di Giacomo Tarascio, Historia Magistra
A PROPOSITO DEGLI ELOGI DI ROBERTO SAVIANO A UN LIBRO SCIAGURATO
Elogio dei riformisti [“la Repubblica”, 28 febbraio 2012]: così si intitola la recensione che Roberto Saviano dedica al libro di Alessandro Orsini Gramsci e Turati. Le due sinistre (Rubbettino, 2012). Il recensore definisce quella di Orsini niente meno che «la più bella riflessione teorica sulla sinistra fatta negli ultimi anni»; è impossibile, dunque, non cogliere dai toni dell’articolo la piena adesione ideologica a delle tesi edificate su una lettura grossolana dei testi gramsciani. Nel suo libro Orsini ricostruisce in maniera a dir poco discutibile la divisione fra le due anime della sinistra italiana: quella riformista e quella rivoluzionaria, impersonate rispettivamente da Turati e Gramsci.
Il ritratto che esce da questo confronto interno alla sinistra è quello di un’ala tollerante, realista e tutta protesa al benessere dei lavoratori contrapposta all’ala estremista, intollerante, dogmatica e violenta. Principali animatori rivoluzionari sono Antonio Labriola, Palmiro Togliatti e, appunto, Gramsci; le attenzioni di Orsini si concentrano in particolare su quest’ultimo, reo di aver educato all’odio intere generazioni di militanti. Questa costruzione avviene attraverso ritagli presi qua e là in maniera funzionale allo scopo di dimostrare l’esistenza di una cosiddetta “pedagogia dell’intolleranza”, concetto ricavato dall’autore senza indicare se le parole estrapolate si riferiscono al Gramsci studente e poi giornalista, al politico o allo scrittore dei Quaderni. Orsini non è nuovo a questo genere di pseudo costruzioni storico-politiche: ci aveva già deliziato con l’evitabilissimo Anatomia delle Brigate Rosse (Rubbettino, 2009), di cui abbiamo parlato nell’editoriale del numero 7 della nostra Rivista. Fulminato da tanto acume storiografico, Saviano non ha resistito alla tentazione di irrorare la carta e il web con l’ennesimo sermone, spinto anche da un senso di opinionismo onnipotente di chi tutto sa e tutto può dire, al punto da criticare, dando l’impressione di non averne mai letto una riga, Gramsci, l’italiano contemporaneo più letto e studiato fuori dai confini natali. L’editorialista de «la Repubblica» prende per buone tutte le citazioni gramsciane e i concetti contenuti nel libro, replicandone così la banalità e l’inconsistenza metodologica. Per rimediare a questi difetti bastava compiere una semplice e superficiale ricerca in rete, dove le opere gramsciane sono tutte disponibili gratuitamente e in formato digitale. Sarebbero stati sufficienti pochi clic a Saviano per risparmiare a sé stesso una pessima figura e a noi un saggio di arrogante ignoranza.Dunque immaginiamo Saviano afflitto, come lui scrive, da domande del tipo «come si coniugano le due anime della sinistra, quella riformista e quella rivoluzionaria?» e «che genere di dialogo c’è stato tra loro?»: per fortuna dello stato d’animo del Nostro, possiamo affermare con sicurezza che, viste le risposte, l’angosciosa riflessione non si è protratta oltre i cinque minuti. Nella sua recensione Saviano si dice scosso dalla scoperta delle parole con le quali Gramsci «definiva un avversario, non importa quale: “La sua personalità ha per noi, in confronto della storia, la stessa importanza di uno straccio mestruato”». E invece no! Importa a chi erano rivolte quelle parole, eccome! È qui che si trova la differenza tra lo storico vero e l’ideologo opportunista. La frase incriminata è rivolta al conte Delfino Orsi, all’epoca direttore della «Gazzetta del Popolo» e futuro senatore fascista, ed è tratta da un articolo di Gramsci pubblicato sull’edizione torinese dell’«Avanti!» il 19 aprile 1916. Ne I moventi e Coppoletto il giovane redattore della testata socialista – quest’ultima, purtroppo, com’è ben noto dalle cronache giudiziarie, negli ultimi anni preda di un degrado che ne ha offuscato l’antico valore – risponde al giornalista della «Gazzetta del Popolo» Giuseppe Dardano che accusava il giornale socialista di attaccare in maniera strumentale Orsi, implicato in uno scandalo di corruzione che coinvolgeva gli organizzatori dell’Esposizione Universale di Torino del 1911. La redazione dell’«Avanti!» infatti conduceva da tempo una campagna stampa di denuncia contro coloro che come Orsi si erano arricchiti con l’evento, ma in tutto questo Dardano non riusciva a scorgere che un attacco da parte di pacifisti a uno dei principali propagandisti dell’interventismo. Il quotidiano socialista era a sua volta sotto attacco – mediatico, ma non solo – in quanto rappresentava una delle pochissime voci contrarie alla guerra all’interno del panorama dell’informazione; difatti parliamo degli anni della Prima guerra mondiale, contesto nel quale la «Gazzetta del Popolo», all’opposto, costituiva uno dei punti di riferimento del bellicismo e dell’interventismo nazionale: l’adesione di questo giornale alle ragioni del conflitto era tale da portarlo a mentire ai suoi lettori, al punto da nascondere la pessima conduzione delle operazioni militari da parte dei comandi militari italiani. Da lì a pochi mesi, agosto 1917, Orsi e il suo giornale si schierarono dalla parte della sanguinaria repressione (50 morti) che domò la rivolta popolare scoppiata a Torino in seguito alla mancanza di pane; nonostante la loro natura spontanea i moti diedero alle autorità il pretesto per arrestare decine di dirigenti e militanti socialisti.Anche il terzo esempio gramsciano usato da Saviano si riferisce allo stesso periodo: «arrivò persino a tessere l’elogio del “cazzotto in faccia” contro i deputati liberali». È da notare che la formula cazzotto in faccia venga posta fra virgolette come fosse una citazione, tuttavia tale formula non è mai stata usata da Gramsci; facciamo finta che non si tratti di malafede e prendiamo la cosa come una maldestra semplificazione. L’articolo in questione, a cui si riferisce lo stesso titolo di Saviano, si intitola Elogio del cazzotto, pubblicato sull’«Avanti!» il 12 giugno 1916; anche in questo caso la polemica gramsciana era rivolta verso un accanito interventista, Giuseppe Bevione, famoso per i suoi reportage fasulli dal fronte libico e, guarda caso, futuro senatore fascista. L’articolo si riferisce a una rissa scoppiata alla Camera dopo una manifestazione di opposizione alla guerra alla quale Bevione rispose calunniando i socialisti, secondo lui pagati dal nemico: nella zuffa che ne seguì Bevione venne rispettosamente colpito dal tollerante pugno del riformista, e turatiano, Nino Mazzoni. Gramsci non condanna il gesto, ma allo stesso tempo nel suo commento non c’è traccia di incitamento alla violenza: «non siamo entusiastici ammiratori del diritto del pugno; eppure quei pugni vibrati robustamente sul ceffo di Bevione ci riempiono di giubilo e di ammirazione». Quello che Gramsci contesta, piuttosto, è la volontà del deputato Bevione di riparare al danno attraverso il ricorso al duello.Alla luce di un contesto storico e politico così complesso come quello dell’Italia impegnata nella Grande guerra stride, e non poco, la pretesa di toni pacati e politically correct: probabilmente al duo di storici improvvisati sfugge la complessa drammaticità di un periodo nel quale dichiararsi socialista e contrario alla guerra significava, nei casi lievi, subire pestaggi dai gruppetti nazionalisti o essere cacciati dal proprio posto di lavoro (insegnamento scolastico e universitario inclusi), mentre, nei casi peggiori, si arrivava all’accusa di tradimento della Patria e all’imprigionamento. In uno scenario inquinato dalle menzogne della propaganda bellicista per il giovane giornalista sardo la verità diveniva un bene da difendere a tutti i costi, anche attraverso la polemica e le parole più dure; in questa battaglia, quasi solitaria, le uniche armi di Gramsci erano la serietà e la disciplina intellettuale, qualità innegabili da parte di chiunque legga i suoi articoli di quel tempo senza malafede e preconcetti. Qualità, quelle di Gramsci, che non si possono collocare con sufficienza sotto la voce «influenza della retorica politica dell’epoca»; queste mancanze appaiono a dir poco gravi per chi ribadisce spesso di essere stato l’allievo di uno storico del valore di Francesco Barbagallo.L’ultimo riferimento che analizziamo non ha collegamenti con fatti come quelli sopra esposti in quanto si tratta di una polemica interna al mondo accademico-culturale. L’articolo I criteri della volgarità [in Scritti giovanili 1914-1918, Einaudi 1958], apparso non firmato sul «Grido del Popolo» il 23 marzo 1918, è una risposta polemica all’economista Giuseppe Prato che dalle pagine del «Riforma Sociale» accusava il quotidiano socialista di volgarità: l’oggetto della polemica erano gli articoli critici e anche ironici che il «Grido» aveva dedicato al Prof. Achille Loria, simbolo di approssimazione metodologica e scarso rigore scientifico, al punto tale che Gramsci creò una categoria, il «lorianismo» – all’interno della quale le riflessioni teoriche di Orsini e quelle pubblicistiche di Saviano non faticherebbero ad entrare. Anche in questo caso ci troviamo di fronte a una frase strappata dal suo contesto e privata del suo significato in maniera strumentale. L’espressione «per noi chiamare uno porco se è un porco, non è volgarità, è proprietà di linguaggio» è usata da Gramsci per sottolineare in maniera forte il suo pensiero e non per insultare un avversario politico; ciò è possibile dedurlo dalla riflessione che precede immediatamente la frase estrapolata: «il Prato chiama volgari le espressioni, i termini grammaticali. Per noi sono volgari le azioni in sé, non le parole». L’azione contro la quale si scagliava Gramsci era la volgarizzazione delle teorie marxiane da parte di Loria, vero e proprio idolo per i redattori della «Riforma sociale». In quella frase vi era dunque la volontà di difendere la linea critica del «Grido del Popolo». Nell’articolo contestato da Prato vengono citati ampiamente i giudizi di Benedetto Croce, che sovente criticava in maniera dura e sarcastica Loria: dobbiamo concludere che dietro Gramsci si nascondeva una pedagogia dell’intolleranza di matrice crociana? Il liberale Croce, guarda caso studente di Labriola, era dunque un rivoluzionario sotto mentite spoglie? Lasciamo questi ardui interrogativi alle brillanti teorie di Orsini che, ne siamo certi, prenderà tali indicazioni sul serio.I pezzi sopra citati insieme a molti altri articoli del periodo torinese costituiscono alcune fra le più belle pagine gramsciane, scritti con acuta verve polemica e intelligenza; articoli spesso ironici e graffianti che consigliamo di leggere a tutti, ma con la necessaria cautela, in quanto non desideriamo ritrovarci con dei lettori trasformati in sanguinari brigatisti.Veniamo al tema centrale della rapida ricostruzione di Saviano, e soprattutto del libro di Orsini, cioè la contrapposizione tra Gramsci e Turati: questa avviene confrontando gli articoli giovanili del primo con i testi maturi e autocelebrativi del leader socialista. È difficile non vedere disonestà dietro questa “metodologia”, tesa a dare un’immagine oleografica del riformismo italiano. Evidentemente i due non sanno o, presumibilmente, non vogliono vedere oltre gli “insulti”; infatti, nella pubblicistica gramsciana potrebbero trovare la serrata critica ai pregiudizi antimeridionali e all’opportunismo politico che hanno contraddistinto sovente Turati e i riformisti del Psi nel primo quarto di secolo.Il ritratto di Turati che viene proposto è dunque lontano dall’effettiva concretezza storica avuta dalla politica del leader riformista. Basterebbe parlare della considerazione che Turati aveva per la questione meridionale, tale da portarlo a parlare di «due Italie nell’Italia» e a lamentare il «forzato e antifisiologico accoppiamento del decrepito mezzodì coll’acerbo settentrione»: non proprio un modello di unità e tolleranza. Naturalmente noi non cadiamo nell’errore di Orsini e Saviano, quindi le idee di Turati le leggiamo all’interno del loro contesto e facciamo notare come queste risentissero del clima positivista che caratterizzò il riformismo italiano e il Psi fin dalla sua fondazione: vizio d’origine, il determinismo meccanico e loriano, che portò l’ala riformista a farsi interprete politico delle idee razziste che provenivano da Cesare Lombroso e dalla sua scuola, per i quali la questione meridionale aveva origini biologiche ed era quindi irrisolvibile. Per Turati e i riformisti fu breve il passo dalla concezione del «Mezzogiorno palla di piombo» dello sviluppo all’accordo protezionistico, filo-siderurgico e filo-agrario, con il governo di Giovanni Giolitti, costato al Sud d’Italia decenni di ritardo economico. Fatti e parole che a chi, come Saviano, si professa debitore al meridionalismo di Gaetano Salvemini, non dovrebbero sfuggire. E proprio lo storico di Molfetta non riservava certo parole al miele per Turati e i riformisti del Psi. Il vizio d’origine del riformismo, tuttavia, non si esaurisce nell’antimeridionalismo e nella connivenza col potere economico, che da oltre un secolo di storia frutta ai suoi esponenti rendite di posizione politica e, purtroppo, non solo quella: il lorianismo riformista ha lavorato in profondità e lo si può considerare il canale principale della diseducazione politica che ha colpito la sinistra in Italia, oggi incapace di leggere il suo presente con una posizione politica netta.Per quel che riguarda la parte politica della recensione, date le premesse teoriche, è difficile prendere sul serio gli insulti e le invettive che il povero Saviano rivolge contro la tradizione comunista italiana: mescolare rozzamente nello stesso calderone Pci, Hamas, Hezbollah, pacifisti, Br, Gramsci e Cuba è una smaccata operazione qualunquista e francamente reazionaria. Evitiamo, quindi, di richiamare in questa sede la stagione craxiana e i continui procedimenti d’indagine giudiziaria a cui sono spesso sottoposti i riformisti odierni; teniamo comunque a far notare a Saviano che il primo firmatario della Costituzione che egli tanto proclama di difendere è stato Umberto Terracini, comunista e compagno di Gramsci. Forse sta qui l’origine di questa grande opera di revisionismo storico di cui Saviano è solamente l’ultimo episodio, ossia nel proposito di cancellare il movimento comunista e i suoi protagonisti dalla storia repubblicana.Chiudiamo questa rapida disamina con le parole di Gramsci, tratte dal già citato I criteri della volgarità, nella speranza che i candidi Orsini e Saviano non le giudichino ingiuriose: «noi continueremo a chiamare volgari gli uomini quando essi operano volgarmente, quando manifestano un pensiero volgare, anche se esprimono il pensiero in forma elegante (e questa eleganza è solo apparenza vistosa, neppure arte), anche se operando coi guanti e salvando le forme esteriori. Noi insomma badiamo all’interiorità, non all’apparenza verbale, e la sostanza cerchiamo [di] qualificar[la] con esattezza e proprietà anche se per ciò dobbiamo adoperare parolacce ed espressioni ritenute volgari».