di Emiliano Alessandroni per Marx21.it
L’editoriale di Rossana Rossanda [1] esprime una forma di “dogmatismo storico” di cui ho già avuto modo di accennare in un mio recente articolo sulla questione libica e le configurazioni assunte dai “cesarismi” nel corso della storia [2]. In questo come in altri casi ella parte da un’idea personale di comunismo che non intende mettere assolutamente in discussione e al cospetto della quale tutte le esperienze del socialismo reale del Novecento, gli intrepidi tentativi passati e presenti di costruire società post-capitalistiche, le esperienze vietnamita, cinese, cubana, crollano inesorabilmente come castelli di carta, o come deplorevoli campioni di fronte ad un disegno incorruttibile. Anziché elaborare e modificare la propria idea a partire dalla realtà e dalle miriadi di contraddizioni e complessità che essa presenta, la Rossanda vorrebbe tentare di costringere la realtà entro un’idea indiscutibile e preconcetta (la sua), che non ritiene necessario correggere. Da qui alla teratologia il passo è breve.
Quell’incomprensione delle contraddizioni oggettive e dei conflitti fra le libertà attraverso cui passano i processi di emancipazione nel corso della storia, e che ha sempre costituito un deficit teoretico per il liberalismo, ha contrassegnato, a lungo andare, tutta la storia della sinistra italiana degli ultimi decenni, spingendola sempre più lontano dalla sua medesima tradizione culturale. Già Marx aveva compreso, a suo tempo, come quanto siamo soliti definire “dittatura” e “democrazia” non fossero invero fenomeni inconciliabili e come spesso la storia imponesse condizioni per le quali istanze concretamente democratiche dovessero necessariamente passare per strutture sociali e risoluzioni dittatoriali [3]. Era stata, d’altronde, una indiscutibile dittatura (quella francese) ad aver abolito per la prima volta nella storia l’istituto della schiavitù nelle colonie e varato una carta costituzionale che prevedeva l’introduzione del suffragio universale (maschile). Nei Quaderni del carcere, come ho ricordato altrove [4], Gramsci parla della necessità di distinguere fra cesarismi progressivi e cesarismi regressivi, chiarendo come molto spesso, malgrado le nostre convinzioni volontaristiche, la scelta ricada oggettivamente su uno dei due, e ribadendo la tesi marxiana per la quale in molti casi istanze democratiche si trovino a dover passare attraverso sistemi, giunture e decisioni cesaristiche per poter realizzarsi, o soltanto sopravvivere. Ma tali riflessioni di considerevole portata teorica vengono oggi facilmente liquidate come retaggi di un passato con cui non vale più la pena misurarsi. Così facendo, il materialismo storico è stato abbandonato e al suo posto ha preso piede, all’interno della sinistra italiana, una sorta di moralismo piccolo-borghese, radical chic, a cui ben prima dei processi di emancipazione sta a cuore la presentabilità pubblica e la conciliabilità delle proprie posizioni con l’etica occidentale, sia essa o meno un’etica prevalentemente americanizzata. È in questo suo progressivo avvicinamento ad una generale forma di moralismo piccolo-borghese che la Rossanda dovrebbe cercare le responsabilità soggettive per le quali «il manifesto non è riuscito a suscitare più interesse ma meno»[5]. Contrariamente al materialismo storico la cui propensione è quella di misurarsi con le contraddizioni oggettive e calarsi in esse, il moralismo mantiene piuttosto un atteggiamento da “anima bella” assestando un colpo al cerchio e uno alla botte, sottraendosi al conflitto reale in corso e mantenendo una posizione morale intatta. Così, se si condanna la guerra, bisogna condannare non soltanto il paese che la scatena, ma anche quello che la subisce. Da ogni conflitto reale, il moralismo deve deplorare ambedue le polarità in lotta: se biasima i sistemi sociali a base capitalistica, deve con altrettanta o forse maggior forza, per non rischiar di dar spazio ad equivoci, biasimare anche ogni tentativo, più o meno difficoltoso e contraddittorio, di superare quelle forme sociali: se denuncia il “capitalismo reale” deve altresì denunciare il “socialismo reale”, se critica gli Stati Uniti, deve affrettarsi a criticare Cina e Cuba. Ma a questo punto risulta legittimo domandarsi: vi è qualcosa che riesce a salvarsi dalla tendenza onnicomprensiva della denuncia? La risposta è sì: si salva la propria idea di comunismo, che rimane irrealizzata e, come tale, perennemente sicura e al riparo dagli spargimenti di sangue che impregnano la realtà concreta. Ma questa idea di comunismo non soltanto non ha nulla a che vedere con quella di Marx, per il quale il comunismo «non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi», bensì «il movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti»[6], ossia un’istanza concreta che, come ricorda Engels, «non muove da princìpi ma da fatti»[7]. Questa idea postmoderna di comunismo, a ben vedere, non riesce neppure a costituire un orientamento verso i principali eventi politici del nostro presente storico, contribuendo a suscitare confusione nelle menti dei lettori: se si assume come principio la condanna delle sedicenti “guerre umanitarie” riconoscendole come guerre di conquista e si decide poi di sostenere a priori ogni rivolta in ogni paese, indipendentemente dalla sua natura politica, come ci si comporta laddove è proprio la rivolta ad invocare l’intervento della “guerra umanitaria”? E come ci si comporta allorché si scopre che fra rivolta popolare e “guerra umanitaria” esiste una relazione sotterranea, quando non strettamente gerarchica o preparatoria, quantomeno di reciproca funzionalità? A queste come ad altre questioni il comunismo moralista della Rossanda non riesce a fornire risposta, rivelandosi inadeguato a chiarire la complessità e l’intreccio dei conflitti che contrassegnano il nostro presente storico. Il Manifesto è in crisi perché si è rivelato incapace di fornire al lettore un’ottica prospettica convincente e realmente alternativa a quella propagata dagli altri principali quotidiani nazionali. Fatta eccezione per alcuni articoli, si è rivelato sempre più soltanto il giornale “dei buoni propositi” dal quale i lettori non riuscivano a trarre informazioni utili e realmente chiarificatrici dei conflitti in corso.
Scriveva Edoardo Sanguineti in una sua poesia: «il socialismo reale, con tutto quello che si può obbiettare, me lo preferisco al socialismo irreale, sempre»[8]. Nell’esatto rovesciamento di questa asserzione si può riassumere l’ottica prospettica della Rossanda e la linea che, in un certo qual modo, ha via via impresso al Manifesto. Come che sia, la fede cieca che ella continua a conservare nei confronti della propria idea di comunismo, non soltanto le impedisce di comprendere la crisi del suo stesso giornale, ma la spinge altresì a pesanti dichiarazioni che testimoniano proprio il suo livello di ostinazione e di attaccamento a quella idea: rispetto a quest’ultima il mondo reale è talmente distante che la Rossanda, invece di ritenere necessaria un’umile e meditata rettificazione d’essa idea, preferisce concludere come oggi, «almeno nei tempi brevi» (e cioè almeno fino a quando il mondo non deciderà di conformarsi al suo disegno) d’esser comunisti «non si possa dirlo più»[9]! Intonata con la generale crisi dell’oggettivismo che contrassegna l’ideologia della nostra epoca, ancora una volta ci troviamo di fronte ad uno dei tanti casi in cui l’oggetto finisce per capitolare di fronte alle irremovibili pretese del soggetto.
NOTE