di Alexander Höbel, coordinatore Comitato scientifico Ass. MarxXXI
Ci ha lasciato alcuni giorni fa, all’età di 95 anni, dopo una vita straordinariamente ricca, Eric J. Hobsbawm, uno dei maggiori – e senza dubbio il più noto – tra gli storici marxisti di quel “secolo breve” che ha tratteggiato con tanta maestria. Cosmopolita per vocazione e storia familiare, era nato nel cruciale 1917 ad Alessandria d’Egitto, figlio di una giovane viennese in viaggio-premio dopo la licenza liceale e di un impiegato ebreo di origine polacca. Poco dopo la sua nascita, la famiglia si trasferisce a Vienna, “capitale impoverita di un grande impero” ormai alla fine dei suoi giorni, ma anche “città rossa” percorsa da forti impulsi rivoluzionari. In breve tempo la famiglia Hobsbawm passa da una discreta agiatezza alle soglie dell’indigenza, ma ciò che davvero sconvolge la vita del giovane Eric è la perdita dei genitori: del padre a 12 anni e della madre appena due anni dopo. Nel 1931, dunque, appena quattordicenne, si trasferisce a Berlino, in casa degli zii che si prendono cura di lui e di sua sorella.
A Berlino Hobsbawm si incontra subito con la Storia, assistendo agli effetti della grande crisi economica iniziata nel 1929, al crollo della Repubblica di Weimar e all’ascesa dei nazisti: è quella che chiamerà l’“età della catastrofe”. “I mesi passati a Berlino fecero di me un comunista a vita” – ricorderà nella sua autobiografia (Anni interessanti, Rizzoli, 2002) –, deciso a “immergersi nell’appassionata devozione alla causa della rivoluzione mondiale”. A 15 anni dunque Hobsbawm si iscrive al Sozialisticher Schülerbund, l’organizzazione studentesca creata dai comunisti, ma nella primavera del 1933 i primi provvedimenti del regime hitleriano consigliano gli zii di richiamarlo a Londra, dove lo avevano preceduto. È qui che egli completa la sua formazione; due anni dopo ottiene una borsa di studio a Cambridge, dove “un numero insolitamente alto di eminenti scienziati aveva assunto posizioni politiche radicali”. Iscrittosi alla sezione studentesca del Partito comunista, Hobsbawm ne diviene presto membro della Segreteria: “fu la più alta carica politica che abbia mai occupato”, ricorderà con ironia. Negli anni successivi è un militante molto attivo. Se si sfogliano le pagine della sua autobiografia e se ne osservano le foto, lo si può ritrovare nel circolo socialista dell’Università di Cambridge, nelle iniziative in favore della Repubblica spagnola, e ancora a Parigi nel 1936, nella campagna a sostegno del Fronte popolare. Nello stesso anno si iscrive al Partito comunista britannico, di cui farà parte per mezzo secolo.
Dopo la Seconda guerra mondiale – durante la quale è arruolato nel genio militare dell’esercito britannico – Hobsbawm inizia la carriera accademica. Nel 1947 ottiene un primo incarico presso il Birkbeck College di Londra. Ma soprattutto, come dirà nell’intervista raccolta da Aldo Agosti (“Passato e Presente”, 1998, n. 43; ma di Agosti si veda anche il bel saggio su Hobsbawm pubblicato ivi, 2011, n. 82), assieme ad altri storici marxisti del calibro di Maurice Dobb, Cristopher Hill ed Edward P. Thompson, è parte di quella sorta di “seminario permanente” da cui emergerà la rivista “Past and Present”. Hobsbawm approfondisce la storia del movimento operaio e dei “subalterni” in generale, con una metodologia che tiene insieme l’attenzione per gli aspetti teorici e un approccio di “storia sociale” molto diverso da quello tuttora dominante; come ha notato G. Santomassimo (“il manifesto”, 2/10/2012), per lui la storia sociale è “storia della società, e non sociologia retrospettiva”, né tantomeno mera storia delle mentalità. È con questa metodologia, fortemente improntata al materialismo storico, che egli indaga il mondo dei “ribelli”, il “banditismo sociale”, le vicende dei “rivoluzionari”.
Negli anni ’60, inoltre, Hobsbawm dà alle stampe Le rivoluzioni borghesi. 1789-1848, che sarà il primo volume di una trilogia (seguito da Il trionfo della borghesia. 1848-1875 e da L’Età degli imperi. 1875-1914, in Italia tutti editi da Laterza) sull’epoca della borghesia, sulla sua ascesa come classe dominante, sul suo “trionfo” e sui suoi esiti catastrofici: libri straordinari, in cui la centralità dei fattori strutturali si lega alla grande attenzione per gli aspetti culturali e l’evoluzione del costume. Hobsbawm parte dalla “duplice rivoluzione” – la Rivoluzione francese e quella industriale – concepita come base e presupposto del mondo contemporaneo, per poi esaminare l’età dell’imperialismo, i suoi conflitti e la sua crisi.
In questa trattazione, in cui appunto il momento del conflitto non è mai edulcorato, egli tiene ferma l’idea di un carattere comunque progressivo – sia pure in mezzo a guerre e disastri sociali – dello sviluppo capitalistico. È questo un punto che lo differenzia fortemente da altri importanti studiosi, anche marxisti, come Emmanuel, Gunder Frank e altri, che invece negli stessi anni parlano dello “sviluppo del sottosviluppo” prodotto dal capitalismo. Potremmo dire, dialetticamente, che si tratta di due facce della stessa medaglia, dello stesso contraddittorio processo storico. Ma la polemica di Hobsbawm su questo punto è netta, e introducendo l’edizione del Manifesto del Partito comunista edita nel 150° anniversario della sua prima uscita (Rizzoli, 1998) la renderà esplicita. Il “potenziale rivoluzionario dell’economia capitalistica” – scrive – era ben chiaro a Marx ed Engels, e il suo ‘dare un carattere cosmopolitico alla produzione e al consumo in ogni paese’ una caratteristica che proprio la mondializzazione degli anni ’90 ha reso evidente. Gli stessi enormi passi in avanti compiuti da paesi che un tempo appartenevano al “Terzo mondo” e l’esistenza oggi di un polo così rilevante come quello dei Brics confermano l’importanza dei mutamenti introdotti dalla formazione – pur contraddittoria e conflittuale – del mercato mondiale. Al tempo stesso, Hobsbawm sottolinea l’altra fondamentale intuizione di Marx ed Engels, ossia “che questo modo di produzione non è stabile, non è ‘la fine della storia’, ma una fase temporanea nella storia dell’umanità e, come le precedenti, destinata ad essere soppiantata da un altro tipo di società (a meno che […] esso non sprofondi ‘nella comune rovina delle classi antagoniste’)”.
All’indomani del crollo del campo socialista, Hobsbawm aggiunge alla sua trilogia l’opera per la quale è diventato universalmente noto, The Age of Extremes, tradotto in 37 lingue e pubblicato in Italia col fortunato titolo Il secolo breve. “Breve” perché il grande storico lo fa iniziare nel 1914, con lo scoppio della Prima guerra mondiale – prima grande prova della società di massa – e terminare nel 1991, con la fine dell’Unione sovietica. Si tratta di un libro di straordinaria importanza per comprendere il Novecento; un libro al cui centro c’è quella idea di conflitto – del conflitto titanico che nel XX secolo ha visto contrapporsi su scala globale forze progressive (movimento operaio, movimenti di liberazione ecc.) e forze conservatrici e reazionarie – che troppo spesso viene rimossa, anche dagli storici, oltre che da molti interpreti e “giudici” del Novecento.
Anche col suo ultimo libro – Come cambiare il mondo. Perché riscoprire l’eredità del marxismo (Rizzoli, 2011) –, in vetta alle classifiche di vendita britanniche per mesi – Hobsbawm ha dato un ulteriore, importante contributo alla comprensione del presente in chiave storica, e della storia come strumento per trasformare il presente. Riprendendo alcuni suoi contributi alla Storia del marxismo Einaudi e altri saggi, e aggiungendovi vari testi inediti, scritti alla luce degli sviluppi storici più recenti tra i quali la crisi sistemica iniziata nel 2008, Hobsbawm è tornato a ribadire la validità del marxismo, nel senso della concezione materialistica della storia, ma anche come straordinaria leva per la trasformazione sociale. E in una delle ultime interviste, citata da Santomassimo, ha osservato: tra le tante cose, della lezione di Marx “resta la comprensione del fatto che il capitalismo opera generando le crisi”, ma “la principale” tra le sue acquisizioni rimane questa, “che i lavoratori devono organizzarsi in quanto partito di classe”.
Della lezione marxiana Hobsbawm è stato dunque uno degli interpreti più acuti e originali, con un approccio mai dogmatico, sempre aperto, sempre fondato sull’analisi materialistica della realtà: un approccio che ha contribuito alla sua grandezza di studioso del marxismo e di storico. Anche per questo della sua lucidità e profondità di analisi non potremo non sentire la mancanza.