX, 88).

L’altro punto fermo di Lenin sulla transizione è che essa abbraccia un’intera lunga epoca, caratterizzata dal conflitto tra capitalismo e socialismo. Ed è significativo che Lenin sostenga questo non solo dopo la svolta della NEP, ma anche nel periodo del “comunismo di guerra”, quando gran parte del partito bolscevico sembrava convinto di un rapido passaggio al modo di produzione comunista. La transizione è un “periodo di lotta tra il capitalismo agonizzante e il comunismo nascente […] tra il capitalismo vinto ma non distrutto, e il comunismo che è nato ma è ancora debolissimo. Non soltanto per un marxista, ma per ogni persona colta che conosca più o meno la teoria dell’evoluzione, deve essere ovvia la necessità di un’intera epoca storica che si distingua per i tratti propri dei periodi di transizione”. Ma i vari Longuet, MacDonald, Kautsky, Adler “non vogliono a nessun costo riconoscere la necessità di un intero periodo storico di transizione dal capitalismo al comunismo, oppure considerano loro compito escogitare dei piani per conciliare le due forze in lotta, invece di dirigere la lotta di una di queste due forze” (Lenin, XXX, 88–89). Nelle Note alla “Economia del periodo di transizione” di N. Bucharin, Lenin approva con decisione (“molto giusto!) l’affermazione secondo cui “il socialismo bisogna costruirlo. Le risorse materiali e personali presenti sono soltanto il punto di partenza di uno sviluppo che comprende in sé un’intera lunghissima epoca” (CM, 287).

Ma quali sono i tratti peculiari della transizione socialista, e come può essa essere realizzata? Che ruolo gioca l’organizzazione politica del proletariato in questi processi? Vedremo come nel corso dei processi sociali reali si affini e si complichi la concezione leniniana della transizione.

2. Prima dell’Ottobre: Stato e rivoluzione

In Stato e rivoluzione (agosto–settembre 1917), è dedicato esplicitamente un paragrafo (il secondo del capitolo quinto) alla transizione dal capitalismo al comunismo. Prima della Critica del programma di Gotha, scrive Lenin, la questione veniva posta da Marx nei termini seguenti:

per ottenere la sua emancipazione il proletariato deve rovesciare la borghesia, conquistare il potere politico, stabilire la sua dittatura rivoluzionaria. Ora la questione si sviluppa in modo un po’ diverso: il passaggio dalla società capitalistica che si sviluppa in direzione del comunismo, alla società comunista è impossibile senza un ‘periodo politico di transizione’, e lo Stato di questo periodo non può esser altro che la dittatura rivoluzionaria del proletariato (OS 917, sottolineatura mia, AC).

Il problema della transizione qui è affrontato solo dal punto di vista politico: la dittatura del proletariato deve garantire che la trasformazione rivoluzionaria della società capitalistica in quella socialista non subisca i colpi di coda delle vecchie classi sfruttatrici; si dà per scontata la trasformazione economico– sociale. Ciò che in questo momento preme soprattutto a Lenin è chiarire la questione della democrazia e della dittatura del proletariato: “democrazia per l’immensa maggioranza del popolo e repressione con la forza, vale a dire esclusione dalla democrazia, per gli sfruttatori, gli oppressori del popolo: tale è la trasformazione che subisce la democrazia nella transizione dal capitalismo al comunismo” (OS 919–20).

Vi è tuttavia un’indicazione molto precisa e interessante sulla prima fase della transizione (sulla quale Lenin ritornerà all’indomani della presa del potere da parte dei bolscevichi ne I compiti immediati del potere sovietico): quella del controllo di massa sulla produzione e la distribuzione, sull’attività dei funzionari addetti a ciò: “Se tutti gli uomini partecipano realmente alla gestione dello Stato il capitalismo non può più mantenersi”. Il capitalismo crea le premesse economiche perché si possa realizzare tale partecipazione: istruzione generale, educazione e abitudine alla disciplina di milioni di operai.

Con tali premesse economiche, è perfettamente possibile, dopo aver rovesciato i capitalisti e i funzionari, sostituirli immediatamente dall’oggi al domani, – per il controllo della produzione e della distribuzione, per la registrazione del lavoro e dei prodotti, – con gli operai armati […] Registrazione e controllo: ecco l’essenziale, ciò che è necessario per l’’avviamento’ e il funzionamento regolare della società comunista nella sua prima fase. Tutti i cittadini si trasformano qui in impiegati salariati dello Stato, costituito dagli operai armati. Tutti i cittadini diventano gli impiegati e gli operai di un solo ‘cartello’ di tutto il popolo, dello Stato. […] Quando la maggioranza del popolo procederà ovunque essa stessa a questa registrazione e a questo controllo dei capitalisti (trasformati allora in impiegati) e dei signori intellettuali che avranno conservato ancora delle abitudini capitaliste, questo controllo diventerà veramente universale, generale, nazionale […]. L’intera società sarà un grande ufficio e una grande fabbrica con uguaglianza di lavoro e uguaglianza di salario. Ma questa disciplina di ‘fabbrica’ che il proletariato, vinti i capitalisti e rovesciati gli sfruttatori, estenderà a tutta la società, non è affatto il nostro ideale né la nostra meta finale: essa è soltanto la tappa necessaria per ripulire radicalmente la società dalle brutture e dalle ignominie dello sfruttamento capitalistico e assicurare l’ulteriore marcia in avanti. Dal momento in cui tutti i membri della società, o almeno l’immensa maggioranza di essi, hanno appreso a gestire essi stessi lo Stato, si sono messi essi stessi all’opera, hanno ‘organizzato’ il loro controllo sull’infima minoranza dei capitalisti, sui signori desiderosi di conservare le loro abitudini capitaliste e sugli operai profondamente corrotti dal capitalismo, – da quel momento la necessità di qualsiasi amministrazione comincia a scomparire […]. Quando tutti avranno imparato ad amministrare ed amministreranno realmente essi stessi la produzione sociale, quando tutti procederanno essi stessi alla registrazione e al controllo dei parassiti […] ogni tentativo di sfuggire a questa registrazione e a questo controllo esercitato da tutto il popolo diventerà una cosa talmente difficile […] che la necessità di osservare le regole semplici e fondamentali di ogni società umana diventerà ben presto un costume (OS 929–931).

Come si può facilmente osservare, Lenin qui appare eccessivamente fiducioso nella possibilità che le masse, istruite ed educate dal capitalismo, possano agevolmente, sin dalla presa del potere politico, esercitare il controllo sulla produzione e la distribuzione su vasta scala, a livello di un intero Stato (senza voler mettere nel conto anche le ineludibili relazioni economiche internazionali, il rapporto col mercato mondiale). Si manifesta qui una visione piuttosto semplificata della transizione. Tuttavia, Lenin sta qui prefigurando una transizione al socialismo da società capitalisticamente sviluppate (che hanno educato le masse alla disciplina di fabbrica, hanno fornito l’istruzione, ecc.). Una transizione in cui l’apparato tecnico–produttivo del capitalismo ha raggiunto un livello elevato e si è conservato, sì che si tratta, come prima misura, di passare all’inventario (registrazione) e controllo su di esso.

Un’altra cosa va qui sottolineata: non si fa alcun cenno alla “costruzione del socialismo”, la transizione non è ancora una costruzione (come, nel periodo del comunismo di guerra, sarà esplicitamente teorizzato da Bucharin – e sostenuto da Lenin – con l’Economia del periodo di transizione). Qui non si postula la costruzione di una nuova base tecnico–materiale, ma si propone di utilizzare sotto il controllo delle masse quella preesistente. Va osservato ancora che la dittatura del proletariato come potere degli operai in armi non svolge funzioni di coercizione extraeconomica, come sarà concepito nel periodo del comunismo di guerra, ma consente ‘semplicemente’ di sostituire ai funzionari del capitale i funzionari del proletariato.

Infine, in Stato e rivoluzione, non si accenna in alcun modo alla questione della transizione in un paese capitalisticamente arretrato o semiarretrato. Il problema della specificità della transizione russa si affaccerà drammaticamente dopo l’Ottobre. Vedremo che Lenin, in polemica coi comunisti di sinistra e sotto l’incalzare dell’emergenza economica, sottolineerà più volte tale specificità, richiedendo per essa una strategia adeguata. Quest’attenzione alla specifica situazione concreta costituirà un punto fermo nell’elaborazione di Lenin, anche se talora egli è portato, in polemica con gli “pseudosocialisti” della II Internazionale, a definire “non essenziali” le particolarità della situazione russa (si veda ad esempio Economia e politica nell’epoca della dittatura del proletariato, scritto per il secondo anniversario della rivoluzione d’Ottobre: “La dittatura del proletariato in Russia, in confronto ai paesi avanzati, deve inevitabilmente distinguersi per certe sue particolarità, in conseguenza del carattere molto arretrato e piccolo borghese del nostro paese. Ma le forze fondamentali – e le forme fondamentali dell’economia sociale – sono in Russia le stesse che in qualsiasi altro paese capitalistico, cosicché queste particolarità possono riferirsi soltanto a ciò che non è essenziale”, XXX, 89).

3. Il problema della transizione al socialismo in un paese arretrato: la questione russa

La questione della transizione russa è affrontata sotto l’incalzare dell’emergenza nel maggio 1918 (Sull’infantilismo di sinistra e sullo spirito piccolo–borghese). Qui Lenin si riferisce esplicitamente alla questione russa, alla presenza al suo interno di forme economiche differenziate e teorizza la necessità che il socialismo si allei con il capitalismo di Stato contro le forme di piccola produzione mercantile e di capitalismo privato:

Non c’è stato ancora nessuno, a quanto pare, che, interrogato sull’economia della Russia, abbia negato il carattere transitorio di questa economia. Nessun comunista ha neppure negato, a quanto pare, che l’espressione ‘repubblica socialista sovietica’ significa che il potere dei soviet è deciso a realizzare il passaggio al socialismo, ma non significa affatto che riconosca come socialisti i nuovi ordinamenti economici. Ma che cosa significa dunque la parola transizione? Non significa, quando la si applichi all’economia, che in quel determinato regime vi sono elementi, particelle, frammenti e di capitalismo e di socialismo? […] Enumeriamo questi elementi:

1) l’economia patriarcale, cioè in larga misura naturale, contadina;

2) la piccola produzione mercantile (che comprende la maggioranza dei contadini che vendono il grano);

3) il capitalismo privato;

4) il capitalismo di Stato;

5) il socialismo.

La Russia è così grande e così varia che tutti questi differenti tipi economico–sociali vi si intrecciano strettamente. E proprio in ciò sta il carattere originale della nostra situazione [evidenziazione mia, AC]. Ma, ci si domanda, quali sono gli elementi che predominano? È chiaro che in un paese di piccoli contadini predomina e non può non predominare, l’elemento piccolo borghese; la maggioranza, anzi l’enorme maggioranza degli agricoltori sono piccoli produttori mercantili. L’involucro del capitalismo di Stato (monopolio del grano, imprenditori e commercianti controllati, cooperative borghesi) viene spezzato qua e là dagli speculatori, e l’oggetto principale della speculazione è il grano. La lotta principale si svolge appunto in questo settore. […] Non è il capitalismo di Stato che lotta qui con il socialismo, ma la piccola borghesia più il capitalismo privato che lottano insieme, come una cosa sola, sia contro il capitalismo di Stato, sia contro il socialismo. La piccola borghesia si oppone a qualsiasi intervento, inventario e controllo statale, sia dello Stato capitalistico, sia dello Stato socialista” (Lenin, XXVII, 304–305).

Questo scritto è uno dei più lucidi ed espliciti sulla strategia della transizione in Russia, ed è tra i più interessanti, perché comincia a fare i conti con il problema della ‘socializzazione socialista’ effettiva dei mezzi di produzione, problema che sarà tanto a lungo dibattuto tra i critici di sinistra della costruzione del socialismo in URSS. Proprio nella polemica con i comunisti di sinistra, che invocavano “la socializzazione più decisa”, Lenin distingue chiaramente nazionalizzazione e socializzazione:

Si può essere decisi o indecisi sulla nazionalizzazione e sulla confisca. Ma nessuna ‘decisione’, anche la maggiore al mondo, può essere sufficiente ad assicurare il passaggio dalla nazionalizzazione e dalla confisca alla socializzazione: questo è il punto. […] La disavventura dei ‘sinistri’ è appunto che essi non hanno capito la vera essenza della ‘situazione attuale’, del passaggio dalla confisca (per la quale un uomo politico deve dar prova soprattuto di decisione) alla socializzazione (per l’attuazione della quale si richiedono al rivoluzionario altre qualità). Ieri il nodo della situazione era nazionalizzare, confiscare, battere e annientare la borghesia, spezzare il sabotaggio con la maggiore decisione possibile. Oggi solo i ciechi non vedono che abbiamo nazionalizzato, confiscato, battuto e spezzato più di quello che abbiamo fatto in tempo a calcolare. Ma la socializzazione si distingue dalla semplice confisca proprio perché la confisca si può attuare con la sola ‘decisione’, senza saper giustamente calcolare e giustamente distribuire, mentre socializzare senza saperlo fare non si può” (Lenin, XXVII, 303).

Rispetto alla prospettiva generale di Stato e rivoluzione, secondo la quale sarebbe stato relativamente semplice realizzare un controllo di massa sull’economia, sui funzionari ex–capitalisti addetti alla produzione e alla distribuzione (anche perché si ipotizzava la transizione in un paese capitalisticamente avanzato; e, comunque, non è affatto detto che anche in quella situazione le cose sarebbero poi così facili), qui Lenin deve fare drammaticamente i conti – come aveva espresso nel modo più netto un mese prima ne I compiti immediati del potere sovietico – con l’arretratezza della cultura tecnica, economica, produttiva, delle masse russe: “Ma i sabotatori li abbiamo ‘spezzati’ a sufficienza. A noi manca tutta un’altra cosa: noi non sappiamo calcolare dove bisogna mettere questo o quel sabotatore, non sappiamo organizzare le nostre forze per il controllo esercitato, ad esempio da un dirigente o un controllore bolscevico su un centinaio di sabotatori che vengono a lavorare da noi” (ivi).

Senza l’acquisizione da parte dell’avanguardia del proletariato e delle masse di questa capacità di “calcolare” e “controllare”, “amministrare”, sarà vacuo ogni discorso sulla socializzazione effettiva. È questa anche la differenza fondamentale tra rivoluzione borghese e rivoluzione proletaria:

Nelle rivoluzioni borghesi il compito principale delle masse lavoratrici consisteva nello svolgere l’azione negativa, o distruttiva, di spazzar via il feudalesimo, la monarchia, il medioevo. L’azione positiva, o creativa, di organizzare la nuova società era svolta dalla minoranza possidente, borghese, della popolazione. E questa svolgeva tale compito, nonostante la resistenza degli operai e dei contadini, con relativa facilità, non solo perché la resistenza delle masse sfruttate dal capitale era allora estremamente debole, data la loro dispersione e arretratezza, ma anche perché la forza organizzativa fondamentale della società capitalistica, costruita anarchicamente, è il mercato nazionale e internazionale, che si sviluppa spontaneamente in estensione e in profondità. Al contrario, in ogni rivoluzione socialista – e di conseguenza anche nella rivoluzione socialista da noi iniziata in Russia il 25 ottobre 1917 – il compito principale del proletariato e dei contadini poveri da esso diretti è il lavoro positivo o creativo per fondare un sistema estremamente complesso e delicato di nuovi rapporti organizzativi, che abbracciano la produzione e la distribuzione pianificate dei prodotti necessari alla esistenza di decine di milioni di uomini. Questa rivoluzione può essere realizzata con successo solo se la maggioranza della popolazione, e innanzitutto la maggioranza dei lavoratori, è capace di un’attività storicamente creativa e autonoma [evidenziazione mia, AC]. Solo nel caso in cui il proletariato e i contadini poveri sappiano trovare in sé coscienza, forza ideale. abnegazione e tenacia, la vittoria della rivoluzione socialista sarà garantita. Creando un nuovo tipo di Stato, lo Stato dei soviet, che offre alle masse lavoratrici e oppresse la possibilità di partecipare nel modo più attivo alla edificazione autonoma della nuova società, noi abbiamo adempiuto soltanto una piccola parte di un difficile compito. La difficoltà principale è nel settore economico: compiere dappertutto il più severo inventario e controllo della produzione e della distribuzione dei prodotti, elevare la produttività del lavoro, socializzare di fatto la produzione. […] E tutta l’originalità del momento attuale, tutta la sua difficoltà sta nel comprendere la particolarità del passaggio dal periodo in cui il compito principale era quello di convincere il popolo e di schiacciare militarmente gli sfruttatori, al periodo in cui il compito principale è quello di amministrare” (I compiti immediati del potere sovietico, Lenin, XXVII, 214–216).

Imparare ad amministrare, imparare a fare l’inventario e ad esercitare il controllo: nella primavera del ‘18 Lenin insiste ripetutamente su questo tasto. È in questo contesto che va letta anche la sua proposta – che tante polemiche doveva suscitare tra i comunisti di sinistra, e non solo tra essi – di favorire il rafforzamento del capitalismo di Stato nella Russia sovietica. Rispetto ad un’economia patriarcale e piccolo borghese, il capitalismo di Stato rappresenta un enorme passo avanti, non solo e non tanto perché è una forma capitalistica superiore, quanto perché, secondo Lenin, superando la dispersione della piccola economia contadina e della piccola produzione di merci, costituisce il terreno più adatto nel quale il proletariato al potere può apprendere a fare l’inventario, ad esercitare il controllo, ad amministrare. “La classe operaia, una volta che abbia imparato a difendere l’ordine statale contro l’anarchismo piccolo–proprietario, una volta appreso a impostare la grande organizzazione della produzione su scala statale, sulle basi del capitalismo di Stato, avrà allora – perdonatemi l’espressione – tutte le carte in mano, e il consolidamento del socialismo sarà assicurato. Il capitalismo di Stato è, dal punto di vista economico, incomparabilmente superiore alla nostra economia attuale; […] in esso non v’è nulla di temibile per il potere sovietico, poiché lo Stato sovietico è uno Stato nel quale è assicurato il potere degli operai e dei contadini poveri” (Lenin, XXVII, 308).

Senza questo apprendimento, senza questo tirocinio delle masse non si potrà passare dalla nazionalizzazione delle imprese alla “socializzazione di fatto”, come dice Lenin. Uno degli aspetti più complessi della transizione viene dunque individuato da Lenin nella trasformazione del proletariato, per secoli classe dominata, in classe dominante: dominante come classe non significa semplicemente avere le leve del potere statale, ma essere in grado di organizzare e dirigere l’attività economica del paese. Col solo potere politico, a colpi di decreti, si possono espropriare le classi sfruttatrici, si può confiscare e nazionalizzare (e sono i primi provvedimenti rivoluzionari che attua il governo sovietico), ma per socializzare effettivamente (cioè, perché la gestione dell’economia sia nelle mani del proletariato) è del tutto insufficiente la sola decisione politica.

Nella primavera del ‘18 Lenin è dunque consapevole che il periodo di transizione non si riduce all’attuazione di una serie di misure politiche ed economiche da parte dello Stato dei soviet: la questione più delicata è quella del soggetto proletario della trasformazione, della sua capacità di organizzare, dirigere, amministrare l’economia1. È in questo contesto che va letta anche l’insistenza leniniana per l’aumento della produttività del lavoro, per l’organizzazione scientifica del lavoro (cui sono dedicate diverse pagine de I compiti immediati, XXVII, 229–232): la riduzione del tempo di lavoro necessario è il presupposto materiale perché la partecipazione diffusa delle masse alla vita politica dello Stato dei soviet non sia un’astratta parola.

Non è affatto un caso che una parte fondamentale del saggio sull’infantilismo sia ampiamente citata dallo stesso Lenin nello scritto che spiega la svolta della NEP, Sull’imposta in natura (maggio 1921). Ma tra l’estate del ‘18 e l’autunno del ‘20 anche Lenin ha condiviso (e lo ammette autocriticamente) l’illusione di un passaggio rapido a forme di produzione e distribuzione comuniste.

In questo periodo si pensa infatti ad una rapida soppressione dei rapporti mercantil–monetari. Si veda ad esempo il progetto di programma del partito comunista russo del marzo 1919:

Nel campo della distribuzione, l’obiettivo del potere sovietico è attualmente di continuare con fermezza a sostituire il commercio con una distribuzione dei prodotti pianificata e organizzata su scala statale. La meta è di organizzare tutta la popolazione in comuni di produzione e di consumo, capaci di distribuire tutti i prodotti necessari nel modo più rapido, sistematico, economico e con il minimo dispendio di lavoro, centralizzando rigidamente tutto l’apparato di distribuzione. Le cooperative sono un mezzo intermedio per raggiungere tale scopo. La loro utilizzazione è un compito analogo a quello degli specialisti borghesi, dato che alla testa dell’apparato cooperativo che abbiamo ereditato dal capitalismo si trovano uomini con abitudini di pensiero e metodi borghesi di gestione economica […] È impossibile abolire subito il denaro nei primi tempi del passaggio dal capitalismo al comunismo. Di conseguenza, gli elementi borghesi della popolazione continuano ad utilizzare la carta–moneta, che resta proprietà privata, che attesta il diritto degli sfruttatori di procurarsi i beni sociali e di continuare a utilizzarlo a scopi di speculazione, di lucro e di rapina per i lavoratori. Per lottare contro queste sopravvivenze di rapina borghese la sola nazionalizzazione delle banche non basta. Il PCR si sforzerà di prendere al più presto possibile i provvedimenti più radicali per preparare l’abolizione del denaro [evidenziazione mia, AC], e in primo luogo la sua sostituzione con libretti di risparmio, assegni, buoni a breve scadenza per diversi prodotti sociali, ecc., l’obbligo di depositare il denaro nelle banche, ecc. (Lenin, XXIX, 100–101).

Tuttavia, qualche mese dopo, nel discorso al I Congresso per l’istruzione extrascolastica (6–19 maggio 1919, in XXIX, 326) Lenin avverte che il denaro, forma di rapporti sociali antagonistici, sarebbe rimasto abbastanza a lungo nel periodo di transizione dalla vecchia società capitalistica alla nuova società socialista.

Può apparire singolare che nel secondo anniversario della rivoluzione bolscevica Lenin escluda esplicitamente che la specificità dell’arretratezza russa possa svolgere un ruolo essenziale; ma, come si può vedere dall’esame del testo, questo è piuttosto un motivo polemico nei confronti delle critiche che i dirigenti della II Internazionale rivolgevano alla possibilità di una rivoluzione socialista in un paese arretrato quale era la Russia – e invocavano quindi la specificità russa contrapponendola al restante mondo capitalistico. Nell’autunno del ‘19, nello scritto che fa il punto su due anni di rivoluzione (Economia e politica nell’epoca della dittatura del proletariato, del 30 ottobre), pur riconoscendo la particolarità del carattere molto arretrato e piccolo borghese della Russia, Lenin sostiene che forze e forme fondamentali dell’economia sono le stesse che in qualsiasi altro paese capitalistico, “cosicché queste particolarità possono riferirsi soltanto a ciò che non è essenziale”. Le forme sono: capitalismo, piccola produzione mercantile, comunismo. Le forze: borghesia, piccola borghesia, proletariato. La lotta è tra “il lavoro organizzato in modo comunista ai suoi primi passi, nell’ambito di un immenso Stato”, “contro la piccola produzione mercantile e contro il capitalismo che si è conservato e rinasce sulla base della piccola produzione mercantile” (Lenin, XXX, 89). Lenin afferma che in Russia il lavoro è organizzato in modo comunista, poiché è stata abolita la proprietà privata sui mezzi di produzione e il “potere statale proletario organizza su scala nazionale la grande produzione sulla terra dello Stato e nelle imprese statali, ripartisce la manodopera tra i diversi rami dell’economia e tra le imprese, distribuisce tra i lavoratori una grande quantità di generi di consumo appartenenti allo Stato”. Tutto ciò è ancora allo stadio iniziale. Sono state statizzate le grandi aziende ed espropriati senza indennizzo i proprietari fondiari. Nelle campagne è appena cominciata l’organizzazione di diverse forme di cooperative di piccoli agricoltori come transizione dalla piccola agricoltura mercantile a quella comunista. E la piccola azienda contadina è una base formidabile per il capitalismo (ivi, 90). Ed ecco che ritornano gli inviti di Lenin alla cautela nei rapporti coi contadini, contro inopportune forzature di tempi, contro l’illusione di una transizione rapida.

Il socialismo è la soppressione delle classi. Per abolire le classi è necessario innanzi tutto abbattere i grandi proprietari fondiari e i capitalisti. Questa parte del compito l’abbiamo adempiuta, ma essa è soltanto una parte e non la più difficile. Per abolire le classi è necessario, in secondo luogo, distruggere la differenza che esiste tra l’operaio e il contadino, fare di tutti dei lavoratori. Ed è impossibile farlo di punto in bianco. Questo problema è molto più complesso e, per forza di cose, la sua soluzione richiede un lungo periodo di tempo. È impossibile risolverlo abbattendo una classe. Esso può essere risolto soltanto riorganizzando tutta l’economia sociale, mediante il passaggio dalla piccola economia mercantile, individuale, isolata, alla grande economia sociale. Tale passaggio si compie necessariamente con lentezza. Decretare provvedimenti amministrativi affrettati e incauti non servirebbe che a rendere più lento e più difficile questo passaggio [evidenziazione mia, AC]. […] Il proletariato […] deve separare, fare una netta distinzione fra il contadino lavoratore e il contadino mercante, tra il contadino lavoratore e il contadino speculatore. Tutta la sostanza del socialismo sta in questa distinzione” (ivi, 93–4).

Anche nel periodo del “comunismo di guerra”, Lenin insiste sulla lunghezza del cammino da percorrere, sulla complessità della transizione. Come scrive ne La grande iniziativa: “Ci troviamo in uno stadio in cui ‘si compiono soltanto i primi passi verso la transizione dal capitalismo al comunismo’ (come dice, in modo assolutamente giusto, il programma del partito)” (Lenin, XXIX, 390). Ed è proprio contro le illusioni di facili scorciatoie che Lenin mette in guardia in questo scritto: l’abolizione della differenza tra città e campagna, tra lavoratori manuali e intellettuali è un’opera di lungo respiro.

Per compierla occorre un enorme progresso nello sviluppo delle forze produttive, occorre vincere la resistenza (spesso passiva e particolarmente tenace e difficile a vincere) dei numerosi residui della piccola produzione; occorre vincere la forza immensa dell’abitudine e dell’inerzia, connessa con quei residui. La pretesa che tutti i lavoratori sarebbero in egual misura capaci di compiere quest’opera, sarebbe una frase vuota o l’illusione di un socialista antidiluviano, premarxista, perché questa capacità non è spontanea, ma si sviluppa storicamente, e si sviluppa soltanto dalle condizioni materiali della grande produzione capitalistica. […] Soltanto lo studio concreto dei rapporti particolari tra la classe che ha conquistato il potere politico, cioè il proletariato, e tutta la massa non proletaria e semiproletaria della popolazione lavoratrice, può dare la giusta soluzione di questo problema. Inoltre questi rapporti non si formano in un ambiente immaginario e armonico, ‘ideale’, ma nell’atmosfera reale della resistenza forsennata e multiforme della borghesia” (ivi, 385–6).

Lenin è pienamente consapevole che

nel campo economico non si può vincere come nel campo militare. Non si può vincere il libero commercio con l’entusiasmo e con l’abnegazione. Occorre un lavoro lungo, bisogna conquistare il terreno a palmo a palmo, occorrono le forze organizzatrici del proletariato. […] Nella misura in cui abbiamo risolto e risolveremo con successo il primo e il più semplice dei compiti, la repressione degli sfruttatori che cercano apertamente di rovesciare il potere sovietico, si presenta il secondo problema, più complesso: organizzare le forze del proletariato, imparare a essere buoni organizzatori. Occorre organizzare il lavoro in modo nuovo, creare nuove forme di partecipazione al lavoro e di sottomissione alla disciplina del lavoro. Persino il capitalismo ha impiegato decenni per risolvere questo problema (Discorso al III congresso dei sindacati, 8 aprile 1920, XXX, 459).

4. 1920 Lenin e Bucharin: due concezioni della transizione a confronto

L’economia del periodo di transizione è l’ultima opera scritta da N. Bucharin come teorico del comunismo di sinistra. Il libro è pubblicato nel maggio 1920, concepito come la parte teorica di uno studio in due volumi del “processo di trasformazione della società capitalistica in società comunista” (il secondo volume, progettato come opera concreta descrittiva sull’economia russa contemporanea, non apparve mai)2. Bucharin tenta una risistemazione teorica di tutta la questione della trasformazione dell’economia e della società dopo lo sfacelo della grande guerra imperialistica: pur ‘fotografando’ per molti aspetti la situazione russa del comunismo di guerra, il libro si rivolge ad esaminare la questione della transizione in tutti i paesi capitalistici e semicapitalistici del mondo contemporaneo. Il testo di Bucharin, suddiviso in 11 capitoli, prende le mosse dall’analisi della struttura del capitalismo mondiale per giungere al processo della rivoluzione mondiale e al sistema mondiale del comunismo. Le note di Lenin ci consentono di rilevare consensi e dissensi sulle analisi e le proposte formulate da Bucharin.

Lenin annota questo libro qualche giorno dopo la sua pubblicazione per farne una recensione per l’Accademia comunista3. Queste annotazioni sono preziose, poiché ci consentono – in mancanza di un’opera organica di Lenin sulla transizione – di ricavare quale fosse il punto di vista leniniano a pochi mesi dalla svolta della NEP, che segnerà un profondo mutamento di prospettiva.

Sulla strutturazione del capitalismo contemporaneo Lenin obietta a Bucharin che non in tutto il mondo sono già dominanti rapporti di produzione capitalistici (CM 274). E mentre per Bucharin la struttura del capitalismo contemporaneo è tale che agiscono come soggetti della economia le organizzazioni collettivo–capitalistiche, i “trust del capitalismo di Stato”, per Lenin non ci si può limitare soltanto a queste ultime. La divergenza più profonda si manifesta sul ruolo svolto dal capitale finanziario: Lenin obietta a Bucharin che esso non ha distrutto l’anarchia della produzione all’interno dei grandi paesi capitalistici. Bucharin gioca molto sulla contrapposizione anarchia/organizzazione all’interno di uno schema teorico di matrice bogdanoviana (la Tettologia, o scienza dell’organizzazione), che fa della questione organizzazione il fattore principale dello sviluppo sociale. Egli pensa in termini di ‘capitalismo organizzato’, di superamento da parte del capitalismo della sua irrazionalità: “l’economia capitalistica da sistema irrazionale si è trasformata in organizzazione razionale” (CM 275).

Ma ciò che soprattutto va notato nel libro di Bucharin, poiché ne condiziona tutta la successiva impostazione della transizione, è il convincimento che la grande guerra imperialistica e l’immediato dopoguerra abbiano segnato la fase finale del capitalismo, il crollo del sistema capitalistico (è il titolo del 3° capitolo, e Lenin non obietta nulla), oramai incapace di sviluppare le forze produttive nel vecchio involucro: “L’urto tra le diverse parti del sistema capitalistico mondiale che esprimeva il conflitto tra l’aumento delle forze produttive di questo sistema e la sua struttura produttiva anarchica, era […] un conflitto di trust del capitalismo di Stato. L’esigenza obiettiva che la storia ha posto all’ordine del giorno è l’esigenza di organizzare un’economia mondiale, cioè di trasformare un sistema economico mondiale asoggettuale in soggetto economico, in organizzazione operante in modo pianificato, in ‘una unità teleologica’, in un sistema organizzato” (CM 280). Lo schema interpretativo di Bucharin non cambia: si tratta di passare da processi spontanei e impersonali a processi diretti secondo un fine e secondo un piano, dal disordine all’organizzazione.

Lenin non contesta l’idea del crollo del capitalismo, condivisa allora da gran parte del movimento comunista internazionale, ma si mostra molto più cauto: interviene con le sue annotazioni per mitigare l’eccessiva sicurezza che nutre Bucharin circa la disgregazione dell’economia europea: “La situazione concreta nell’economia dell’Europa degli anni 1918–1920 mostra chiaramente che questo periodo di disgregazione è cominciato e che non vi è nessun sintomo di rinascita del vecchio sistema di rapporti di produzione”. “Chi prova troppo non prova niente”, commenta Lenin (CM 282). E quando Bucharin conclude che “non è possibile restaurare il vecchio sistema capitalistico”, Lenin annota, di rimando: “questo dipende dalla misura in cui il proletariato ‘sulla base dei rapporti in dissoluzione’ […] sa fare in modo che essi si dissolvano completamente” (CM 284). In seguito contesta a Bucharin l’idea che si possa dimostrare teoricamente l’impossibilità della restaurazione di rapporti di produzione capitalistici (CM 287). Condivide però con lui l’idea che “la forza straordinaria del conflitto è un indice abbastanza preciso del grado di sviluppo capitalistico e la tragica espressione dell’assoluta incompatibilità dell’ulteriore sviluppo delle forze produttive sotto l’involucro dei rapporti di produzione capitalistici” (CM 287).

Il nucleo centrale della teoria della transizione di Bucharin, derivantegli dall’idea del crollo del capitalismo (e dalla ‘fotografia’ della situazione russa ed europea dell’immediato dopoguerra), è che tale crollo, e la rivoluzione proletaria che lo accompagna, portano inevitabilmente ad un’ulteriore riduzione delle forze produttive: poiché “le forze produttive esistono confuse con i rapporti di produzione in un determinato sistema di organizzazione sociale del lavoro”, la dissoluzione dell’apparato deve essere inevitabilmente accompagnata da un’ulteriore riduzione delle forze produttive. Perciò, “sulla base dei vecchi rapporti in dissoluzione non è possibile nessuna rinascita dell’industria come sognano gli utopisti del capitalismo. L’unica via d’uscita è che gli anelli più bassi del sistema, la forza produttiva fondamentale della società capitalistica, la classe operaia, assuma una posizione dominante nell’organizzazione del lavoro sociale”. In altre parole “la costruzione del comunismo è il presupposto della rinascita della società”. “Il pensiero centrale dell’intero libro – scrive Bucharin nel ‘21 – è che, durante il periodo di transizione, l’apparato lavorativo della società si disintegra inevitabilmente, che la riorganizzazione presuppone la disorganizzazione e che perciò il crollo temporaneo delle forze produttive è una legge implicita della rivoluzione” (Cohen, 97).

La transizione dal capitalismo morente al comunismo diventa in tal modo essenzialmente un’azione di costruzione di nuovi rapporti economico–sociali insieme con la costruzione–ricostruzione delle forze produttive tecnico–materiali. Il concetto di costruzione (che finirà con l’essere prevalente nella concezione del comunismo sovietico) implica un piano–progetto consapevole, la direzione per l’esecuzione del piano, con la conseguente organizzazione di materiali, risorse, uomini: è, in un certo senso, un’operazione di ingegneria sociale. Non implica invece necessariamente le classi, la lotta di classe, le contraddizioni antagonistiche o non antagonistiche che siano. Implica l’esistenza di un modello teleologicamente preordinato.

Quest’idea è molto lontana da quella concezione della transizione dal capitalismo al comunismo cui Marx aveva accennato in alcuni suoi passi (in particolare del III libro del Capitale), secondo la quale il passaggio al comunismo non implicava come momento necessario la caduta verticale del livello di sviluppo delle forze produttive (da cui l’ipotesi secondinternazionalista che richiedeva la maturità di sviluppo delle forze produttive per il passaggio al socialismo). Anzi, la caduta della base tecnico–materiale avrebbe portato ad una generalizzazione della miseria. Come scrive Cohen, “Bucharin rifiutò l’assunto marxista tradizionale che il socialismo raggiunga quasi la piena maturità in grembo al vecchio ordine” (Cohen 98): mentre “il capitalismo si è costruito da sé”, “il socialismo, come sistema organizzato viene edificato dal proletariato in quanto soggetto collettivo organizzato. Se il processo di origine del capitalismo fu spontaneo, il processo di edificazione del comunismo è in alta misura un processo consapevole, cioè organizzato” (Bucharin, 68).

Bucharin pone dunque in primo piano la distruzione e il crollo delle forze produttive. Esso significa: a) vera e propria distruzione della base tecnico–produttiva, delle macchine, ecc. (non inevitabile e non necessaria); b) dissoluzione dei nessi socio–economici che garantivano il funzionamento del sistema. Sono questi ultimi la spina dorsale del sistema e Bucharin è convinto che non siano più ripristinabili: solo una nuova organizzazione consapevole potrà rimettere in moto la produzione, solo nessi non mercantili e non capitalistici. Nello schema di Bucharin la guerra interimperialistica è anche l’autodistruzione del capitalismo (incapace di organizzarsi come sistema mondiale) ed il presupposto indispensabile per la transizione–costruzione. Come nota Cohen, ciò consente a Bucharin di aggirare la questione dell’arretratezza russa (Cohen, 98).

Ancora più interessante si fa il discorso sui “presupposti generali dell’edificazione comunista” (cap. IV). Bucharin sostiene, riprendendo l’idea di Stato e rivoluzione, che non è possibile traslare il vecchio apparato su nuovi binari (Bucharin 59). “La conquista del potere statale da parte del proletariato è la distruzione del sistema statale borghese e l’organizzazione di un nuovo sistema statale, nel quale gli elementi del vecchio che è andato in rovina, in parte vengono distrutti, in parte vengono assunti in nuove combinazioni, in un nesso di tipo nuovo” (CM 282). D’altra parte, come aveva già osservato Marx nella Critica al programma di Gotha, “la nuova società non può emergere improvvisamente come un deus ex machina. I suoi elementi crescono nel seno della vecchia società […] La questione deve essere posta in questo modo: quale tipo di rapporti di produzione della società capitalista può essere in generale alla base della nuova struttura produttiva?” (Bucharin, 60). A tale questione Bucharin risponde che non è sufficiente riferirsi al solo livello di centralizzazione e concentrazione del capitale, poichè nel processo rivoluzionario si dissolve l’apparato centralizzato e non può servire in toto come fondamento della nuova società. Bucharin vede la piena maturazione dei rapporti di produzione comunisti nell’ambito della società capitalistica nel sistema di cooperazione che è incorporato nei rapporti di produzione degli operai, che unisce insieme gli uomini atomizzati in una classe rivoluzionaria, nel proletariato (Bucharin, 63): se il capitalismo è maturo per il capitalismo di Stato, lo è anche per il comunismo (Bucharin, 64). La maturità del capitalismo per Bucharin non è tanto nell’apparato tecnico–materiale, ma nel grado di socializzazione del lavoro. Insomma, “nella dissoluzione dei ceti sociali tecnico–produttivi si conserva in generale l’unità del proletariato, che incarna anzi e soprattutto la base materiale della nuova società. Questo elemento decisivo e fondamentale solo a volte si disgrega nel corso della rivoluzione. D’altra parte esso si fa straordinariamente compatto, si rieduca e si organizza”. La rivoluzione russa, “col suo proletariato relativamente debole che non di meno si è rivelato una riserva veramente inesauribile di energia organizzativa” è “la prova empirica” di ciò: “la probabilità matematica del socialismo in tali condizioni si trasforma in attendibilità pratica” (CM 286). Sulla base dell’esperienza della rivoluzione russa, Bucharin presuppone il proletariato come soggetto notevolmente coeso e virtuoso, la vera grande forza produttiva capace di ricostruire il legame sociale, di rigenerare la società.

Si deve tuttavia rinunciare interamente – continua Bucharin – al pensiero che la condizione inevitabile del mantenimento e dello sviluppo del nuovo sistema, cioè il progresso delle forze produttive […] comincerà egualmente a realizzarsi all’inizio del capovolgimento. Il socialismo bisogna costruirlo. Le risorse materiali e personali presenti sono soltanto il punto di partenza di uno sviluppo che comprende in sé una intera lunghissima epoca” (Bucharin, 66).

Lenin si mostra sostanzialmente d’accordo con le tesi esposte da Bucharin, salvo rilievi terminologici e qualche cautela nei confronti dell’eccessiva sicurezza che Bucharin manifesta sull’impossibilità di una ripresa di rapporti capitalistici. Sottolinea con un “molto giusto!” il passo in cui Bucharin parla della costruzione socialista come di un processo che comprende un’intera lunghissima epoca (CM 287). Di fatti, sin dai suoi primi interventi all’indomani della presa del potere da parte dei bolscevichi Lenin non aveva fatto altro che mettere in guardia contro le illusioni di una trasformazione rapida e indolore, sottolineando che la presa del potere era solo il primo passo di una lunga transizione.

Con la presa del potere da parte del proletariato si trasformano dialetticamente anche le sue organizzazioni di lotta: “Nelle date condizioni abbiamo di fronte, anzitutto, un mutamento dialettico delle funzioni delle organizzazioni operaie. È perfettamente chiaro che con il mutamento dei rapporti di potere non può avvenire altrimenti, giacché la classe operaia che ha preso nelle sue mani il potere statale, inevitabilmente deve anche diventare la forza che interviene come organizzatore della produzione”. Così i soviet dei deputati operai si trasformano da strumento di lotta per il potere in strumento del potere; i sindacati da strumenti di lotta contro gli imprenditori in uno degli organi di amministrazione della produzione; le cooperative da strumento di lotta contro l’intermediario commerciale in una delle organizzazioni dell’apparato statale di distribuzione; i comitati di fabbrica e di officina (Betriebsraete in Germania, workers committees e shop stewards committees in Inghilterra), da organi di lotta degli operai contro gli imprenditori sul luogo di lavoro diventano cellule sussidiarie della gestione di tutta la produzione. Al “partito della rivoluzione comunista” Bucharin assegna la funzione di “spiritus rector dell’azione proletaria” (CM 288–9). Bucharin sostiene la necessità della statalizzazione dei sindacati e di tutte le organizzazioni di massa del proletariato: “Le cellule più piccole dell’apparato operaio debbono trasformarsi in struttura portante del processo generale di organizzazione, che viene diretto in maniera pianificata e condotto dalla ragione collettiva della classe operaia che trova la sua materiale incarnazione nell’organizzazione suprema e onnicomprensiva, nel suo apparato statale”

La transizione sotto la dittatura del proletariato è quindi anche un processo ricostruttivo dell’organizzazione economica, del nesso sociale: nello schema di Bucharin la transizione coincide con due compiti: a) ricostruzione dell’economia distrutta dalla inevitabile crisi capitalistica sfociata nella guerra imperialista; b) ricostruzione di essa su nuove basi: “In questo quadro i compiti che sono di fronte al proletariato, in generale, sono formalmente … gli stessi di quelli della borghesia…: economizzazione di tutte le risorse, loro sfruttamento pianificato, massima centralizzazione possibile. L’esaurimento, che è il risultato della guerra e della rottura della continuità del processo produttivo nel periodo della dissoluzione, esige dal punto di vista della tecnica social–organizzativa appunto il passaggio ai rapporti di produzione socialisti” (CM 287). Bucharin insiste: il capitalismo stesso era spinto ad organizzarsi dalla recessione delle risorse di produzione, e tale organizzazione in un’economia non capitalistica si accentua. Il processo di lavoro non può essere portato innanzi dalla borghesia. È questo un motivo ricorrente dell’immediato dopoguerra: la rivoluzione socialista nasce dalla crisi borghese esplosa nella guerra imperialista: la transizione è quindi ricostruzione dell’economia su nuove basi. Ma ciò è abbastanza diverso dall’ipotesi marxiana del periodo di transizione.

Particolare attenzione merita il capitolo dedicato al rapporto città–campagna nel processo di trasformazione sociale, poiché qui si teorizza esplicitamente la necessità della coercizione extraeconomica nei confronti dei contadini. Bucharin sottolinea che “una peculiarità della struttura economica dell’agricoltura è la straordinaria varietà di tipi economici che rispecchiano il grado relativamente basso di socializzazione del lavoro”: grande economia capitalista fondata sul salariato; economia capitalistico–contadina (kulak) che impiega anche salariato e vive su di esso; economia contadina lavoratrice, che non sfrutta alcun salariato; economia parcellare dei semiproletari. Il capitalismo, per inserire l’economia agraria nel capitalismo di stato, ha statizzato le grandi unità produttive e regolamentato indirettamente il processo di produzione attraverso il processo di circolazione. Ora, il crollo del sistema del capitalismo di stato, avendo dato inizio alla dissoluzione dei rapporti nell’industria, comporta anche il crollo di questo sistema nell’economia agraria (Bucharin 81–87). La rottura rivoluzionaria esige in un primo tempo la separazione tra città e campagna. L’economia si scinde tra città affamata e campagna che dispone di una quantità considerevole di surplus produttivi. La rinascita dell’industria nella forma socialista è la condizione indispensabile per una più o meno rapida attrazione della campagna nel processo organizzativo, ma la rinascita dell’industria è condizionata dall’afflusso di mezzi vitali a qualsiasi costo, e qui interviene anche la coercizione (confisca, imposta in natura o altre forme) (CM 293). Questa coercizione statale è indispensabile economicamente, sottolinea Lenin, che corregge il termine “fondata economicamente” impiegato da Bucharin, del quale approva enfaticamente la conclusione: “Qui la coercizione statale non è ‘pura violenza’ di tipo duhringhiano, e pertanto è un fattore che procede lungo la linea principale del processo economico generale” (CM 293).

E del libro di Bucharin Lenin elogia particolarmente il capitolo sulla coercizione extraeconomica nel periodo di transizione (cap. X): “nell’epoca di transizione dal capitalismo al comunismo la classe rivoluzionaria creatrice della nuova società è il proletariato. Il suo potere statale, la sua dittatura, lo Stato sovietico serve da fattore di distruzione dei vecchi rapporti economici e di creazione dei nuovi […] D’altra parte, questa stessa violenza concentrata in parte si rivolge anche all’interno, essendo un fattore di autorganizzazione e di autodisciplina coercitiva dei lavoratori”. “La coercizione tuttavia non si limita ai confini delle classi prima dominanti e dei gruppi ad esse affini. Nel periodo di transizione si applica – in altre forme – anche agli stessi lavoratori, anche alla stessa classe dirigente” (CM 315–316). E ancora: nel periodo di transizione l’attività autonoma della classe operaia esiste accanto alla coercizione instaurata dalla classe operaia come classe per sé verso tutte le sue parti. La coercizione proletaria in tutte le sue forme […] è […] un metodo di elaborazione della umanità comunista dal materiale umano dell’epoca capitalistica (CM 320).

Il soggetto principale della trasformazione è, nella teoria di Bucharin, lo Stato diretto dal proletariato, che ricorre alla coercizione per accelerare le trasformazioni economiche. È un soggetto cosciente e organizzato. Le statizzazioni sono una tappa importante nel passaggio da un’economia anarchica ad un’economia ‘organizzata’ e diretta secondo un piano. Per Bucharin la statizzazione delle imprese sotto la dittatura del proletariato non può identificarsi in alcun modo col capitalismo di stato, in quanto alla direzione dello stato vi è il proletariato.

“Il comunismo non è più una forma del periodo di transizione ma il suo compimento. Questa è una struttura priva di classi e non statuale che viene costruita in tutte le sue parti in modo armonico […] la dittatura del proletariato ‘matura’ sulla via dell’evoluzione al comunismo e scompare contemporaneamente all’organizzazione statale della società. Il passaggio dal capitalismo al socialismo si attua attraverso la forza concentrata del proletariato, leva della dittatura proletaria. Il sistema di misure grazie alle quali si attua questo passaggio è di solito designato con il termine di socializzazione”, termine che Bucharin riconosce impreciso (è preferibile quello di espropriazione degli espropriatori), con cui intende il trasferimento dei mezzi di produzione nelle mani del proletariato organizzato in quanto classe dominante. La forma concreta fondamentale di questo trasferimento nel periodo di transizione, in cui “soggetto amministrante è la classe operaia costituitasi in potere statale”, è la statalizzazione o nazionalizzazione, che Bucharin invita a distinguere radicalmente dalla nazionalizzazione borghese (Bucharin, 120–122)

Nel periodo di transizione infine, le categorie astratte che Marx adoperò in rapporto alla società capitalistica – merce, valore, prezzo, profitto, salario – non sono più adeguate (Bucharin 137): le categorie economiche – ripete Bucharin con il Marx di Miseria della filosofia sono espressioni teoriche storiche, non hanno carattere di perpetuità. “È un grossolano errore metodologico trasferire l’analisi astrattamente teorica del capitalismo puro all’analisi del periodo di transizione con le sue forme estremamente mutevoli, con la sua, per così dire, dinamica di principio” (CM 317). La merce, nella misura in cui scompare l’irrazionalità del processo di produzione, cioè nella misura in cui al posto della spontaneità subentra un regolatore sociale cosciente, si trasforma in prodotto e perde il suo carattere di merce; il valore, come categoria del sistema mercantile capitalistico nel suo equilibrio, non è affatto adeguato al periodo di transizione, dove in notevole misura scompare la produzione di merci, dove non c’è equilibrio; “nel sistema della dittatura proletaria l’operaio riceve una razione di lavoro sociale e non un salario”. “Allo stesso modo scompare anche la categoria del profitto così come la categoria del plusvalore, in quanto parliamo di nuovi cicli produttivi. Tuttavia, nella misura in cui esiste ancora un mercato libero’ si ha la speculazione, ecc., si ha il profitto speculativo, le cui leggi di movimento si determinano in altro modo che nel normale sistema capitalistico. Qui agisce la situazione di monopolio del venditore, la quale fa aderire ad esso masse produttive da altre sfere” (CM 313).

Nelle sue note Lenin appare fortemente concorde con quest’idea della trasformazione delle categorie economiche, in particolare per quanto riguarda la categoria del salario.

Il giudizio complessivo che Lenin dà sul libro di Bucharin è sinteticamente espresso col detto popolare: “un cucchiaio di pece in un barattolo di miele”. La “pece” è la filosofia eclettica e idealistica di Bogdanov, dalla quale, “con un’ingenuità quasi infantile”, Bucharin ha attinto la terminologia. “Di qui una serie proprio di inesattezze teoriche (perché allora pretendere di dare una “teoria generale”?), di rimasticature scientifiche, di nobili sciocchezze accademiche. […] Quando l’autore si fa personalmente in primo piano dice cose molto buone, in modo piacevole e senza pedanteria. Ma quando egli, imitando ciecamente i ‘termini’ bogdanoviani (che in realtà non sono affatto “termini”, ma errori filosofici) all’inizio del suo libro […] si mette a volte a testa in giù per poi rovesciarsi e rimettersi in piedi, risulta appunto pedante, fuor di proposito” (CM 325). Gli appunti teorici principali che Lenin muove a Bucharin riguardano:

A) La concezione della dialettica: “l’antagonismo e le contraddizioni non sono affatto la stessa cosa. Il primo sparirà, le seconde resteranno nel socialismo” (CM 262).

B) La terminologia (e i concetti dietro di essa) “organizzativistica” che Bucharin prende da Bogdanov. Quando Bucharin scrive: “la dittatura del proletariato è inevitabilmente accompagnata da una lotta nascosta o più o meno aperta fra la tendenza organizzante del proletariato e la tendenza anarchico–mercantile dei contadini”, Lenin annota: “bisognava dire: tra la tendenza socialista del proletariato e la tendenza capitalistico–mercantile dei contadini. Introdurre qui la parola organizzante è un’inesattezza teorica, un passo indietro da Karl Marx a Louis Blanc (CM 292).

C) L’assenza di specificazione storica: Bucharin parla di “teoria generale del processo di trasformazione “, e Lenin: “Che roba è??? ‘generale? à la Spencer??” (CM 273)

D) L’estinzione dell’economia politica. Quando Bucharin scrive che “la fine della società capitalistica sarà anche la fine dell’economia politica”, Lenin annota: “Non è vero. Anche nel comunismo puro non c’è almeno il rapporto I v + m con II c? e l’accumulazione ?” (CM 274).

E) Le valutazioni troppo perentorie di Bucharin sull’impossibilità di una ripresa del capitalismo (CM 282, 287).

F) La propensione di Bucharin a vedere il capitalismo di Stato come “capitalismo organizzato”, che riesce a superare l’anarchia della produzione. Per Lenin questo è un grave errore teorico.

Ma nel complesso, nel maggio del 1920, Lenin sembra condividere sostanzialmente la prospettiva della transizione indicata da Bucharin. Al di là della critica al ‘bogdanovismo’ latente in Bucharin, la posizione di Lenin è molto vicina a quella di Bucharin su alcuni aspetti essenziali:

a) il socialismo si costruisce essenzialmente attraverso la statizzazione delle imprese e delle proprietà;

b) è essenziale la coercizione extraeconomica nei confronti delle campagne per alimentare la ripresa in città e per accelerare l’instaurazione di misure socialiste; il compito principale è affidato alla coercizione che il proletariato al potere esercita anche nei confronti dei propri membri, coercizione che si combina con l’educazione, la quale è comunque sempre educazione dall’alto, imposizione; Scarsa attenzione è riservata alla questione del consenso, della rivoluzione culturale, delle tappe della transizione;

c) nel periodo di transizione si riduce il peso dei rapporti mercantil–monetari e non sono più adeguate alcune categorie economiche individuate da Marx per il periodo del capitalismo;

d) la transizione come costruzione del socialismo è un processo di lungo periodo4;

e) la situazione russa non è particolarmente diversa da quella degli altri paesi occidentali, non è la rivoluzione in un paese arretrato; in polemica con Kautsky e i menscevichi Lenin aveva già sostenuto ciò nell’articolo per il secondo anniversario della rivoluzione bolscevica, Economia e politica nell’epoca della dittatura del proletariato; appare evacuata la questione delle difficoltà della transizione in un paese arretrato;

f) si porta a modello il proletariato russo, si presuppone che esso possa conservare intatta e magari accrescere la sua forza anche in regime di sfascio dell’economia (cosa su cui Lenin dovrà ricredersi ben presto).

Va notato il ruolo economico affidato alla coercizione della dittatura del proletariato. Bucharin lo teorizza nel modo più netto, operando anche qui un salto rispetto alla Critica del programma di Gotha e a Stato e rivoluzione: lì la dittatura era necessaria ad evitare il ritorno delle vecchie classi rovesciate, non a costruire nuovi rapporti economici. Vi è il rischio di una caduta in una concezione dell’onnipotenza del politico (che caratterizza alcuni aspetti del comunismo di guerra). Eppure Lenin aveva avvertito nel 1918 che “il socialismo non si instaura a colpi di decreti”. Il fatto è che la concezione bogdanoviana dell’organizzazione e della costruzione, dell’ingegneria sociale, finisce col considerare gli uomini e le classi al pari di oggetti, di parti di un sistema meccanico, incapaci di una dinamica propria e di una dialettica sociale, per cui conta semplicemente la quantità razionale di forza organizzata che si può impiegare. La critica di Lenin al bogdanovismo e per una corretta impostazione dialettica è dunque fondamentale nell’approccio alla questione della transizione e nella messa in discussione dell’illusione dell’onnipotenza del potere politico. Nel modello buchariniano di transizione, le classi e la dialettica sociale, pur essendo citate, non agiscono come soggetti. Viene così oscurato l’aspetto più complesso e difficile della transizione, che appare tutta appoggiata sull’azione coercitiva degli organi del potere proletario.

5. 1921–1923. Kto pobedit? – Specificità e complessità della transizione

Ma, abbiamo visto, anche nel periodo del comunismo di guerra, Lenin non abbandona mai la consapevolezza della complessità del processo di transizione al socialismo, pensa in termini di dialettica sociale, mai in quelli di sostituzione di elementi meccanici e inerti all’interno di un sistema. È, inoltre, contro le cattive generalizzazioni:

Il compito più difficile nelle transizioni e mutamenti della vita sociale è quello di calcolare la specificità di ciascuna transizione [evidenziazione mia, AC]. Come i socialisti debbano lottare nella società capitalistica è un compito non difficile ed è stato da tempo risolto. Come concepire lo sviluppo della società socialista anche questo non è difficile. Anche questo compito è risolto. Ma come realizzare praticamente la transizione dal vecchio abituale e a tutti noto capitalismo al nuovo, ancor non nato socialismo, che non ha una base solida, ecco il lavoro più difficile [sott. mia]. Questa transizione prenderà molti anni nel migliore dei casi. All’interno di questo periodo la nostra politica si dispiegherà in una serie di transizioni ancor più piccole. E tutta la difficoltà del compito che poggia su di noi, tutta la difficoltà della politica e tutta l’arte della politica consiste nel considerare i compiti specifici di ciascuna di tali transizioni.

Grande attenzione da parte di Lenin quindi alla specificità e complessità del compito, per il quale non possono servire formule generali, i principi del comunismo, come dice esplicitamente; qui bisogna fare i conti con la specificità di queste condizioni di transizione dal capitalismo al comunismo, dall’economia di guerra all’economia di pace. La transizione per Lenin è quindi un processo lungo e complesso, e attento alla peculiarità. Anche nelle note al libro di Bucharin approva questa attenzione alle peculiarità: “è un grossolano errore metodologico trasferire l’analisi astrattamente teorica del capitalismo puro all’analisi del periodo di transizione con le sue forme estremamente mutevoli, con la sua, per così dire, dinamica di principio” (CM 317).

Se leggiamo i discorsi di Lenin a partire dalla ‘svolta’ dell’inverno-primavera del ‘21 (la politica delle concessioni al capitale straniero, l’imposta in natura, la NEP) emerge con nettezza la capacità e la determinazione del dirigente rivoluzionario di parlare con estrema franchezza ai quadri e alle masse (cfr. i discorsi registrati su disco per essere diffusi anche alle masse analfabete): il dichiarare esplicitamente che occorreva – per le condizioni esterne interne e internazionali – arretrare (mentre in seguito la cultura politica sovietica ha sempre parlato di avanzate, progressi) strategicamente consentiva di non confondere col socialismo una situazione di emergenza e consentiva di non perdere di vista l’obiettivo finale da raggiungere, per il quale si arretrava anche. La grandezza di Lenin è in questa fiducia nell’azione rivoluzionaria della verità, nel rivolgersi alle masse in modo esplicito, nel non muoversi sui binari della doppia verità (per i pochi consapevoli e per le masse ingenue e bisognose di oppio o di icone). Questo non considerare le masse ancora bambini da ingannare è stato successivamente perduto e si è costruita un’ideologia del “socialismo reale” che è stata autoinganno per i dirigenti stessi.

Con la svolta della NEP torna in primo piano la specificità della situazione russa: “eravamo e continuiamo ad essere un paese di piccoli contadini e il passaggio al comunismo è per noi infinitamente più difficile di quello che potrebbe aversi in qualsiasi altra condizione” (Lenin, XXXI, 483). È dunque il rapporto con i contadini da recuperare, ripristinando lo scambio di merci: “Al primo posto viene messo lo scambio delle merci, come leva essenziale della NEP. Senza l’istituzione di uno scambio sistematico delle merci o dei prodotti tra industria e agricoltura sono impossibili rapporti corretti tra proletariato e contadini e la creazione di una forma pienamente stabile di alleanza economica tra queste due classi per il periodo di transizione dal capitalismo al socialismo” (X conferenza del PCR(b), maggio 1921, XXXII, 410).

La svolta della NEP e il riconoscimento dell’errore del comunismo di guerra vengono spiegati molto chiaramente e nettamente in un discorso dell’ottobre 1921, La nuova politica economica e i compiti dei centri di educazione politica: “La nostra precedente politica economica […] supponeva avventatamente che si sarebbe passati direttamente dalla vecchia economia russa alla produzione di Stato e alla distribuzione su basi comuniste”. L’errore fu all’inizio del ‘18 di pensare che ci sarebbe stato un periodo di edificazione pacifica. “In parte sotto l’influenza dei problemi militari abbattutisi su di noi e della situazione apparentemente disperata nella quale si trovava la repubblica alla fine della guerra imperialistica, sotto l’influenza di questa e di altre numerose circostanze, noi commettemmo l’errore di voler passare direttamente alla produzione e distribuzione su basi comuniste. Decidemmo che i contadini ci avrebbero fornito il pane necessario attraverso il sistema dei prelevamenti e noi lo avremmo distribuito agli stabilimenti e alle fabbriche, ottenendo così una produzione e una distribuzione a carattere comunista” (Lenin, XXXIII, 48). Questo piano contrastava – prosegue Lenin – “con quanto avevamo scritto prima sul passaggio dal capitalismo al socialismo. Ritenevamo infatti che senza un periodo di inventario e controllo socialista fosse impossibile salire anche il gradino più basso del comunismo. Nella letteratura teorica, a partire dal 1918, quando il problema della presa del potere sorse e fu spiegato dai bolscevichi a tutto quanto il popolo, si diceva chiaramente che è necessario un lungo e complicato periodo di transizione dalla società capitalistica (tanto più lungo quanto meno tale società è sviluppata), di transizione attraverso l’inventario e il controllo socialista, per giungere almeno alle soglie della società comunista” (Lenin, XXXIII, 48, evidenziazioni mie). La febbre della guerra civile fece dimenticare tutto ciò. “Sul fronte economico, col tentativo di passare al comunismo, abbiamo subito nella primavera del 1921 una sconfitta più grave di tutte quelle subite ad opera di Kolciak”. “Il sistema dei prelevamenti nelle campagne, questo metodo direttamente comunista di affrontare i problemi di edificazione nelle città, ha ostacolato il progresso delle forze produttive”. Non bisogna contare di passare direttamente al comunismo; bisogna costruire sulla base dell’interesse personale del contadino; bisogna edificare ogni importante ramo dell’economia nazionale sulla base dell’interesse personale: la discussione deve essere collettiva, ma la responsabilità individuale (ivi, 55).

Ora, ciò che è più interessante in questa lucida e spietata autocritica di Lenin è la problematizzazione della vittoria del proletariato nella lunga e complessa lotta tra capitalismo e socialismo nel periodo di transizione. Kto pobedit?, chi vincerà?, si chiede realisticamente Lenin. Il risultato della transizione non è scontato, dipende dal modo in cui si affronta la lotta; dipende anche dal modo in cui si si risolve una qustione che occuperà sempre di più la mente di Lenin negli ultimi anni: quella dell’educazione politica e della lotta culturale. Lenin avverte in conclusione che “il problema culturale non può essere risolto con la stessa rapidità dei problemi politici e militari. […] In guerra è possibile vincere in qualche mese, ma sul piano culturale non è possibile vincere in così poco tempo […] E i risultati dell’educazione politica non si possono misurare soltanto attraverso i progressi economici” (ivi, 64).

Come abbiamo visto, Lenin iscrive la sua visione della transizione nell’oggettività delle condizioni ereditate dalla società capitalistica: “Sappiamo che dal cielo non ci piove nulla, sappiamo che il comunismo sorge dal capitalismo, che solo dalle sue vestigia si può costruire il comunismo. Sono cattive, è vero, ma non ve ne sono altre” (marzo 1920). Lungi dal concepire la transizione come una relativamente rapida sostituzione di un nuovo ordine economico–sociale al precedente (è stato un errore, scrive nell’ottobre 1921, l’idea del passaggio diretto al comunismo), Lenin la vede come un lungo e contraddittorio processo, un processo a più tappe, o, meglio, caratterizzato da una serie di transizioni. E il periodo è tanto più lungo quanto meno la società è sviluppata. Si può dire che in Lenin vi è – di contro al meccanicismo, al messianismo e al ‘sostituzionismo’ – una forte consapevolezza della lunghezza, difficoltà e complessità del processo di transizione (la sua lotta per la dialettica contro Bogdanov e le deformazioni di Bucharin, la sua rilettura di Hegel, i Quaderni filosofici: tutto ci dice che è contro qualsiasi semplificazione). Non vi è invece in Lenin, se non appena abbozzato, uno studio delle forme economiche e sociali della transizione.

Il capitalismo di Stato (che Lenin non concepisce però nella maniera tradizionale di proprietà statale dei mezzi di produzione, ma soprattuto nella forma di concessioni fatte dal potere sovietico al capitale straniero perché investa in Russia) è un passo avanti rispetto alla piccola produzione mercantile e può, sotto il controllo del potere politico del proletariato, costituire una tappa della transizione, purché le masse si educhino all’inventario e controllo, attraverso i quali si realizza un momento importante nell’educazione politica e tecnica delle masse, elemento essenziale nella transizione. È importante osservare che per Lenin (diversamente da quanto si affermerà più tardi nella vulgata dei manuali di economia politica del socialismo reale) la nazionalizzazione (o meglio la statizzazione) dei mezzi di produzione, non si identifica affatto con la loro effettiva socializzazione nelle mani del proletariato, ma è solo una condizione, il primo passo perché questa possa realizzarsi.

Durante il periodo di transizione dal capitalismo al socialismo è inevitabile l’esistenza delle classi e della lotta di classe, la quale – scrive Lenin nel 1922 in polemica con Trockij sul ruolo dei sindacati nel potere sovietico – deve essere riconosciuta apertamente e non soppressa con misure coercitive.

Il ruolo della direzione soggettiva, cosciente e organizzata dei comunisti nel processo di transizione è fondamentale. Esso però non significa che possano essere solo i comunisti – sono una goccia in un mare – a costruire il socialismo (marzo 1922). Essi devono saper guidare, con grande cautela, l’alleanza del proletariato con i contadini.

La serie di transizioni cui Lenin pensa si svolgono su ‘campi’ diversi (rapporti giuridici e istituzionali, rapporti economici, rapporti sociali, cultura, formazione di una mentalità, apprendimento da parte delle masse della capacità tecnica e politica di gestire l’impresa e l’economia nel suo complesso) e procedono con tempi storici specifici di ogni ‘campo’. La transizione non potrà definirsi compiuta solo sulla base del fattore economico; la trasformazione, la rivoluzione culturale appare fondamentale (si veda uno dei suoi ultimi scritti, La nostra rivoluzione. A proposito delle note di Suchanov, gennaio 1923).

Alla questione se si fosse avviato o meno nella Russia dei soviet un processo di transizione al socialismo, non si può che rispondere affermativamente: la storia dei primi anni del potere sovietico non conferma affatto la tesi di C. Bettelheim, secondo cui l’Ottobre non è stata altro che una ‘rivoluzione capitalistica’, che ha sùbito instaurato il capitalismo di Stato (Bettelheim, 14).

Alla questione del quando e perché la transizione si sia arenata in URSS, la risposta è molto più difficile, poiché richiede che si facciano seriamente i conti con la storia sovietica di 70 anni. Tuttavia, se concepiamo – con Lenin – la transizione come un processo a più tappe che si svolge su campi differenti, si può dire – diversamente da una concezione piuttosto semplificante del ‘blocco della transizione’ (dovuto, secondo la teoria trockista, all’avvento di Stalin al potere; o secondo la teoria maoista, al ‘revisionismo’ del XX congresso del PCUS del 1956) – che sono intervenuti, non simultaneamente, ma in periodi e fasi differenti, diversi ‘blocchi della transizione nei diversi campi.

Riferimenti bibliografici

BETTELHEIM C., Les luttes de classes en URSS – 3ème période, tomo I, Seuil/Maspero, Paris, 1982.

BUCHARIN N., Economia del periodo di trasformazione , Jaca Book, Milano, 1971

COHEN S. F., Bucharin e la rivoluzione bolscevica, Feltrinelli, Milano, 1975

GERRATANA V., Ricerche di storia del marxismo, Editori Riuniti, Roma, 1972

LENIN V. I., Opere in 45 voll., Editori Riuniti, Roma, 1954–1972 (indicate nel testo facendo seguire a Lenin il numero del vol. in numeri romani, seguito direttamente dal numero di pagina)

LENIN V. I., Opere scelte, Editori Riuniti, Roma, 1965 (indicate con OS, seguito dal numero di pagina)

LENIN V. I., Annotazioni al libro di Bucharin sull’economia del periodo di transizione, in «Critica marxista», 1967, n. 4–5 (indicato nel testo con CM seguito dal numero di pagina).

Note:

1 Nel periodo più acuto del comunismo di guerra, tuttavia, annotando il già citato libro di Bucharin, L’economia del periodo di transizione, Lenin sembra accettare l’idea di un proletariato russo già bell’e formato per i compiti propri di una classe economicamente dominante (cfr. CM, 286).

2 Cfr. S. F. Cohen, Bucharin e la rivoluzione bolscevica, Feltrinelli, Milano, 1975, p. 95. Il titolo originale del libro di Bucharin è Ekonomika perechodnogo perioda. Čast’ pervaja: obščaja teorija transformacionnogo processa, Moskva, 1920. In italiano è disponibile una traduzione – a tratti incomprensibile – condotta sull’edizione tedesca Oekonomik der Transformationsperiode del 1922: Economia del periodo di trasformazione, Jaka Book, Milano, 1971. È singolare come il titolo della traduzione tedesca rimuova la nozione di transizione per assumere immediatamente quella di trasformazione.

3 Le note marginali di Lenin a L’economia del periodo di transizione – disponibili nella traduzione italiana di G. Garritano in Critica marxista 1967, n. 4–5, pp. 271–326 (le citazioni da questo testo saranno indicate in seguito con CM seguito direttamente dal numero di pagina) – furono pubblicate a Mosca nel 1932 a cura dell’Istituto Marx–Engels–Lenin. Il testo fu preparato per la stampa da G. Tichomirnov sotto la direzione di V. Adoratskij.

4 Anche se a questo proposito vi è una notevole ambiguità in Bucharin, poiché, partendo dal postulato dell’equilibrio, ammette che la transizione, come fase del non equilibrio, non può durare molto a lungo: “il periodo di tempo che noi consideriamo non rappresenta una grandezza piuttosto lunga […] nell’analisi del periodo di transizione è inammissible un’intera serie di semplificazioni metodologiche che sono invece concepibili sotto condizione dell’esistenza di un sistema di produzione consolidato” (Bucharin, 145).

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