Gramsci, mille e una eresia

di Luigi Cavallaro

dibattitosugramsci thumbSicuramente, un «anno gramsciano» il 2012: cioè un anno di polemiche intorno alla figura di Antonio Gramsci. Alimentate da saggi e ricerche che hanno avuto ampia eco sulla stampa quotidiana, esse hanno dato conferma di una perdurante attualità del comunista sardo che di per se stessa necessiterebbe di una spiegazione, essendo ormai trascorsi ben settantacinque anni dalla sua morte e oltre venti dall’eclissi del movimento internazionale di cui il partito che egli aveva concorso a fondare aveva costituito peculiare ed importante espressione. 


Beninteso, non è che la contesa su Gramsci sia in sé una novità. Come documenta la preziosa ricostruzione di Guido Liguori, almeno dal secondo dopoguerra il dibattito pubblico ha visto contrapporsi due diverse letture dell’opera gramsciana: da un lato, c’è stata quella di parte comunista, che si è accompagnata alle diverse «svolte» politiche e culturali messe in atto dal Pci nella sua storia settantennale e che in Gramsci ha visto di volta in volta il «capo della classe operaia», il «martire antifascista», il «padre della politica di unità» del secondo dopoguerra, l’ispiratore della «via italiana al socialismo» e, giù giù, il critico ante litteram del totalitarismo sovietico, l’alfiere dell’«eurocomunismo» e perfino il pensatore di un altro comunismo possibile dopo la crisi dei «socialismi reali»; dall’altra parte, c’è stata la lettura liberale, liberalsocialista e lato sensu «azionista», che con accenti (e soprattutto in tempi) differenti ha proposto ora un Gramsci irriducibilmente, inemendabilmente e totalitaristicamente «comunista», dunque irrecuperabile alla causa della democrazia, ora invece un Gramsci più intellettuale che politico, costitutivamente «eretico» e addirittura «liberale», quando non proprio «libertario».

Un approdo estremo 

La peculiarità delle polemiche dell’anno scorso, innescate specialmente dalla pubblicazione di due saggi di Franco Lo Piparo e Giuseppe Vacca, sta semmai nell’oscillazione fra due sponde che appaiono egualmente inattendibili. Da una parte, infatti, si insiste (è il caso di Vacca) nell’accreditare uno scollamento di Gramsci rispetto al leninismo, quale almeno si delinea dopo la svolta staliniana del ’29, salvo precipitare nell’assurdo di supporre che Palmiro Togliatti e Felice Platone, negli anni compresi tra il 1947 e il 1949 (e dunque contemporaneamente al massimo dispiegarsi della più dura ortodossia staliniana), avrebbero dato alle stampe le riflessioni di un «eretico» sospetto di filotrockismo, facendone addirittura lo strumento intellettuale principale per pensare «la formazione e la politica della nuova classe dirigente italiana», come recitava la fascetta editoriale apposta alla prima edizione einaudiana delle «Note sul Machiavelli» (1949). Dall’altra parte, invece, si pretende (è il caso di Lo Piparo) di svolgere fino all’estremo il tema della presunta «eresia» gramsciana in direzione di un approdo nientemeno che al «liberalismo» (sia pure nella forma ossimorica di un «comunismo liberale»), salvo dover supporre che, non potendosi dare alle stampe la riflessione compiuta di uno che, in realtà, dal comunismo si era distaccato definitivamente, Togliatti e Platone avrebbero addirittura occultato o distrutto qualcuno dei quaderni gramsciani: un’ipotesi che la quasi totalità degli studiosi gramsciani – con Gianni Francioni in testa – ha definito «destituita di ogni fondamento». 

Che si tratti in entrambi i casi di interpretazioni insostenibili non è difficile mostrare, e l’attenta ricostruzione del dibattito da parte di Liguori (che non rinuncia, beninteso, a dispiegare tra le righe la sua peculiare interpretazione del «ritmo del pensiero in isviluppo» del pensatore sardo) offre più d’un ausilio in proposito. In realtà, Gramsci è un leninista, per i motivi che a suo tempo aveva spiegato Togliatti e che Carmine Donzelli è tornato nitidamente a ribadire nella «Prefazione 2012» alla riedizione del suo commentario alle note gramsciane sul Machiavelli. 

Di più: giusta la decodifica compiuta ormai vent’anni addietro in un importante studio di Nicola De Domenico, bisogna riconoscere che Gramsci si mostra sostanzialmente consentaneo anche rispetto alla «svolta» staliniana del 1929, almeno per come gli si squaderna dopo aver appreso da una rivista inglese (inviatagli dal solito Sraffa) della discussione filosofica suscitata dal discorso di Stalin agli specialisti agrari – un discorso che ai suoi occhi costituisce il prodromo del complemento egemonico necessario rispetto al varo del primo piano quinquennale. Ne fa fede tutta l’elaborazione del quaderno 11 (a cominciare dal «magnifico saggio» con cui si sarebbe poi aperto il primo volume dell’edizione tematica einaudiana) e della seconda parte del quaderno 10, in cui non soltanto Gramsci spiega come i «recenti sviluppi» della discussione filosofica in Urss abbiano superato l’inconsistenza teoretica e il codismo politico dei «destri» (donde la critica a Bucharin), ma soprattutto come essi siano in grado di portare la filosofia della praxis a «superare», incorporandole, le filosofie precedenti (e qui si situa il confronto con Croce, che – dal versante liberale – analoga operazione aveva tentato rispetto al marxismo). 

Il dissidio di Gramsci rispetto alle posizioni assunte dal Centro estero del Pcd’I, così come dalla Terza Internazionale, concerne piuttosto il modo in cui «tradurre» nazionalmente l’esperienza sovietica, e si appunta sulla linea del «socialfascismo», che a Gramsci pare settaria e controproducente: questo ci dicono le testimonianze dell’epoca, prima fra tutte il rapporto al partito redatto nel 1933 da Athos Lisa (già recluso con Gramsci a Turi). Sotto questo profilo, anzi, bisogna riconoscere che il confronto che i Quaderni instaurano con Croce rappresenta la premessa per tradurre in lingua nazionale gli insegnamenti del «più grande teorico moderno della filosofia della prassi» (Lenin, certo, ma così come interpretato da Stalin): le categorie di «storia etico-politica» e di «rivoluzione passiva» sono infatti decisive per il lavoro di rielaborazione cui Gramsci si dedica a partire dalla primavera del 1932 e che – attraverso la riscrittura di appunti già presi e la stesura di nuovi testi – porta alla compiuta sistemazione della teoria degli intellettuali (quaderno 12), del partito (quaderno 13) e delle forme di una possibile rivoluzione passiva in Occidente (quaderno 19), non senza che vengano dedicate chiose assai critiche a chi – come Ezio Riboldi, parlamentare comunista anche lui carcerato a Turi – pretendeva di rinvenire dell’America fordista il «faro» della nuova civiltà (quaderno 22).

Lettere critiche 

Naturalmente, al dissidio politico si aggiunsero rancori e diffidenze maturate sul piano dei rapporti personali. Gramsci non dovette mai digerire né il rifiuto di Togliatti di inoltrare nel ’26 la lettera scritta al gruppo dirigente del Pc sovietico, né che Togliatti non avesse impedito che gli si recapitasse la «famigerata lettera» firmata Ruggero Grieco, né ancora che il partito tentasse di accreditarsi sulla stampa internazionale come artefice dei tentativi di liberazione, determinandone (o comunque concorrendo a determinarne) rallentamenti o fallimenti. Ed è proprio l’oggettività del dissidio con il Centro estero del Pcd’I che può giustificare entro certi limiti una lettura «in codice» della famosa lettera scritta da Gramsci il 27 febbraio 1933 per la moglie Giulia: nei limiti in cui quella lettera testimonia di un giudizio critico non certo nei confronti dell’orizzonte politico comunista (come ha sostenuto implausibilmente Lo Piparo), ma più semplicemente dei suoi compagni di partito, giudicati inaffidabili e fors’anche non troppo interessati alla prospettiva di una sua liberazione. Del resto è la stessa Tania che, trasmettendo la lettera a Sraffa (affinché la inoltrasse al Centro estero), la definì «un capolavoro di lingua esopica», e scrivendone a Gramsci disse di aver compreso perfettamente che i riferimenti della lettera a Giulia «non si riferiscono punto a ella». E anche se è vero che a tutt’oggi nessuna delle decodifiche proposte può andare esente da critiche, non si può non riconoscere che nessuna interpretazione letterale di quella lettera appare ormai ulteriormente sostenibile. 

Resta in ogni caso il fatto che, così come è inverosimile pensare a un Gramsci approdato al liberalismo (e magari pentitosi davanti a Mussolini e convertito al cattolicesimo in articulo mortis: anche codeste scempiaggini è toccato leggere sulle pagine sedicenti «culturali» di Repubblica e del Corriere della Sera), perfino illogico è supporre che Togliatti e Platone, nell’immediato dopoguerra, con Stalin al massimo della sua potenza, si dedicassero a un monumentale lavoro di sistemazione del lascito intellettuale di un… antistalinista! O ancora che nel 1937, alle soglie del Grande Terrore, Togliatti potesse permettersi di appellare quel medesimo antistalinista «capo della classe operaia italiana» senza tema di finire per ciò solo sotto un metro di terra. 

Semmai, quella di Togliatti (senza il quale, nota a ragione Liguori, «il Gramsci che tutto il mondo conosce forse non sarebbe mai esistito») sembra la partita di un raffinato giocatore di scacchi. Che capisce a un certo punto che deve chinare il capo e rinunciare a quella «traduzione in lingua nazionale» che pure era necessaria affinché la rivoluzione in Occidente non restasse un flatus vocis, ma si preoccupa al contempo che la «via giusta» continui ad essere dissodata teoreticamente dal carcere dal «capo della classe operaia italiana», al quale garantisce supporto intellettuale e affettivo, con l’intento di tornare a percorrere quella stessa via quando i tempi fossero stati più propizi. 

Letta in quest’ottica, la sua «famigerata» lettera a Dimitrov del 25 aprile 1941 (nella quale si legge che «i quaderni di Gramsci contengono materiali che possono essere utilizzati solo dopo un’accurata elaborazione» perché in «alcune parti potrebbero essere non utili al partito»), lungi dal costituire la prova di una proditoria volontà censoria nei confronti dell’antico compagno, come invece sostenuto da Lo Piparo, potrebbe spiegare il lavoro di «smontaggio» che l’edizione tematica dei Quaderni perpetrò, ad esempio, sulle tesi gramsciane circa il fascismo: perché – come ha rimarcato ultimamente anche Luciano Canfora – di certo era estranea alla koiné cominternista l’idea gramsciana che le riforme di struttura attuate dal corporativismo fascista, a cominciare dall’accresciuto peso dello stato nella direzione e gestione dei processi economici, si muovessero oggettivamente (ossia in forma «passiva») nella stessa direzione della pianificazione sovietica. 

Che questa per Gramsci fosse la «traduzione» corretta di Lenin non pare francamente dubbio: vi sono ampie evidenze testuali che egli concepisse l’egemonia in chiave totalitaria, seppure in un’accezione nutrita dalla fiducia che fosse possibile costruire una «società regolata» in cui la distinzione tra «società politica» e «società civile» venisse meno in grazia di un «consenso spontaneo» alle dinamiche ideologiche che la organizzano (ciò che invece il fascismo era costitutivamente incapace di fare).

Un revenant 

D’altra parte, se è vero che l’accusa che è sempre stata rivolta da parte liberale all’assetto dei rapporti di produzione venuto fuori dalla «costituzione economica» degli anni ’30 è la sua potenziale vocazione totalitaria (una vocazione che in Italia, ma non solo, avrebbe toccato il suo apice a metà degli anni ’70, per poi dileguare nei decenni successivi sotto i colpi della restaurazione capitalistica e della «modernizzazione» post-sessantottina), possiamo forse comprendere le ragioni profonde di questa continua riapparizione degli «spettri di Gramsci». Se ha ragione Derrida a suggerire che non c’è fantasma né divenir-spettro dello spirito senza un «ritorno al corpo», senza cioè un’«incorporazione paradossale», potremmo infatti azzardare l’ipotesi che è solo il residuo del potere statuale tuttora «incorporato» nelle strutture pubbliche sopravvissute alla grande stagione privatizzatrice dell’ultimo trentennio a permettere la continua riapparizione degli spettri di Gramsci e con lui di Marx e Lenin, vanificando così il «lavoro del lutto» della borghesia finanziaria e degli intellettuali suoi lacchè. 

Si dovrebbe aggiungere che quel potere è oggi come mai necessario per tornare a reprimere le pretese di dominio del capitale finanziario e che pensare di farne a meno in nome di fiabesche «autorganizzazioni dal basso» equivale nei fatti a rinunciare alla stessa possibilità di trasformazione della società e a ridurre la propria azione «rivoluzionaria» all’agitazione propagandistica circa l’imminenza di un fantomatico «crollo» del capitalismo. Ma al riguardo proprio Gramsci ha detto parole definitive, e l’originale suona sempre meglio della parafrasi.