Il rossobrunismo

rosso colore macchiedi Alessandro Pascale

Perché anche un giornalista noto come Andrea Scanzi [1] si è soffermato sul tema del rossobrunismo, descrivendolo peraltro impropriamente come un neologismo? Approfittiamone per fare chiarezza da un punto di vista marxista sul tema, già trattato tangenzialmente in altre occasioni, come ad esempio nel passo seguente [2]:

«si è assistito in effetti anche a questa sottile strategia messa in atto negli ultimi anni in Italia: alcuni settori della “sinistra”, al fine di legittimare il prosieguo di un eclettismo ideologico “liberal”, hanno iniziato a tacciare di rossobrunismo tutti coloro che ponevano la contraddizione antimperialista come la contraddizione principale.

Ci sono cioè settori della “sinistra” che si presentano come “progressisti”, talvolta perfino come “comunisti”, ma alla prova dei fatti utilizzano la questione antifascista come prioritaria su ogni altro aspetto (antimperialismo, anticapitalismo, lotta di classe), approdando spesso e volentieri ad una posizione morbida, se non conciliante, con il PD, con il centro-sinistra e con le strutture e sovrastrutture imperialiste (prime tra tutte NATO, UE, euro), in nome dell’unità contro le “destre”.»

ORIGINE STORICA E POLITICA

Negli anni ’70 si diceva “nazimaoista” quel settore del radicalismo di destra che univa suggestioni nazionaliste e sociali ad una lettura spiritualista dell’esperienza maoista e stalinista. 

Un ulteriore precedente storico-politico è il concetto di “nazional-bolscevico” o “nazional-comunista”, nato in Germania nel primo dopoguerra e usato sia da una branca dell’estrema destra rivoluzionario-conservatrice sia dai marxisti del KAPD di Amburgo, fautori entrambi di una convergenza strategica fra nazionalisti rivoluzionari e comunisti contro il “nuovo ordine europeo” uscito a Versailles. Da notare che  il KAPD fu poi criticato da Lenin per questa strategia. 

Il termine “rossobruno” invece, come viene spiegato da Matteo Luca Andriola nella nuova edizione de La Nuova Destra in Europa. Il populismo e il pensiero di Alain de Benoist [3], nasce nel 1992 in Russia coniato dai giornalisti vicini all’entourage di Boris El’cin per screditare Gennadij Zjuganov, leader comunista russo a capo del Fronte di salvezza nazionale, coalizione patriottica antiliberista guidata dal PCFR a cui si aggregheranno piccoli soggetti patriottici e nazionalisti fra cui il piccolo Fronte nazionalbolscevico il cui leader era Eduard Limonov [4] e l’ideologo l’eurasiatista Aleksandr Dugin.

ACCUSATORI E ACCUSATI ODIERNI

Oggi, in Italia, assistiamo ad una deconcettualizzazione del termine e al suo uso spregiudicatamente propagandistico. Rossobruno è etichetta dispregiativa con cui liberali, libertari e “ex comunisti” convertitisi al globalismo e all’atlantismo delegittimano nel dibattito democratico i marxisti-leninisti, i socialisti internazionalisti [5] e la sinistra sovranista costituzionale [6].

Di fatto le principali derive revisioniste del nostro tempo (apertura all’identity politics di stampo americano, al cosmopolitismo senza radici e all’immigrazionismo borghese, utopie di “riforma dell’Unione Europa dall’interno” e anacronistici “fronti popolari” con la sinistra borghese) vengono giustificate proprio con il pretesto della lotta al rossobrunismo.

I rossobruni veri e propri quindi non esistono? Esistono sì, e non sono pochi, ma il conflitto di cui sopra li riguarda solo saltuariamente e incidentalmente. Il conflitto vero, infatti, è quello tra marxisti/socialisti e sinistra neoliberale/antimarxista (ovvero la sinistra oggi rappresentata in Parlamento, e anche una parte di quella extraparlamentare).

LA DEFINIZIONE DI FUSARO

Diego Fusaro [7] ha definito pubblicamente così il rossobrunismo: 

«Rossobrunismo è la classificazione di ogni possibilità di resistere al mondialismo, mentre l’unica resistenza possibile può scaturire solo da una dinamica di deglobalizzazione, difesa nazionale e risovranizzazione dell’economia. Rossobruno è chiunque che, consapevole che l’antagonismo odierno si basi sulla verticale contrapposizione tra servi e signori e non su vane divisioni orizzontali, oggi rigetti destra e sinistra. Pertanto, viene bollato come gli estremi di esse. Oggi chiunque propugni un’economia di mercato sovrana, viene automaticamente chiamato Rossobruno. La classe dirigente è tale non soltanto in termini economici e sociali, ma anche e soprattutto nella concezione simbolica del linguaggio. Previa una neolingua del modernismo postmoderno, il pensiero unico politicamente corretto, viene demonizzata ogni possibilità del “Pensare altrimenti”, di dissentire dal pensiero unico. Ci convincono così a orientarci come masse che legittimano il loro dominio. Dissentire da ciò è il reato di Rossobrunismo.»

Ci sono elementi di verità in questa analisi, ma l’esposizione è carente, inadeguata e imprecisa; tanto meno sono condivisibili e accettabili la collaborazione con alcuni settori del nazifascismo italiano [8] e le conclusioni politiche di Fusaro: avere «idee di sinistra e valori di destra» [9]. 

FASCISMO & ANTIFASCISMO, DESTRA & SINISTRA

Nell’Introduzione teorico-politica al marxismo-leninismo di In Difesa del Socialismo Reale non ho affrontato direttamente il tema del rossobrunismo, per quanto la questione sia posta in maniera abbastanza chiara al lettore attento nel paragrafo “Il nesso strutturale tra fascismo e imperialismo”, che vado a riportare integralmente:

«Alcuni di questi attacchi inconsulti odierni riguardano ad esempio la questione posta da alcuni intellettuali autodefinitisi marxisti secondo cui occorrerebbe rinnegare la dicotomia fascismo/antifascismo in nome della costruzione di un fronte comune antimperialista e anticapitalista. Questi assunti partono dal giusto assunto che dopo il 1991 e la ripresa di egemonia delle teorie socialdemocratiche (con evidenti e grossolani cedimenti all’ideologia liberista) all’interno delle organizzazioni progressiste, le “destre” e le “sinistre”, così come sono percepite a livello popolare, abbiano sostanzialmente messo in pratiche le stesse politiche (reazionarie), giungendo ad esempio in Italia a rafforzare l’idea che tutta la politica non sia altro che un gioco di corrotti e delinquenti (la questione insomma della cosiddetta “antipolitica” e della “casta”). 

È evidente che analizzando gli ultimi 20-30 anni le sinistre socialdemocratiche siano sempre più assimilabili alle destre popolari, all’insegna di una comune accettazione del sistema capitalistico imperialista. Da tutto ciò potrebbe anche scaturire una riflessione utile sull’utilità o meno per un’organizzazione comunista di utilizzare una parola sempre più logora e deturpata come “sinistra”, ormai forse perfino più bistrattata di termini considerati vetusti (ma sempre più sconosciuti per le giovani generazioni) come “socialista” o “comunista”. 

Da ciò non deve derivare però la caduta del concetto ontologico di destra e sinistra nato con la Rivoluzione Francese, che sanciva in maniera storica la differenza antropologica tra reazionari e progressisti, tra conservatori e rivoluzionari, tra chi in definitiva guarda al bene del proprio orticello e chi invece volge lo sguardo all’interesse di tutta l’umanità. 

Questa è la stessa differenza sostanziale che vige tra fascismo e antifascismo: il primo è un’ideologia reazionaria, nazionalista e xenofobo-razzista che nulla può avere a che vedere con chi si professa comunista, il quale invece pone l’internazionalismo e quindi l’antirazzismo come uno dei suoi fondamenti necessari e costituenti verso la lotta al Capitale. 

C’è però anche un altro motivo ben più evidente che rende questa alleanza non solo impossibile ma inconcepibile. Ciò risiede nel fatto che il capitalismo ed il fascismo altro non sono che due facce della stessa medaglia. Lo insegna la storia del movimento operaio. Non è un caso che la XIII sessione plenaria del Comitato Esecutivo dell’Internazionale Comunista definisse il fascismo al potere come “la dittatura terroristica aperta degli elementi più reazionari, più sciovinisti e più imperialisti del capitale finanziario”

Il fascismo non è altro quindi che una mostruosa creatura partorita e sostenuta nei momenti di crisi dalla stessa borghesia per i suoi obiettivi. Gramsci lo spiega assai bene:

“Il ‘fascismo’ è la fase preparatoria della restaurazione dello Stato, cioè di un rincrudimento della reazione capitalistica, di un inasprimento della lotta capitalistica contro le esigenze piú vitali della classe proletaria. Il fascismo è l’illegalità della violenza capitalistica: la restaurazione dello Stato è la legalizzazione di questa violenza.” 

Questo è il motivo che rende chiaro a Gramsci il fatto che “la liquidazione del fascismo deve essere la liquidazione della borghesia che lo ha creato”.

Impossibile quindi essere antifascisti senza essere anticapitalisti, come riuscì a sentenziare in maniera quasi poetica Bertolt Brecht:

“Coloro che sono contro il fascismo senza essere contro il capitalismo, che si lamentano della barbarie che proviene dalla barbarie, sono simili a gente che voglia mangiare la sua parte di vitello senza però che il vitello venga scannato. Vogliono mangiare il vitello, ma il sangue non lo vogliono vedere. Per soddisfarli basta che il macellaio si lavi le mani prima di servire la carne in tavola. Non sono contro i rapporti di proprietà che generano la barbarie, ma soltanto contro la barbarie. Alzano la voce contro la barbarie e lo fanno in paesi in cui esistono bensì gli stessi rapporti di proprietà, ma i macellai si lavano ancora le mani prima di servire la carne in tavola.” 

Ma nell’epoca in cui il capitalismo è nella sua fase imperialistica come si può quindi predicare l’unione con i fascisti che dell’imperialismo rappresentano l’agente più terribile? Non val la pena approfondire ulteriormente tale questione posta da settori dell’intellettualità che evidentemente nulla hanno a che spartire con il marxismo.»

IL ROSSOBRUNISMO COME USCITA DAL CAMPO DEL COMUNISMO

C’è un confine nella normale dialettica interna al campo comunista. Non si possono accettare pensieri nazionalisti, razzisti o in qualche pur morbida maniera “esclusivisti”. Non si può cioè pensare che i diritti debbano essere riservati eternamente solo ad alcune comunità umane, andando ad escluderne altri per criteri di etnia, religione, lingua, sesso, ecc. 

Ci sono ragioni accettabili per considerare comunista solo chi utilizza e coniuga opportunamente le categorie di patriottismo, internazionalismo, materialismo storico (e dialettico), lotta di classe, imperialismo, ecc. 

Partendo dal patrimonio (per quanto ormai semi-sconosciuto e assai scarsamente condiviso, quantomeno in Italia) del marxismo-leninismo, si può discutere su alcuni questioni tattiche, strategiche e di teoria ancora insolute; queste non sono poche e riguardano anche la dialettica e la concretizzazione dei diritti sociali e civili, oltre che le differenti caratterizzazioni nazionali al socialismo. Su questi temi i comunisti nel resto del mondo (cinesi, cubani, coreani, portoghesi, ecc.) sono molto più avanzati di noi italiani, che scontiamo ancora il retaggio dell’eurocomunismo.

Tra i temi strategici del dibattito troviamo quelli del potere politico ed economico. Il rossobruno rifiuta la lotta di classe e considera prioritario non l’obiettivo del miglioramento sociale della classe lavoratrice, ma la difesa strategica della sovranità nazionale in un’ottica corporativa e interclassista. In questa ottica non c’è un nesso tra la sovranità nazionale e quella popolare. Si arriva così a elaborare concetti ambigui come «economia di mercato sovrana», in continuità con il mantenimento di un regime borghese. Il rossobruno insomma non propone la presa del potere politico ed economico da parte della classe lavoratrice ma nei casi migliori si limita a proporre una moderna “aristocrazia borghese” illuminata, che non mette in discussione il controllo sociale e politico dei mezzi di produzione dell’attuale classe dominante. Il “welfare state” non è implicito per il rossobruno, così come in generale alcuna forma di regime sociale avanzato. Qualora vi sia tale rivendicazione, essa non cessa di essere ambigua se non accompagnata dalla messa in discussione della struttura imperialista del proprio Paese.

Ben diverso è il discorso del “socialismo di mercato”, ossia di un regime in cui il potere politico resta saldamente in mano alla classe lavoratrice organizzata dalla sua avanguardia, il partito comunista. Il potere economico viene in questo caso spartito consapevolmente e in spazi più o meno limitati con la borghesia nazionale non come obiettivo strategico, bensì tattico, con lo scopo di sviluppare le forze di produzione, creando ricchezza sociale che, seppur redistribuita in maniera inizialmente diseguale, è una delle condizioni concrete per il futuro passaggio al socialismo.

Dietro la normale dialettica del dibattito democratico interno al campo marxista-leninista c’è sempre il pericolo del revisionismo, come mostra la crescita di certe correnti reazionarie nei partiti comunisti della seconda metà del ‘900: si pensi all’ala migliorista nel PCI, o alle correnti riformiste e nazionaliste rafforzatesi nel PCUS dagli anni ’70. Tale pericolo è ancora più accentuato oggi, sia per la fase di sbandamento ideologico (soprattutto europeo) conseguente al crollo del muro di Berlino, sia per i rischi insiti nel socialismo di mercato, che come abbiamo visto consentono in forme e modalità variegate il ripristino di alcuni elementi di un’economia capitalistica, con tutte le conseguenze moralmente corruttrici del caso. Il passaggio però non è automatico, ed in ultima istanza è il potere politico che ha l’ultima parola, il che ripropone il tema dell’adeguatezza ideologica del Partito come guida della classe lavoratrice.

SUI REGIMI NAZIONALISTI DEL “TERZO MONDO”

Un ulteriore tema di riflessione è dato da uno scambio di battute avuto con Francesco Alarico della Scala, uno dei maggiori esperti italiani della Repubblica Popolare Democratica di Corea, il quale mi ha messo in guardia da una semplificazione nell’uso del termine “nazionalismo”:

«Nonostante i suoi ovvi limiti di classe, il nazionalismo borghese può svolgere e ha svolto una funzione progressiva nei paesi colonizzati o in genere asserviti all’imperialismo straniero, mentre ha un ruolo completamente reazionario solo nelle metropoli imperialiste.

Proprio questo è il caso di Hitler e Mussolini, da te citati, che agirono in contesti dove la rivoluzione proletaria era, se non proprio all’ordine del giorno, una concreta possibilità che terrorizzava le classi sfruttatrici, e quindi assolsero non una funzione progressiva (di liberazione nazionale) ma regressiva (di contenimento e repressione della spinta rivoluzionaria delle masse lavoratrici), peraltro favoriti in ciò dal fatto che il movimento comunista dell’epoca non aveva saputo levare per primo la bandiera degli interessi nazionali e unire il destino della nazione alla causa del socialismo – come più volte osservato da Lenin e Stalin e contrariamente a quanto accadde vent’anni dopo.

In altre realtà (Libia di Gheddafi, Egitto di Nasser, Iraq di Saddam, Siria degli Assad, ecc.) regimi molto diversi ma che comunque si richiamavano ad analoghe dottrine corporativiste hanno dato vita ad esperimenti molto interessanti, di fronte ai quali che fare: preoccuparsi per le deviazioni rossobrune che potrebbero veicolare oppure riconoscere la loro funzione storica positiva e il loro contributo alla diffusione degli ideali socialisti sia pur non rigorosamente marxisti? 

I comunisti coreani sono di questo secondo avviso, e da sempre intrattengono buoni rapporti con alcune forze nazionaliste non solo in patria e nel mondo post-coloniale ma anche in Giappone, in Europa e in America, e per questo incorrono spesso in accuse di “rossobrunismo” o di fascismo vero e proprio. Nondimeno la loro posizione è la più conforme alle tradizioni del movimento comunista mondiale intese in modo non folcloristico e nominale.»

Al suo intervento stimolante ho risposto nella seguente maniera:

«Tutte le realtà che possiamo definire “nazionaliste progressive”, quelle che hai citato ne sono esempi, sono alleate del movimento comunista nella lotta contro l’imperialismo internazionale, ma non le considero modelli marxisti-leninisti, seppur varianti nazionali del socialismo rispettabili per i differenti contesti. 

Per quanto riguarda l’Italia credo che la soluzione resti uno sviluppo diverso del marxismo-leninismo, che non apra a tali versioni eclettiche che sono adatte per Paesi molto diversi da noi per cultura, società, economia, ecc. 

È sbagliato comunque ritenerli rossobruni, così come bollare di rossobrunismo i comunisti che collaborino con loro in ambito nazionale o internazionale. Credo però che loro stessi sarebbero d’accordo a non considerarsi parte del movimento comunista internazionale.

Sono d’accordo con te comunque che i maggiori pericoli ideologici vengano da altri fronti, ma proprio perché il nemico è ancora forte non bisogna dare il minimo argomento ai suoi attacchi, evitando di fare errori (o provocazioni) come quelle dell’ultimo Preve che è arrivato a dare indicazioni di voto per la Le Pen.»

NON È MEGLIO RIGETTARE IL TERMINE ROSSOBRUNISMO?

No. La storia [10] ci ha mostrato che le classi reazionarie hanno sempre cercato di infiltrare i movimenti rivoluzionari, talvolta pianificando a tavolino strategie culturali per introdurre elementi revisionisti e degeneratori nel campo culturale proletario. Questo vale chiaramente in particolar modo per il marxismo e il movimento comunista, che sono stati e sono tuttora il nemico principale dell’imperialismo. 

La borghesia dispone infatti dei mezzi politici, economici e mediatici per fomentare ad arte delle “deviazioni” politico-ideologiche, introducendo modelli “riformisti” o “rossobruni”, intendendo per questi ultimi, come abbiamo visto, delle teorie ibride tra socialismo e nazionalismo borghese che costituiscono forme degenerative della teoria rivoluzionaria in grado di confondere larghi strati della classe lavoratrice, sfruttando parole d’ordine e slogan solo apparentemente rivoluzionari. In questa maniera sono riusciti a “sfondare” casi famosi come Mussolini e Hitler, due esempi classici in tal senso, visto l’enorme sostegno che hanno ottenuto dal mondo industriale. 

La categoria di “rossobruno” è quindi valida tutt’oggi? Si. Pur essendo nata in un contesto borghese, essa esprime una posizione politica che per anni è stata respinta, seppur con altri termini, dal movimento comunista internazionale. Oggi resta valida in questa accezione, come arma ideologica a disposizione del movimento operaio, tenendo conto però che nella confusione ideologica in cui versa attualmente il movimento comunista, specie quello italiano, tale categoria è stata fatta propria dai think tank della borghesia liberale per delegittimare paradossalmente soprattutto i comunisti. 

Il che non deve stupire troppo, dato che la borghesia liberale è già riuscita a conquistare la categoria analitica della “sinistra”, bollando i comunisti prima come “estrema sinistra” (anni ’90 e inizio ’00), poi, negli ultimi tempi, di fronte ad alcuni nuovi fermenti teorico-politici che rischiano di incrinare la narrazione del totalitarismo liberale, come “rossobruna”. 

Per queste ragioni credo che in alcuni casi sia utile mantenere la categoria di rossobrunismo, specie laddove ci siano dei casi palesi di revisionismo anticomunista. Occorre insomma sempre mantenere la guardia imparando a muoversi in questo «mondo grande e terribile» (cit. Gramsci).

NOTE

[1]  A. Scanzi, L’ossessione “rossobruna”: come etichettare il nemico, Ilfattoquotidiano.it, 31 dicembre 2018, disp. su https://infosannio.wordpress.com/2019/01/01/andrea-scanzi-lultimo-insulto-della-sinistra-a-chi-non-vota-bene-sei-un-rossobruno-si-continuano-a-non-indovinarne-mezza/.

[2]  A. Pascale, Risposta alle accuse di Iskrae su Berlinguer e rossobrunismo, Intellettualecollettivo.it, 30 dicembre 2018, disp. su http://intellettualecollettivo.it/risposta-alle-accuse-di-iskrae-su-berlinguer-e-rossobrunismo/.

[3]  La nuova edizione, riveduta, ampliata e corretta, è in uscita per le Edizioni Paginauno.

[4]  Un personaggio diventato famoso grazie al bel libro E. Carrère, Limonov, Adelphi, 2012.

[5]  F. Chernov, Il cosmopolitismo borghese e il suo ruolo reazionario, Bol’ševik, n° 5, 15 Marzo 1949, disp. su http://intellettualecollettivo.it/la-lotta-mondiale-contro-limperialismo-cosmopolita/. 

[6]  V. Giacché, Per una sovranità democratica e popolare. Cioè costituzionale. L’ultimo libro di Alessandro Somma: “Sovranismi”, Marx21.it, 3 gennaio 2019, disp. su  https://www.marx21.it/index.php/internazionale/europa/29467-vladimiro-giacche-per-una-sovranita-democratica-e-popolare-cioe-costituzionale-lultimo-libro-di-alessandro-somma-sovranismi.

[7]  C. Fantuzzi, Fusaro: “Rossobrunismo e Interesse Nazionale: Armi Culturali Contro il Capitalismo mondialista”, Ticinolive.ch, 30 marzo 2017, disp. su http://www.ticinolive.ch/2017/03/30/fusaro-rossobrunismo-interesse-nazionale-armi-culturali-capitalismo-mondialista/.

[8]  Si veda ad esempio l’intervista al leader di Casapound Di Stefano sul sito dell’associazione culturale di Fusaro: A. Pepa, Di Stefano: “fascismo e antifascismo? Non c’è nessuna guerra civile in atto: è una truffa montata ad arte per distrarci”, Interessenazionale.net, 1 marzo 2018, disp. su  https://www.interessenazionale.net/blog/di-stefano-fascismo-e-antifascismo-non-c-nessuna-guerra-civile-atto-truffa-montata-ad-arte.

[9]  D. Fusaro, Il vero rivoluzionario: idee di sinistra, valori di destra, Diegofusaro.com, 5 giugno 2018, disp. su https://www.diegofusaro.com/idee-sinistra-valori-destra/.

[10]  Su questo non posso che rimandare alle ricerche presentate in A. Pascale, In Difesa del Socialismo Reale e del Marxismo-Leninismo, Intellettualecollettivo.it, 15 dicembre 2017, disp. su http://intellettualecollettivo.it/scarica-in-difesa-del-socialismo/. Ulteriori elementi sono aggiunti nel volume A. Pascale, Il totalitarismo liberale. Le tecniche imperialiste per l’egemonia culturale, La Città del Sole, Napoli 2019.

IL ROSSOBRUNISMO

 

Perché anche un giornalista noto come Andrea Scanzi[1] si è soffermato sul tema del rossobrunismo, descrivendolo peraltro impropriamente come un neologismo? Approfittiamone per fare chiarezza da un punto di vista marxista sul tema, già trattato tangenzialmente in altre occasioni, come ad esempio nel passo seguente[2]:

 

«si è assistito in effetti anche a questa sottile strategia messa in atto negli ultimi anni in Italia: alcuni settori della “sinistra”, al fine di legittimare il prosieguo di un eclettismo ideologico “liberal”, hanno iniziato a tacciare di rossobrunismo tutti coloro che ponevano la contraddizione antimperialista come la contraddizione principale. Ci sono cioè settori della “sinistra” che si presentano come “progressisti”, talvolta perfino come “comunisti”, ma alla prova dei fatti utilizzano la questione antifascista come prioritaria su ogni altro aspetto (antimperialismo, anticapitalismo, lotta di classe), approdando spesso e volentieri ad una posizione morbida, se non conciliante, con il PD, con il centro-sinistra e con le strutture e sovrastrutture imperialiste (prime tra tutte NATO, UE, euro), in nome dell’unità contro le “destre”.»

 

ORIGINE STORICA E POLITICA

 

Negli anni ’70 si diceva “nazimaoista” quel settore del radicalismo di destra che univa suggestioni nazionaliste e sociali ad una lettura spiritualista dell’esperienza maoista e stalinista.

 

Un ulteriore precedente storico-politico è il concetto di “nazional-bolscevico” o “nazional-comunista”, nato in Germania nel primo dopoguerra e usato sia da una branca dell’estrema destra rivoluzionario-conservatrice sia dai marxisti del KAPD di Amburgo, fautori entrambi di una convergenza strategica fra nazionalisti rivoluzionari e comunisti contro il “nuovo ordine europeo” uscito a Versailles. Da notare che  il KAPD fu poi criticato da Lenin per questa strategia.

 

Il termine “rossobruno” invece, come viene spiegato da Matteo Luca Andriola nella nuova edizione de La Nuova Destra in Europa. Il populismo e il pensiero di Alain de Benoist[3], nasce nel 1992 in Russia coniato dai giornalisti vicini all’entourage di Boris El’cin per screditare Gennadij Zjuganov, leader comunista russo a capo del Fronte di salvezza nazionale, coalizione patriottica antiliberista guidata dal PCFR a cui si aggregheranno piccoli soggetti patriottici e nazionalisti fra cui il piccolo Fronte nazionalbolscevico il cui leader era Eduard Limonov[4] e l’ideologo l’eurasiatista Aleksandr Dugin.

 

ACCUSATORI E ACCUSATI ODIERNI

 

Oggi, in Italia, assistiamo ad una deconcettualizzazione del termine e al suo uso spregiudicatamente propagandistico. Rossobruno è etichetta dispregiativa con cui liberali, libertari e “ex comunisti” convertitisi al globalismo e all’atlantismo delegittimano nel dibattito democratico i marxisti-leninisti, i socialisti internazionalisti[5] e la sinistra sovranista costituzionale[6].

 

Di fatto le principali derive revisioniste del nostro tempo (apertura all’identity politics di stampo americano, al cosmopolitismo senza radici e all’immigrazionismo borghese, utopie di “riforma dell’Unione Europa dall’interno” e anacronistici “fronti popolari” con la sinistra borghese) vengono giustificate proprio con il pretesto della lotta al rossobrunismo.

 

I rossobruni veri e propri quindi non esistono? Esistono sì, e non sono pochi, ma il conflitto di cui sopra li riguarda solo saltuariamente e incidentalmente. Il conflitto vero, infatti, è quello tra marxisti/socialisti e sinistra neoliberale/antimarxista (ovvero la sinistra oggi rappresentata in Parlamento, e anche una parte di quella extraparlamentare).

LA DEFINIZIONE DI FUSARO

 

Diego Fusaro[7] ha definito pubblicamente così il rossobrunismo:

 

«Rossobrunismo è la classificazione di ogni possibilità di resistere al mondialismo, mentre l’unica resistenza possibile può scaturire solo da una dinamica di deglobalizzazione, difesa nazionale e risovranizzazione dell’economia. Rossobruno è chiunque che, consapevole che l’antagonismo odierno si basi sulla verticale contrapposizione tra servi e signori e non su vane divisioni orizzontali, oggi rigetti destra e sinistra. Pertanto, viene bollato come gli estremi di esse. Oggi chiunque propugni un’economia di mercato sovrana, viene automaticamente chiamato Rossobruno. La classe dirigente è tale non soltanto in termini economici e sociali, ma anche e soprattutto nella concezione simbolica del linguaggio. Previa una neolingua del modernismo postmoderno, il pensiero unico politicamente corretto, viene demonizzata ogni possibilità del “Pensare altrimenti”, di dissentire dal pensiero unico. Ci convincono così a orientarci come masse che legittimano il loro dominio. Dissentire da ciò è il reato di Rossobrunismo.»

 

Ci sono elementi di verità in questa analisi, ma l’esposizione è carente, inadeguata e imprecisa; tanto meno sono condivisibili e accettabili la collaborazione con alcuni settori del nazifascismo italiano[8] e le conclusioni politiche di Fusaro: avere «idee di sinistra e valori di destra»[9].

 

FASCISMO & ANTIFASCISMO, DESTRA & SINISTRA

 

Nell’Introduzione teorico-politica al marxismo-leninismo di In Difesa del Socialismo Reale non ho affrontato direttamente il tema del rossobrunismo, per quanto la questione sia posta in maniera abbastanza chiara al lettore attento nel paragrafo “Il nesso strutturale tra fascismo e imperialismo”, che vado a riportare integralmente:

 

«Alcuni di questi attacchi inconsulti odierni riguardano ad esempio la questione posta da alcuni intellettuali autodefinitisi marxisti secondo cui occorrerebbe rinnegare la dicotomia fascismo/antifascismo in nome della costruzione di un fronte comune antimperialista e anticapitalista. Questi assunti partono dal giusto assunto che dopo il 1991 e la ripresa di egemonia delle teorie socialdemocratiche (con evidenti e grossolani cedimenti all’ideologia liberista) all’interno delle organizzazioni progressiste, le “destre” e le “sinistre”, così come sono percepite a livello popolare, abbiano sostanzialmente messo in pratiche le stesse politiche (reazionarie), giungendo ad esempio in Italia a rafforzare l’idea che tutta la politica non sia altro che un gioco di corrotti e delinquenti (la questione insomma della cosiddetta “antipolitica” e della “casta”).

 

È evidente che analizzando gli ultimi 20-30 anni le sinistre socialdemocratiche siano sempre più assimilabili alle destre popolari, all’insegna di una comune accettazione del sistema capitalistico imperialista. Da tutto ciò potrebbe anche scaturire una riflessione utile sull’utilità o meno per un’organizzazione comunista di utilizzare una parola sempre più logora e deturpata come “sinistra”, ormai forse perfino più bistrattata di termini considerati vetusti (ma sempre più sconosciuti per le giovani generazioni) come “socialista” o “comunista”.

 

Da ciò non deve derivare però la caduta del concetto ontologico di destra e sinistra nato con la Rivoluzione Francese, che sanciva in maniera storica la differenza antropologica tra reazionari e progressisti, tra conservatori e rivoluzionari, tra chi in definitiva guarda al bene del proprio orticello e chi invece volge lo sguardo all’interesse di tutta l’umanità.

 

Questa è la stessa differenza sostanziale che vige tra fascismo e antifascismo: il primo è un’ideologia reazionaria, nazionalista e xenofobo-razzista che nulla può avere a che vedere con chi si professa comunista, il quale invece pone l’internazionalismo e quindi l’antirazzismo come uno dei suoi fondamenti necessari e costituenti verso la lotta al Capitale.

 

C’è però anche un altro motivo ben più evidente che rende questa alleanza non solo impossibile ma inconcepibile. Ciò risiede nel fatto che il capitalismo ed il fascismo altro non sono che due facce della stessa medaglia. Lo insegna la storia del movimento operaio. Non è un caso che la XIII sessione plenaria del Comitato Esecutivo dell’Internazionale Comunista definisse il fascismo al potere come “la dittatura terroristica aperta degli elementi più reazionari, più sciovinisti e più imperialisti del capitale finanziario”.

 

Il fascismo non è altro quindi che una mostruosa creatura partorita e sostenuta nei momenti di crisi dalla stessa borghesia per i suoi obiettivi. Gramsci lo spiega assai bene:

 

Il ‘fascismo’ è la fase preparatoria della restaurazione dello Stato, cioè di un rincrudimento della reazione capitalistica, di un inasprimento della lotta capitalistica contro le esigenze piú vitali della classe proletaria. Il fascismo è l’illegalità della violenza capitalistica: la restaurazione dello Stato è la legalizzazione di questa violenza.

 

Questo è il motivo che rende chiaro a Gramsci il fatto che “la liquidazione del fascismo deve essere la liquidazione della borghesia che lo ha creato”.

 

Impossibile quindi essere antifascisti senza essere anticapitalisti, come riuscì a sentenziare in maniera quasi poetica Bertolt Brecht:

 

Coloro che sono contro il fascismo senza essere contro il capitalismo, che si lamentano della barbarie che proviene dalla barbarie, sono simili a gente che voglia mangiare la sua parte di vitello senza però che il vitello venga scannato. Vogliono mangiare il vitello, ma il sangue non lo vogliono vedere. Per soddisfarli basta che il macellaio si lavi le mani prima di servire la carne in tavola. Non sono contro i rapporti di proprietà che generano la barbarie, ma soltanto contro la barbarie. Alzano la voce contro la barbarie e lo fanno in paesi in cui esistono bensì gli stessi rapporti di proprietà, ma i macellai si lavano ancora le mani prima di servire la carne in tavola.”

 

Ma nell’epoca in cui il capitalismo è nella sua fase imperialistica come si può quindi predicare l’unione con i fascisti che dell’imperialismo rappresentano l’agente più terribile? Non val la pena approfondire ulteriormente tale questione posta da settori dell’intellettualità che evidentemente nulla hanno a che spartire con il marxismo.»

 

IL ROSSOBRUNISMO COME USCITA DAL CAMPO DEL COMUNISMO

 

C’è un confine nella normale dialettica interna al campo comunista. Non si possono accettare pensieri nazionalisti, razzisti o in qualche pur morbida maniera “esclusivisti”. Non si può cioè pensare che i diritti debbano essere riservati eternamente solo ad alcune comunità umane, andando ad escluderne altri per criteri di etnia, religione, lingua, sesso, ecc.

 

Ci sono ragioni accettabili per considerare comunista solo chi utilizza e coniuga opportunamente le categorie di patriottismo, internazionalismo, materialismo storico (e dialettico), lotta di classe, imperialismo, ecc.

 

Partendo dal patrimonio (per quanto ormai semi-sconosciuto e assai scarsamente condiviso, quantomeno in Italia) del marxismo-leninismo, si può discutere su alcuni questioni tattiche, strategiche e di teoria ancora insolute; queste non sono poche e riguardano anche la dialettica e la concretizzazione dei diritti sociali e civili, oltre che le differenti caratterizzazioni nazionali al socialismo. Su questi temi i comunisti nel resto del mondo (cinesi, cubani, coreani, portoghesi, ecc.) sono molto più avanzati di noi italiani, che scontiamo ancora il retaggio dell’eurocomunismo.

 

Tra i temi strategici del dibattito troviamo quelli del potere politico ed economico. Il rossobruno rifiuta la lotta di classe e considera prioritario non l’obiettivo del miglioramento sociale della classe lavoratrice, ma la difesa strategica della sovranità nazionale in un’ottica corporativa e interclassista. In questa ottica non c’è un nesso tra la sovranità nazionale e quella popolare. Si arriva così a elaborare concetti ambigui come «economia di mercato sovrana», in continuità con il mantenimento di un regime borghese. Il rossobruno insomma non propone la presa del potere politico ed economico da parte della classe lavoratrice ma nei casi migliori si limita a proporre una moderna “aristocrazia borghese” illuminata, che non mette in discussione il controllo sociale e politico dei mezzi di produzione dell’attuale classe dominante. Il “welfare state” non è implicito per il rossobruno, così come in generale alcuna forma di regime sociale avanzato. Qualora vi sia tale rivendicazione, essa non cessa di essere ambigua se non accompagnata dalla messa in discussione della struttura imperialista del proprio Paese.

 

Ben diverso è il discorso del “socialismo di mercato”, ossia di un regime in cui il potere politico resta saldamente in mano alla classe lavoratrice organizzata dalla sua avanguardia, il partito comunista. Il potere economico viene in questo caso spartito consapevolmente e in spazi più o meno limitati con la borghesia nazionale non come obiettivo strategico, bensì tattico, con lo scopo di sviluppare le forze di produzione, creando ricchezza sociale che, seppur redistribuita in maniera inizialmente diseguale, è una delle condizioni concrete per il futuro passaggio al socialismo.

 

Dietro la normale dialettica del dibattito democratico interno al campo marxista-leninista c’è sempre il pericolo del revisionismo, come mostra la crescita di certe correnti reazionarie nei partiti comunisti della seconda metà del ‘900: si pensi all’ala migliorista nel PCI, o alle correnti riformiste e nazionaliste rafforzatesi nel PCUS dagli anni ’70. Tale pericolo è ancora più accentuato oggi, sia per la fase di sbandamento ideologico (soprattutto europeo) conseguente al crollo del muro di Berlino, sia per i rischi insiti nel socialismo di mercato, che come abbiamo visto consentono in forme e modalità variegate il ripristino di alcuni elementi di un’economia capitalistica, con tutte le conseguenze moralmente corruttrici del caso. Il passaggio però non è automatico, ed in ultima istanza è il potere politico che ha l’ultima parola, il che ripropone il tema dell’adeguatezza ideologica del Partito come guida della classe lavoratrice.

 

SUI REGIMI NAZIONALISTI DEL “TERZO MONDO”

 

Un ulteriore tema di riflessione è dato da uno scambio di battute avuto con Francesco Alarico della Scala, uno dei maggiori esperti italiani della Repubblica Popolare Democratica di Corea, il quale mi ha messo in guardia da una semplificazione nell’uso del termine “nazionalismo”:

 

«Nonostante i suoi ovvi limiti di classe, il nazionalismo borghese può svolgere e ha svolto una funzione progressiva nei paesi colonizzati o in genere asserviti all’imperialismo straniero, mentre ha un ruolo completamente reazionario solo nelle metropoli imperialiste.


Proprio questo è il caso di Hitler e Mussolini, da te citati, che agirono in contesti dove la rivoluzione proletaria era, se non proprio all’ordine del giorno, una concreta possibilità che terrorizzava le classi sfruttatrici, e quindi assolsero non una funzione progressiva (di liberazione nazionale) ma regressiva (di contenimento e repressione della spinta rivoluzionaria delle masse lavoratrici), peraltro favoriti in ciò dal fatto che il movimento comunista dell’epoca non aveva saputo levare per primo la bandiera degli interessi nazionali e unire il destino della nazione alla causa del socialismo – come più volte osservato da Lenin e Stalin e contrariamente a quanto accadde vent’anni dopo.


In altre realtà (Libia di Gheddafi, Egitto di Nasser, Iraq di Saddam, Siria degli Assad, ecc.) regimi molto diversi ma che comunque si richiamavano ad analoghe dottrine corporativiste hanno dato vita ad esperimenti molto interessanti, di fronte ai quali che fare: preoccuparsi per le deviazioni rossobrune che potrebbero veicolare oppure riconoscere la loro funzione storica positiva e il loro contributo alla diffusione degli ideali socialisti sia pur non rigorosamente marxisti?

 

I comunisti coreani sono di questo secondo avviso, e da sempre intrattengono buoni rapporti con alcune forze nazionaliste non solo in patria e nel mondo post-coloniale ma anche in Giappone, in Europa e in America, e per questo incorrono spesso in accuse di “rossobrunismo” o di fascismo vero e proprio. Nondimeno la loro posizione è la più conforme alle tradizioni del movimento comunista mondiale intese in modo non folcloristico e nominale.»

 

Al suo intervento stimolante ho risposto nella seguente maniera:

 

«Tutte le realtà che possiamo definire “nazionaliste progressive”, quelle che hai citato ne sono esempi, sono alleate del movimento comunista nella lotta contro l’imperialismo internazionale, ma non le considero modelli marxisti-leninisti, seppur varianti nazionali del socialismo rispettabili per i differenti contesti.

 

Per quanto riguarda l’Italia credo che la soluzione resti uno sviluppo diverso del marxismo-leninismo, che non apra a tali versioni eclettiche che sono adatte per Paesi molto diversi da noi per cultura, società, economia, ecc.

 

È sbagliato comunque ritenerli rossobruni, così come bollare di rossobrunismo i comunisti che collaborino con loro in ambito nazionale o internazionale. Credo però che loro stessi sarebbero d’accordo a non considerarsi parte del movimento comunista internazionale.


Sono d’accordo con te comunque che i maggiori pericoli ideologici vengano da altri fronti, ma proprio perché il nemico è ancora forte non bisogna dare il minimo argomento ai suoi attacchi, evitando di fare errori (o provocazioni) come quelle dell’ultimo Preve che è arrivato a dare indicazioni di voto per la Le Pen.»

NON È MEGLIO RIGETTARE IL TERMINE ROSSOBRUNISMO?

 

No. La storia[10] ci ha mostrato che le classi reazionarie hanno sempre cercato di infiltrare i movimenti rivoluzionari, talvolta pianificando a tavolino strategie culturali per introdurre elementi revisionisti e degeneratori nel campo culturale proletario. Questo vale chiaramente in particolar modo per il marxismo e il movimento comunista, che sono stati e sono tuttora il nemico principale dell’imperialismo.

 

La borghesia dispone infatti dei mezzi politici, economici e mediatici per fomentare ad arte delle “deviazioni” politico-ideologiche, introducendo modelli “riformisti” o “rossobruni”, intendendo per questi ultimi, come abbiamo visto, delle teorie ibride tra socialismo e nazionalismo borghese che costituiscono forme degenerative della teoria rivoluzionaria in grado di confondere larghi strati della classe lavoratrice, sfruttando parole d’ordine e slogan solo apparentemente rivoluzionari. In questa maniera sono riusciti a “sfondare” casi famosi come Mussolini e Hitler, due esempi classici in tal senso, visto l’enorme sostegno che hanno ottenuto dal mondo industriale.

 

La categoria di “rossobruno” è quindi valida tutt’oggi? Si. Pur essendo nata in un contesto borghese, essa esprime una posizione politica che per anni è stata respinta, seppur con altri termini, dal movimento comunista internazionale. Oggi resta valida in questa accezione, come arma ideologica a disposizione del movimento operaio, tenendo conto però che nella confusione ideologica in cui versa attualmente il movimento comunista, specie quello italiano, tale categoria è stata fatta propria dai think tank della borghesia liberale per delegittimare paradossalmente soprattutto i comunisti.

 

Il che non deve stupire troppo, dato che la borghesia liberale è già riuscita a conquistare la categoria analitica della “sinistra”, bollando i comunisti prima come “estrema sinistra” (anni ’90 e inizio ’00), poi, negli ultimi tempi, di fronte ad alcuni nuovi fermenti teorico-politici che rischiano di incrinare la narrazione del totalitarismo liberale, come “rossobruna”.

 

Per queste ragioni credo che in alcuni casi sia utile mantenere la categoria di rossobrunismo, specie laddove ci siano dei casi palesi di revisionismo anticomunista. Occorre insomma sempre mantenere la guardia imparando a muoversi in questo «mondo grande e terribile» (cit. Gramsci).

 

Alessandro Pascale



[1]     A. Scanzi, L’ossessione “rossobruna”: come etichettare il nemico, Ilfattoquotidiano.it, 31 dicembre 2018, disp. su https://infosannio.wordpress.com/2019/01/01/andrea-scanzi-lultimo-insulto-della-sinistra-a-chi-non-vota-bene-sei-un-rossobruno-si-continuano-a-non-indovinarne-mezza/.

[2]     A. Pascale, Risposta alle accuse di Iskrae su Berlinguer e rossobrunismo, Intellettualecollettivo.it, 30 dicembre 2018, disp. su http://intellettualecollettivo.it/risposta-alle-accuse-di-iskrae-su-berlinguer-e-rossobrunismo/.

[3]     La nuova edizione, riveduta, ampliata e corretta, è in uscita per le Edizioni Paginauno.

[4]     Un personaggio diventato famoso grazie al bel libro E. Carrère, Limonov, Adelphi, 2012.

[5]     F. Chernov, Il cosmopolitismo borghese e il suo ruolo reazionario, Bol’ševik, n° 5, 15 Marzo 1949, disp. su http://intellettualecollettivo.it/la-lotta-mondiale-contro-limperialismo-cosmopolita/.

[6]     V. Giacché, Per una sovranità democratica e popolare. Cioè costituzionale. L’ultimo libro di Alessandro Somma: “Sovranismi”, Marx21.it, 3 gennaio 2019, disp. su  https://www.marx21.it/index.php/internazionale/europa/29467-vladimiro-giacche-per-una-sovranita-democratica-e-popolare-cioe-costituzionale-lultimo-libro-di-alessandro-somma-sovranismi.

[7]     C. Fantuzzi, Fusaro: “Rossobrunismo e Interesse Nazionale: Armi Culturali Contro il Capitalismo mondialista”, Ticinolive.ch, 30 marzo 2017, disp. su http://www.ticinolive.ch/2017/03/30/fusaro-rossobrunismo-interesse-nazionale-armi-culturali-capitalismo-mondialista/.

[8]     Si veda ad esempio l’intervista al leader di Forza Nuova Di Stefano sul sito dell’associazione culturale di Fusaro: A. Pepa, Di Stefano: “fascismo e antifascismo? Non c’è nessuna guerra civile in atto: è una truffa montata ad arte per distrarci”, Interessenazionale.net, 1 marzo 2018, disp. su  https://www.interessenazionale.net/blog/di-stefano-fascismo-e-antifascismo-non-c-nessuna-guerra-civile-atto-truffa-montata-ad-arte.

[9]     D. Fusaro, Il vero rivoluzionario: idee di sinistra, valori di destra, Diegofusaro.com, 5 giugno 2018, disp. su https://www.diegofusaro.com/idee-sinistra-valori-destra/.

[10]   Su questo non posso che rimandare alle ricerche presentate in A. Pascale, In Difesa del Socialismo Reale e del Marxismo-Leninismo, Intellettualecollettivo.it, 15 dicembre 2017, disp. su http://intellettualecollettivo.it/scarica-in-difesa-del-socialismo/. Ulteriori elementi sono aggiunti nel volume A. Pascale, Il totalitarismo liberale. Le tecniche imperialiste per l’egemonia culturale, La Città del Sole, Napoli 2019.