Contro l’inezia liberale – Marx vs Hayek

marx engels berlindi Giovanni Paolo Sirianni e Pier Giorgio Corriero

[in risposta a
Hayek contro Marx – Tutti gli errori di Marx]

Come per il video su Popper, anche in questo i ragazzi di IstLib espongono le tesi di grandi pensatori antimarxisti del passato. Oggi tocca a Friedrich Von Hayek, un classico dell’ideologia liberale, che espose le critiche al marxismo che poi diventeranno quelle più gettonate e ripetute, contro le quali ogni buon marxista è ormai vaccinato a dovere.

Il quinto video inizia con la critica al termine “dittatura del proletariato”. Infatti, secondo Crotoneo, durante tale periodo a governare non sarebbe il proletariato in quanto classe. Tale critica è insulsa a livelli estremi: Marx non affermò mai che ogni singolo proletario dovesse in un qualche modo fare politica. Insomma, si tratta del solito metodo liberale di attacco ad una tesi marxiana dopo averla deformata per bene; per altro ben scopiazzata da Bakunin. Cosa teorizzò dunque Marx? Marx sostenne che ogni stato, anche il più democratico ed anti-autoritario, in quanto diviso in classi, deve per forza rappresentarne una: la classe dominante della società in questione. Dunque lo stato, in quanto organizzazione che comprende l’amministrazione delle forze armate, utilizza tale potere per imporre alle altre classi l’ideologia della classe dominante strumentale ai rapporti di produzione che ne fanno gli interessi. Dunque l’obiettivo di Marx è quello di eliminare lo stato in quanto organo della coercizione della classe dominante con la instaurazione della società senza classi: il comunismo, dove lo stato si è dunque già estinto. Come già spiegò Lenin, il fine ultimo di marxisti ed anarco-comunisti è lo stesso: la fine dello stato in favore della creazione della società senza classi. Il problema è l’utopismo dei secondi, che credono di poter eliminare lo stato da un momento all’altro. Marx sa bene che ciò è impossibile, poiché, dopo aver eliminato in una maniera tanto artificiale lo stato senza aver riorganizzato il ruolo delle classi nella produzione, le contraddizioni del capitalismo non si sarebbero risolte da sole e dunque il capitalismo non avrebbe cessato di esistere. Marx quindi comprende che per giungere alla fine dello stato non bisogna procedere tramite una netta ed utopistica abolizione, ma secondo una lenta estinzione. Bisogna gradualmente risolvere le contraddizioni capitalistiche, solo così si potrà arrivare al comunismo e ad una fine dello stato che possa essere coerente dal punto di vista logico. A questo punto tale procedimento di risoluzione delle contraddizioni della società capitalistica si risolveranno in una determinata era storica: il socialismo. Quindi i liberali possono attaccare solo gli anarchici quando affermano che il comunismo non è applicabile sulla base delle stesse critiche all’abolizione dello stato esposte dai marxisti. Ritornando alla critica di Cotroneo, Marx non voleva fare di ogni proletario un politico od un dirigente, ma porre il proletariato in quanto classe, organizzato dal partito comunista, alla guida della risoluzione di tali contraddizioni, alla guida del nuovo stato socialista. In altre parole, alla guida della società nella marcia verso l’estinzione dello stato: il comunismo. Si passa dunque alla critica della pianificazione. Oramai diventa quasi alienante soffermarci sulle definizioni, ma finanche Cotroneo continuerà con le sue assurdità ci troveremo moralmente costretti. Si parte con la definizione di pianificazione data da Hayek, il quale dice che la pianificazione è “organizzazione deliberata degli sforzi della società per uno scopo sociale predefinito”, concetto che in sé non è neanche completamente errato, tuttavia è incompleto. Si dice quindi che poiché le persone non hanno uno scopo comune la pianificazione perderebbe di significato. In questo passo si cela l’errore fatto, il socialismo è la comune aspirazione delle masse popolari che lottano per l’indipendenza e la sovranità, il collettivismo è il bisogno estrinseco del popolo, unito sotto l’unità monolitica ideologica del partito, bisogno al quale i borghesi e gli imperialisti soltanto, con tutti i loro lacchè, si oppongono, come scrisse anche Marx nella sua lettera a Friedrich Engels del 18 maggio 1859 “Il nostro mandato di rappresentanti del partito proletario noi non l’abbiamo che da noi stessi. Ma esso è controfirmato dall’odio esclusivo e generale che tutte le frazioni del vecchio mondo e dei suoi partiti ci riservano”. Si argomenta che tale nefandezza della pianificazione socialista non abbia senso d’esistere poiché “le persone non hanno uno scopo comune”, quindi non tutte le persone aderiscono ad un piano economico. Il pensiero liberale, nel formulare tale tesi, si dimentica di due aspetti fondamentali: 

1) Nel capitalismo avanzato vi è anche una rigida pianificazione, dovuta all’involuzione della situazione socio-economica che avviene in un regime di libero mercato a causa dell’accentramento dei capitali. Tale fenomeno infatti non provoca soltanto un aumento costante della polarizzazione sociale, ma soprattutto un accentramento del potere di decisione in grandi trust trans-nazionali, che al giorno d’oggi (poiché dalla dissoluzione dell’URSS si sta, nemmeno troppo lentamente, ritornando all’ottocento) hanno ottenuto un potere talmente grande da superare, in materia di influenza politica, i leader delle più potenti nazioni. Basti pensare all’appoggio dei grandi magnati del capitale, gestori dei principali social, ai democratici nelle ultime due elezioni presidenziali statunitensi contro Donald Trump: un’influenza sulla politica di tale livello sarebbe stata inimmaginabile solo venti/trenta anni prima negli USA da parte di questi personaggi, ad ulteriore prova dell’esistenza di tale accentramento di capitali e dunque di potere. Oltre al peso politico, ovviamente ciò inficia anche sul piano economico: i grandi trust, che ora hanno un potere immenso, non si adeguano al mercato (come vorrebbe far pensare Cotroneo), ma lo piegano ai suoi interessi: si specula coi più diversi mezzi finanziari, si altera artificialmente domanda ed offerta, si causano interi conflitti, eccetera. Queste strategie elencate non sono altro che mezzi per raggiungere il fine dell’arricchimento progressivo del capitale. Dunque la pianificazione si ha sempre. La differenza consiste nel fatto che il fine di essa nel capitalismo è il profitto del padrone e la crescita del capitale, mentre nel socialismo è il miglioramento progressivo delle condizioni di vita del popolo e la risoluzione delle contraddizioni del capitalismo, che non provocano altro se non guerra e povertà. 

2) Il socialismo non indirizza le aspirazioni di tutti gli individui facenti parte di una collettività verso un comune scopo, il socialismo, in particolar modo il marxismo, compie un’analisi dialettica e scientifica delle condizioni materiali all’interno delle quali esso opera e ne trae delle logiche soluzioni. Non “pochi individui che pensano di fare il bene dell’intera società” bensì le masse popolari indicano la direzione da percorrere per trionfare con successo nell’edificazione del socialismo e del comunismo. Ancora: lo sappiamo bene che non tutti i lavoratori hanno la stessa ideologia, ma ciò non significa che la pianificazione non faccia i loro interessi materiali in quanto appartenente alla classe dei proletari, che non possono che giovare della risoluzione delle contraddizioni del capitalismo. 

Ancora si sostiene che la pianificazione socialista avvenga senza la consultazione del popolo, in quanto essa è gestita dai dirigenti dello stato e del partito. Questa critica può essere fatta al sistema capitalistico avanzato, dove ormai la concorrenza è stata cancellata e la pianificazione è dettata da pochi oligarchi aventi potere nei Cd’A delle grandi SpA. Nel socialismo la pianificazione non è organizzata da pochi oligarchi privatamente, ma da uno stato rappresentante la maggioranza del popolo. In esso il popolo lavoratore viene tenuto in grande considerazione sull’attuazione dei piani economici. Infatti in tutti gli stati socialisti della storia le grandi riforme economiche presenti nelle costituzioni sono sempre state votate a suffragio universale. Inoltre in RPDC è stato anche ormai teorizzato da tempo il già citato metodo di lavoro antiburocratico Chongsonri, che impone ai dirigenti di ispezionare periodicamente le unità produttive per conoscerne le condizioni reali e poterle dirigere con cognizione di causa. A riguardo si è anche espresso lo statunitense W. H. Duprey nel suo scritto “Come sono ingrassato cercando la fame nella Russia sovietica”: «Gli operai dirigono i loro sindacati, proprio come dirigono il loro governo. Durante tutto il mio soggiorno in Unione Sovietica non ho visto alcuno sciopero o manifestazione con la polizia che picchiasse i lavoratori. Quando l’ho fatto presente ad un operaio, mi ha detto: “Quando vogliamo un miglioramento delle condizioni, siamo in grado di ottenerle attraverso il nostro sindacato. Il governo è il nostro governo, diretto da noi attraverso i nostri sindacati, quindi non c’è bisogno di scioperi contro noi stessi”.» 

Grande classico della retorica liberale: il socialismo distrugge la libertà economica di un individuo. Il marxista risponde che il concetto di libertà è assai vago e che ha bisogno di una definizione. Un individuo è forse libero in un sistema dove il suo stipendio viene sempre più rimpicciolito a causa del tentativo, da parte del padrone, di mantenere costante il suo saggio di profitto? È forse libero uno dei 30 mila abitanti delle fogne di Las Vegas? Il contadino cambogiano? La piccola partita iva italiana sempre più prossima al fallimento a causa dell’accentramento dei capitali? Ovviamente no! Quindi il concetto di libertà e di diritto è un concetto di classe: l’azione scaturita dalla libertà di un individuo di una determinata classe causa una cancellazione di un diritto potenziale della classe ad essa contrapposta per interessi. Dunque, in regime capitalista, il padrone ha la libertà, al fine di massimizzare i suoi profitti, di mettere in atto le peggiori manovre per aumentare plusvalore assoluto e relativo; il proletario ha la libertà di scegliere se continuare a lavorare in un contesto dove si precarizza sempre di più o rifiutarsi di lavorare morendo di fame. Nel socialismo, inteso come prima fase del comunismo, il diritto borghese viene solo parzialmente cancellato (il processo si concluderà solo nel comunismo) a favore degli interessi del proletariato, che ora ha la libertà di vivere una vita dignitosa grazie ad uno stato che gli garantisce stabilità economica (che il capitalismo, a causa delle sue intrinseche contraddizioni, nega), casa, cibo, cure mediche ed istruzione. 

Ancora si afferma che lo stato socialista distrugga l’individuo poiché decide il mestiere di ognuno tramite la proprietà dei mezzi di produzione. Nel socialismo ogni individuo può scegliere qualsiasi lavoro egli voglia, indipendentemente dalla provenienza sociale (basti pensare alle origini aristocratiche del falsario Solzenicyn, che fece carriera nel sistema scolastico e militare del paese, prima di finire in un gulag, per poi, dopo aver scontato la pena, ritornare alla normale vita di insegnante); ciò che viene negato è la libertà per un borghese di sfruttare privatamente il lavoro degli operai. parafrasando Kim Jong-Il, sono al contrario i capitalisti che necessitano di bestie da soma, di schiavi servili ed obbedienti, non di esseri sovrani e creatori, coscienti, ma di produttori di plusvalore! Si dice per giunta che, per arrivare a questo fine, bisogna convincere forzatamente la gente che si debba rinunciare alla propria individualità in nome del bene comune, anche con mezzi coercitivi. Non è tuttavia nostro obiettivo obbligare chicchessia a seguire il marxismo, come scrive il Presidente Mao Tse-Tung infatti 

«Tutti i tentativi di risolvere le questioni ideologiche e le questioni della ragione e del torto con ordini amministrativi o con misure costrittive sono non soltanto inefficaci, ma anche nocivi. Non possiamo abolire la religione per mezzo di ordini amministrativi né obbligare la gente a non crederci. Non possiamo obbligare la gente a rinunciare all’idealismo, così come non possiamo obbligarla ad abbracciare il marxismo. Tutte le questioni di carattere ideologico e tutte le controversie in seno al popolo possono essere risolte solo con metodi democratici, con i metodi della discussione, della critica, della persuasione e dell’educazione; non possono essere risolte con metodi coercitivi e repressivi.» (Mao Tse-Tung, Opere Complete, vol. XIV, Edizioni Rapporti Sociali, pag 99) 

Comunque, come per la pianificazione, qui i liberali criticano un aspetto del socialismo dimenticandosi che esso si presenta in maniera anzi più avanzata nel capitalismo. Nel capitalismo l’individuo non può magicamente realizzarsi e poter fare quello che vuole, ma il suo destino è dettato dalle esigenze del mercato, controllato dai grandi trust nell’ormai realizzatasi era dell’imperialismo sfrenato. Infine chiudiamo su questo tema della realizzazione individuale nelle due società citando un semplice dato: negli anni ’70 il numero di medici ed ingegneri sovietici era pari a cinque volte quello dei loro omologhi statunitensi, quando tra questi due paesi esisteva una differenza di soli quaranta milioni di abitanti. Si incomincia a questo punto a sparlare di libertà di parola: in uno stato socialista non può esistere poiché la stampa è sotto controllo statale. Il padre del bolscevismo rispose in un celebre discorso pronunciato al Primo Congresso dell’Internazionale Comunista

 «La “libertà di stampa” è una delle parole d’ordine fondamentali della “democrazia pura”. Tuttavia […] questa libertà è un inganno, fino a quando le migliori tipografie e le immense provviste di carta rimangono nelle mani dei capitalisti, fino a quando permane sulla stampa il potere del capitale, che si manifesta nel mondo intero in forma tanto più evidente, brutale e cinica, quanto più sono sviluppati la democrazia e il sistema repubblicano, come ad esempio in America. Per conquistare l’uguaglianza effettiva e la democrazia reale per i lavoratori, per gli operai e i contadini, bisogna prima togliere al capitale la possibilità di assoldare gli scrittori, di comprare le case editrici e di corrompere i giornali, e, per far questo, bisogna abbattere il giogo del capitale rovesciare gli sfruttatori, schiacciare la loro resistenza. I capitalisti hanno sempre chiamato “libertà” la libertà di arricchirsi per i ricchi e la libertà di morire di fame per gli operai. I capitalisti chiamano libertà di stampa la libertà per i ricchi di corrompere la stampa, la libertà di usare le loro ricchezze per fabbricare e contraffare la cosiddetta opinione pubblica. In realtà i difensori della “democrazia pura” sono i difensori del più immondo e corrotto sistema di dominio dei ricchi sui mezzi d’istruzione delle masse, essi ingannano il popolo, in quanto lo distolgono, con le loro belle frasi seducenti e profondamente ipocrite, dal compito storico concreto di affrancare la stampa dal suo asservimento al capitale. L’effettiva libertà e uguaglianza si avrà nel sistema costruito dai comunisti e in cui non ci si potrà arricchire a spese altrui, in cui non ci sarà la possibilità oggettiva di sottomettere direttamente o indirettamente la stampa al potere del denaro, in cui niente impedirà a ciascun lavoratore (o gruppo di lavoratori di qualsivoglia entità) di godere in linea di principio e nei fatti dell’uguale diritto di usare le tipografie e la carta appartenenti alla società.» (Vladimir Lenin, Opere Complete, volume XXVIII, pagg 464-465, Editori Riuniti, Roma 1967) 

Nel socialismo esiste eccome libertà di parola, basti pensare al fatto che nel 1934 il più grande oppositore interno di Stalin, Bucharin, ottenne la redazione del quotidiano “Izvestia”. Come al solito i liberali omettono che tali problemi di libertà di parola si presentano molto di più nel capitalismo quanto nel socialismo. Basti mettere a confronto la sorte di J. Assange con quella di Joshua Wong; stesso discorso si potrebbe fare tra E. Snowden e Y. Sànchez. Insomma, nel regime capitalistico il dissenso verso il sistema è fortemente punito, a differenza che nel socialismo, specie nei regimi iper liberisti del terzo mondo, basti pensare alla dittatura di Pinochet (considerata democratica dalla Thatcher). Al contrario di come pensano i liberali, i grandi social media dell’era capitalistica non sono proprio per nulla imparziali. Basti pensare alle pesanti censure, onnipresenti su tutti i social, per chi parla di alcuni aspetti negativi dei vaccini anti-covid occidentali (ad esempio la notizia proveniente dal British Medical Journal, dove viene citato il dottor Doshi, che sostiene, in base a studi scientifici, che la reale efficacia del vaccino della Pfizer sia tra il 19 ed il 29%. Chi cita questo studio viene automaticamente censurato), piuttosto che dei crimini della famiglia Biden; infatti il PD statunitense fu finanziato pesantemente dalle superpotenze della Silicon Valley nelle elezioni del 2016 e del 2020. Queste superpotenze hanno anche una grande influenza sull’opinione pubblica italiana, dove la situazione è ancora più aggravata dall’editoria: infatti è un mistero di Pulcinella che tutti i principali giornali italiani hanno nei Cd’A grandi capitalisti, siano essi servitori delle lobby di destra, di sinistra o di centro poco importa: sono tutti uniti nella difesa dell’UE, della NATO e del neoliberismo. Insomma, qual è il messaggio che i liberali vogliono mandare? In sostanza è questo: l’informazione, così come la pianificazione, non può essere gestita assolutamente dallo stato espressione della classe lavoratrice! Fatela gestire piuttosto ai disinteressati miliardari della Silicon Valley ed ai giornalacci italiani controllati da Confindustria! Ennesimo misticismo logico. “Se tutti i luoghi sono controllati dallo stato, non sei libero di andare dove desideri e dunque non sei libero di riunirti dove vuoi, come vuoi e con chi vuoi.” Quest’affermazione è di una ridicolaggine tremenda e frutto di una ignoranza imbarazzante. Il divieto di migrare da un luogo all’altro all’interno dello stato fu più che garantito in URSS; per quanto riguarda la libertà di opinione ed assemblea, essa fu assicurata in URSS dalla costituzione del ’36 ed è attualmente assicurata in RPDC, dove infatti esistono numerosi partiti ed organizzazioni indipendenti. “Se il sistema pensionistico è controllato dallo stato non hai la libertà di decidere dove investire i tuoi soldi per una futura pensione”. Ciò non è altro che una libertà da legge della giungla. Mentre nel socialismo non hai la “libertà” di investire per ottenere una pensione più ingente, nel capitalismo non hai la libertà di avere una vecchiaia sicura con una pensione assicurata dallo stato, che di solito si raggiunge all’età di 55/60 anni (almeno così fu per l’URSS). Ergo nel socialismo sei assicurato in ogni modo, nel capitalismo sei soggetto ai desiderata della mano invisibile. Che sbadati, c’eravamo dimenticati che per i nostri avversari questa divinità non sbaglia mai: come il dio ebraico colpisce con severità i poltroni e premia lautamente chi ha fede in esso e chi è laborioso ed economo. Solo il socialismo è garante della vera libertà. Perché la libertà non è un’astrazione, la libertà non è “quel principio che permette alla società di non avere un solo e unico modo di vedere il mondo, ossia di non avere un sistema di riferimento prestabilito” come leggiamo in un articolo sul sito della suddetta associazione circa il concetto generale di libertà. La libertà consiste «nel dominio di noi stessi e della natura esterna fondato sulla conoscenza delle necessità naturali: essa è perciò necessariamente un prodotto dello sviluppo storico» (Friedrich Engels, Anti-Duhring, XI, Morale e Diritto, Libertà e Necessità, 1878). 

Infatti “quanto più libero è il giudizio dell’uomo per quel che concerne un determinato punto controverso, tanto maggiore sarà la necessità con cui sarà determinato il contenuto di questo giudizio; mentre l’incertezza poggiante sulla mancanza di conoscenza, che tra molte possibilità di decidere, diverse e contraddittorie, sceglie in modo apparentemente arbitrario, proprio perciò mostra la sua mancanza di libertà, il suo essere determinato da quell’oggetto che precisamente essa doveva dominare.” (Ibidem) 

Si crede che lo stato sia un ente metafisico che arbitrariamente decida cosa tu puoi o non puoi fare, ed è proprio in questa concezione dello stato, opposta alla definizione gramsciana “stato=società politica + società civile, cioè egemonia corazzata di coercizione”, che si cela l’intrinseco idealismo dei liberali. Si riduce la lotta di classe a semplice conflitto ideologico, base sulla quale, anche grazie alla sentita collaborazione di altri miti liberali come ad esempio quello del self-made man, ci si dimentica che non è il segretariato di partito a decidere cosa fare o non fare, bensì solo e soltanto le masse popolari sovrane hanno il compito di combattere gli atteggiamenti anti-marxisti. 

S’accusa il socialismo di costruttivismo in quanto esso vorrebbe costruire da zero una nuova morale, mentre la morale è individuale e frutto della vita di ognuno di noi. I marxisti rispondono che la morale di una determinata società in una determinata epoca storica è dettata dai rapporti di produzione tra le classi. Esiste dunque una morale mercantile, una morale proletaria, una morale contadina e via discorrendo. Marx afferma ciò sulla base di un qualcosa di ovvio: la morale è frutto dell’ideologia. L’ideologia di un individuo, in generale, è frutto del suo essere sociale: l’ideologia socialista sarà quella dei lavoratori, il liberismo sarà l’ideologia della grande finanza, il keynesismo sarà l’ideologia della piccola-borghesia, e via discorrendo. I liberali potrebbero obiettare che non per forza un lavoratore è socialista. Rispose a questa critica il marxista A. Gramsci colla sua teoria dell’egemonia culturale. La classe dominante impone sul resto della società, tramite la macchina statale da essa controllata, la sua ideologia e quindi la sua morale. E’ innegabile infatti che sia molto più probabile, per questo motivo, trovare in uno stato capitalistico (ad esempio l’Italia) un lavoratore liberale piuttosto che uno squalo dell’alta finanza marxista (viceversa, in Cina è molto più probabile trovare un “imprenditore” marxista piuttosto che un operaio liberale). Quindi nella storia si sono avvicendate più morali, l’ultima delle quali è quella borghese, che però non sono universali ma limitate a quella civiltà in quel determinato periodo storico, e sono tutte logicamente legate ad una ideologia, che Marx insegna essere di classe e legata ad una serie di misticismi logici (ne abbiamo in questa sede esposti numerosi di quelli borghesi). Il marxismo produce l’unica morale frutto dell’unica ideologia che predica la sola realtà in quanto non oggetto di misticismi logici; questo perché Marx è stato l’inventore degli strumenti del materialismo dialettico e storico, senza i quali non si può ottenere una visione completa della storia e della natura. Infatti come disse, nuovamente, Friedrich Engels «[…] noi respingiamo ogni pretesa di imporci una qualsiasi dogmatica morale come legge etica eterna, definitiva, immutabile nell’avvenire, col pretesto che anche il mondo morale avrebbe i suoi principi permanenti, che stanno al di sopra della storia e delle differenze tra i popoli. Affermiamo per contro che ogni teoria morale sinora esistita è, in ultima analisi, il risultato della condizione economica della società di quel tempo. E come la società si è mossa sinora sul piano degli antagonismi di classe, così la morale è stata sempre una morale di classe; o ha giustificato il dominio e gli interessi della classe dominante, o, diventata la classe oppressa sufficientemente forte, ha rappresentato la rivolta contro questo dominio e gli interessi futuri degli oppressi. Che così all’ingrosso si sia avuto un progresso tanto per la morale quanto per tutti gli altri rami della conoscenza umana, è cosa su cui non è possibile nessun dubbio. Ma non abbiamo ancora superato la morale di classe. Una morale che superi gli antagonismi delle classi e le loro sopravvivenze nel pensiero, una morale veramente umana è possibile solo a un livello sociale in cui gli antagonismi delle classi non solo siano superati, ma siano anche dimenticati per la prassi della vita.» (Opere Complete Marx-Engels, volume XXV, Editori Riuniti, Roma 1974, pag 90) 

Si prosegue accusando il marxismo di obbligare le persone ad essere quello che il governo vuole. Abbiamo già dimostrato come questo fenomeno sia molto più frequente nel capitalismo e di come nel primo caso la coercizione e la pianificazione economica sia controllata dal popolo lavoratore organizzato nel partito comunista, mentre nel secondo caso è controllata dai grandi oligarchi in maniera strumentale al loro potere privato. Oltre a ciò, si nega contemporaneamente la pianificazione e la coercizione capitalistica, affermando che questo sistema non obbliga nessuno ad essere nulla, ma obbliga le persone a non essere criminali. Tale definizione è molto più affiliabile al socialismo per le ragioni già elencate, questo i liberali non lo possono capire perché vittime dei misticismi logici borghesi i quali impongono che non violare la proprietà privata altrui sia un obbligo a non essere qualcosa, tenendo conto del solo diritto borghese; al contrario si esclude a priori il diritto del proletariato di socializzare i propri mezzi di produzione e negare la libertà per i borghesi di controllare i mezzi di produzione che utilizzano. Si passa al solito piagnisteo liberale circa le dittature ed i genocidi attuati dai comunisti della storia. Come per tantissimi altri temi i liberali predicano bene ma razzolano male: non solo non argomentano circa l’esistenza di tali dittature e genocidi (argomenti già stravinti da noi comunisti con le opere contro il revisionismo storico sulla storia del comunismo di Martens, Losurdo, Strong, Furr e, più recentemente, Pascale), ma si scordano totalmente delle reali dittature e dei reali genocidi attuati dai liberisti in questi ultimi secoli, innegabilmente più efferati e sanguinolenti. Nel socialismo, al contrario di ciò che pensa Cotroneo, i pianificatori statali non possiedono il potere assoluto sul popolo lavoratore, ma anzi dipendono dal volere di esso. Basti pensare al primo decreto bolscevico sulla terra, del quale citiamo il paragrafo contenuto in “Storia Universale” a cura dell’Accademia delle Scienze dell’URSS 

«[…] sebbene il partito bolscevico fosse contrario al godimento egualitario della terra come mezzo di riorganizzazione sociale nelle campagne, ritenne necessario soddisfare il desiderio dei contadini: “… come governo democratico non potremmo trascurare una decisione delle masse popolari, anche se non fossimo d’accordo. All’atto pratico, con l’applicazione del decreto, con la sua attuazione nelle varie località, i contadini stessi comprenderanno dov’è la verità”. (V. I. Lenin: Rapporto sulla questione della terra) Il partito bolscevico indicava la via d’uscita dalla miseria e dalla rovina per tutti i contadini: la riorganizzazione socialista delle campagne.» 

Più in generale, nell’URSS di Stalin come nella Cina di Mao i lavoratori prendevano attivamente parte alla gestione aziendale, così come i quadri alla produzione. Essi avevano ruoli fondamentali nella divisione della pianificazione economica, sia in quella aziendale che nei Sovrarnkhoz/Comuni, oltre al ruolo chiave nei consigli tecnici di produzione. Il popolo, e soltanto il popolo, è sovrano nel regime socialista. Non una ristretta oligarchia, non i pianificatori, né nessun altro. Cotroneo si confonde dunque colla pianificazione degli oligarchi nel capitalismo, che ovviamente, facendo gli interessi di tali magnati del grande capitale, non può essere in accordo col desiderio degli operai, ma anzi può essere solo opposto ad esso. 

Come abbiamo ordunque fatto con Popper non potremmo tuttavia non analizzare al contempo, almeno parzialmente, il pensiero di Friedrich August Von Hayek, analizzando alcuni passi del libro “La società libera”, in lingua originale “The Constitution of liberty”. Partiamo dallo spezzone concernente il concetto di libertà. Hayek definisce la libertà come «l’indipendenza dall’arbitraria volontà di un altro» (Op. cit. pag 85) Ed aggiunge che “se consideriamo l’enorme confusione causata da tutti i filosofi con i loro tentativi di affinarla o migliorarla, faremmo forse bene ad accettarla così com’è. […] In questo senso, la «libertà» si riferisce unicamente al rapporto tra un uomo e un altro e può essere violata unicamente dalla coercizione esercitata da uno di loro. Ciò significa, più precisamente, che la gamma delle possibilità fisiche fra le quali una persona in un determinato momento può scegliere nulla ha a che vedere con la libertà.” (Ibidem) 

Considerare tuttavia la libertà come pura negazione della prevaricazione e della coercizione di un individuo su un altro è, non sbagliato, bensì decisamente riduttivo. In primo luogo essa spoglia le relazioni sociali tra individui del loro carattere appunto sociale, l’uomo “può vivere e progredire solo se fa parte d’una collettività sociale ed opera in questo quadro. Non è l’attività individuale, bensì la collaborazione collettiva dei membri della società che permette la trasformazione della natura e della società e la realizzazione delle aspirazioni sovrane dell’uomo. Affinché l’uomo possa vivere nel quadro della collettività sociale bisogna che le aspirazioni sovrane della collettività e quelle dell’individuo vengano realizzate.” ( Kim Jong-Il, Opere scelte, vol. XIII, Edizioni in lingue estere, Pyongyang 2009, pp. 421-422) 

Questi liberali amano (s)parlare di libertà individuale come valore universali in contrapposizione agli utopismi collettivistici delle diverse ere. Essi non comprendono innanzi tutto come la libertà individuale non abbia senso di esistere come oggetto di difesa a spada tratta in quanto questa, riferendosi ad un individuo appunto, può solo essere di classe, a differenza della libertà collettiva. Com’abbiamo già sottolineato, le singole libertà di classi antagoniste non possono che essere, per loro natura, antagoniste tra di loro. I liberali spogliano la libertà individuale del suo carattere di classe, compiono un’astrazione bella e buona: compiono un’astrazione bella e buona: prendono la libertà borghese di libero commercio, la libera affiliazione politica e pluralismo partitico (competizione partitocratica che nega la democrazia), e le pongono come libertà universali a cui tutte le classi devono aspirare per aver successo nella vita. Si ignora totalmente quindi come la ricchezza di tale classe, poggiandosi sul plusvalore, esiste soltanto in virtù del lavoro umano della classe proletaria: non esistono borghesi senza proletari; e purtroppo per i liberali non si può dire il contrario: la storia dimostra come i proletari, una volta dopo aver preso possesso dei mezzi di produzione e dopo aver liquidato la borghesia, abbiano solo migliorato progressivamente le loro condizioni di vita. 

Partendo da questo presupposto, si arriva alla verità, già esposta nel libro di Domenico Losurdo “Controstoria del liberalismo”, che i liberali servono solo e soltanto la libertà della “comunità dei liberi”, che cambia le sue fattezze, la sua ideologia e le modalità del suo sfruttamento nella produzione nel tempo in funzione dell’evoluzione della contraddizione dialettica tra sviluppo delle forze di produzione e rapporti di produzione stessi. I liberali del secolo XVIII furono i più fedeli difensori della schiavitù (basti leggere cosa scrissero liberali come Grozio, Locke, tutti i primi presidenti statunitensi, i sostenitori chiaramente liberali della causa schiavista degli stati confederati del Sud come Calhoun, eccetera), utilizzando argomenti religiosi e non. Non a caso i più grandi sfruttatori di tale tipologia di forza lavoro, in tale secolo, furono proprio Inghilterra, Portogallo (praticamente controllato dal reame d’oltre Manica), Stati Uniti e Olanda. Tutti, tranne il Portogallo (che ripetiamo essere controllato dagli inglesi), possono dirsi tranquillamente paesi liberali classici che scrissero sulle loro bandiere nella maniera più decisa possibile della libertà di commercio, della parità degli uomini liberi di fronte alla legge, dell’autogestione degli affari dell’uomo libero dalle grinfie dello stato, eccetera.

“Ogni uomo libero della Carolina deve avere assoluto potere e autorità sui suoi schiavi negri qualunque sia la loro opinione e religione” (J. Locke, The fundamental Costitutions of Carolina (1669), Id., Political Writings, a cura di David Wootton, Penguin Books, London-New York.)

La libertà della comunità dei liberi si basa sul completo annullamento e mercificazione di altri esseri umani, non considerati tali agli occhi dei piantatori e dei commercianti dell’epoca, di cui l’ideologia è il liberalismo, che conferma ancora come questa dottrina non rappresenti la libertà universale attaccata da tutti i tipi di collettivismo, bensì la difesa della pura libertà della borghesia che può avere luogo solo sull’annullamento della libertà della classe lavoratrice sfruttata, ieri gli schiavi, oggi i proletari in seguito alle rivoluzioni industriali.

La precedente definizione data da Hayek pone la libertà e la libertà individuale come salubri sinonimi, ma la libertà individuale non è sempre un bene, specie nel momento in cui essa cozza con l’interesse collettivo. Interesse collettivo del quale poi parla in seguito, dicendo: 

“Che si parli di libertà in senso collettivo, piuttosto che individuale, è evidente quando si parla dell’aspirazione di un popolo a liberarsi da un giogo straniero e a poter decidere da sé del proprio destino. In questo caso usiamo «libertà» per indicare l’assenza di coercizione per un popolo nel suo insieme. I difensori della libertà individuale hanno generalmente simpatizzato con queste aspirazioni di libertà nazionale e, durante il XIX secolo, ne è derivata la costante ma travagliata alleanza fra i movimenti liberali e quelli nazionali. Ma, per analogo che sia, il concetto di libertà nazionale non è identico a quello di libertà individuale e la lotta per la libertà nel primo non ha sempre portato a un aumento di quella nel secondo senso. A volte, essa ha indotto popoli a preferire un despota della loro stirpe a un governo liberale composto da una maggioranza straniera; e spesso ha fornito il pretesto per inumane restrizioni della libertà individuale di minoranze. Seppure il desiderio di libertà dell’individuo e il desiderio di libertà del gruppo a cui l’individuo appartiene possa a volte essere fondato su sentimenti analoghi, è pur sempre necessario mantenere i due concetti ben separati” (Ibidem, pag 89) 

Ho dovuto rileggere questa parte più volte perché sono rimasto davvero incredulo di fronte ad un simile revisionismo storico. I rapporti tra il movimento liberale ed il movimento di liberazione nazionale non sono stati né mai potranno essere buoni, evidentemente non è consapevole, o finge di non esserlo, che gli imperi coloniali e gli stati imperialisti sono sorti proprio in quei paesi – Inghilterra, Francia, Stati Uniti ed altri – che più di tutti cantavano le lodi delle virtù liberali e che più di tutti sbandieravano il dogma della libertà individuale. 

Da questa citazione d’un classico indiscusso del pensiero liberale, giungiamo ad una tesi cruciale per ciò che concerne la tattica del movimento liberale nei confronti del grande tema dei movimenti di liberazione nazionale, che ha accompagnato la storia degli ultimi due secoli con un indiscusso peso. Poniamo l’accento sul fatto che, inizialmente, Hayek è fiero nel testimoniare che i liberali, nel secolo decimonono, “hanno generalmente simpatizzato con queste aspirazioni di libertà nazionale” (riferimento palese all’Italia ed alla Germania); ma, purtroppo, in un secondo momento, Hayek è obbligato a constatare con rammarico che “A volte, essa [la libertà nazionale. ndr] ha indotto popoli a preferire un despota della loro stirpe ad un governo liberale composto da una maggioranza straniera; e spesso ha fornito il pretesto per inumane restrizioni della libertà individuale di minoranze.”

I liberali quindi non supportano, in generale, i movimenti di liberazione nazionale. Non si sono mai detti esplicitamente favorevoli a delle lotte popolari col fine ultimo di liberare delle comunità nazionali dal giogo straniero. Questo perché, in genere queste rivolte non sono state guidate da una colta e moderata élite liberale parlamentarista, col fine di portare nel paese una rivoluzione politica che possa tenere lontano lo stato dagli affari dei gentiluomini, ma da rozzi abitanti di popoli non ancora evoluti e considerati intellettualmente inferiori dai liberali del tempo. 

Basti pensare a come nel movimento liberale del tempo fosse radicata l’opinione della correlazione tra spirito di libertà dei popoli e clima. Grazie a questa narrazione si riusciva a giustificare la schiavitù dei popoli del sud da parte di quelli del nord. Lasciamo spiegare questa teoria a Losurdo, che cita a riguardo classici del pensiero liberale:

“Vi sono dei paesi dove il calore snerva il corpo e diminuisce talmente il coraggio che gli uomini sono spinti ad un dovere penoso solo dalla paura della punizione: qui la schiavitù, dunque, offende [choque] meno la ragione». In tal caso, se non con la ragione astratta, la schiavitù è in consonanza con la «ragione naturale» (raison naturelle), che tiene conto del clima e delle circostanze concrete (EL, XV, 7). E’ vero, per un altro verso Montesquieu osserva che «non c’è forse clima sulla terra ove non si possano impiegare al lavoro uomini liberi» (EL, XV, 8). Ma se qui il tono è problematico, ben più netta suona invece l’affermazione secondo cui è necessario «distinguere bene» i paesi in cui il clima può essere in qualche modo un elemento di giustificazione della schiavitù da quei paesi in cui «anche le ragioni naturali la respingono, come i paesi d’Europa dove la schiavitù è stata fortunatamente abolita» (EL, XV, 7). E, dunque, bisogna prendere atto della «inutilità della schiavitù tra noi», «nei nostri climi» e «limitare la schiavitù naturale [servitude naturelle] a certi particolari paesi» (EL, XV, 7-8). ”(Domenico Losurdo, “Controstoria del liberalismo”, Edizioni Laterza, Bari 2005, pp. 141-142)

Ed anche

“Leggiamo Raynal e Diderot: «I primi passi dei conquistatori furono contrassegnati da fiumi di sangue […]. Nell’ebbrezza del loro successo, presero la decisione di sterminare coloro che avevano derubato. Innumerevoli popoli scomparvero dalla faccia della terra all’arrivo di questi barbari», che presero a «trattare senza rimorso i fratelli da poco scoperti come trattavano le bestie selvagge dell’antico emisfero». La denuncia dello sterminio degli indios si salda con la condanna della tratta dei neri chiamati a sostituirli nel lavoro. E comunque non è solo nel Nuovo Mondo che i «barbari europei» si macchiano di genocidio: anche gli «infelici ottentotti» subiscono un massacro «senza pietà».” (Ibidem, pp. 711-712)

Dopodiché

“E ora vediamo, invece, in che modo argomenti Edgar Quinet. Nel 1845, nel tracciare a grandi linee la storia dell’Occidente, lo storico liberale francese s’imbatte nella conquista spagnola dell’America. Non può tacere dello sterminio delle popolazioni indigene, ma trova una spiegazione al tempo stesso ingegnosa e rassicurante: è vero, esso è stato consumato ad opera della Spagna, un paese che è sì parte integrante dell’Occidente, ma che in quel momento si trovava sotto l’influsso decisivo della cultura e della religione dell’islam; che così risulta essere il carnefice vero benché indiretto degli indios. La medesima strategia argomentativa viene adottata per le altre pagine nere della storia dell’Occidente. L’Inquisizione non ha avuto il suo centro in una Spagna largamente influenzata dai barbari? E la crociata che annienta senza distinzioni di età e di sesso gli eretici albigesi non è stata forse preparata dalla predicazione dello spagnolo san Domenico di Guzmàn? Attraverso la Spagna, tutti gli indizi conducono verso l’islam, sul cui conto vengono messe perfino le crociate vere e proprie, quelle che come bersaglio dichiarato hanno per l’appunto gli «infedeli» musulmani. Quinet sentenzia: «La chiesa cattolica detta nelle Crociate il principio dell’islamismo: lo sterminio».”

(Ibidem, pp. 713-714)

Poi ancora 

“Ma non è solo l’islam a essere bollato come sinonimo di barbarie. Per tanto tempo la grande cultura europea aveva guardato con curiosità e interesse alla Cina: dov’erano le guerre di religione che insanguinavano l’Europa? Esse erano impedite da una religione che rifuggiva dal mistero e dal dogma, risolvendosi nell’etica. Per i philosophes era più facile riconoscersi nei mandarini che non nel clero cattolico o nei pastori protestanti. L’importanza del ruolo svolto da un ceto di intellettuali laici nel grande paese asiatico era confermata dal fatto che là le più alte cariche dell’amministrazione erano spesso assegnate mediante concorso pubblico piuttosto che essere appannaggio, come avveniva in Francia, di un’aristocrazia nobiliare, alleata e intrecciata col clero. In ogni caso, in Cina il principio laico e moderno del merito aveva la meglio sul principio oscurantista del privilegio fondato sulla nascita e sul sangue. Questa attenzione simpatetica dell’illuminismo per le culture extra-europee, utilizzate come specchio critico dell’Europa, diviene un capo d’accusa nella requisitoria sviluppata da Tocqueville: i philosophes hanno guardato come a un «modello» alla Cina, a «quel governo imbecille e barbaro, che un pugno di europei padroneggia a proprio talento». (Ibidem, pp. 714-715)

Continuando Losurdo sottolinea che “[…] in Tocqueville alla celebrazione della guerra, quale espressione della grandezza della nazione e quale antidoto al volgare edonismo del movimento socialista, corrisponde l’ulteriore aggravarsi della requisitoria contro la Cina, messa in stato d’accusa anche per il suo carattere imbelle. Il liberale francese esibisce il suo disprezzo nei confronti di un paese, il cui esercito ama «vivacchiare tranquillamente», sopraffatto com’è dal «generale rammollimento delle idee e dei desideri». Per fortuna tutto ciò facilita la conquista: «Sarebbe difficile per me consolarmi se, prima di morire, non vedessi la Cina aperta e l’occhio dell’Europa penetrarvi con le sue armi».

(Ibidem, pp. 715-716)

Anche altri liberali europei non fanno eccezione, tra i quali Walter Bagehot, giornalista britannico in merito del quale leggiamo

“Qualche anno dopo, in occasione della Comune, da buon liberale Bagehot esprime il suo sdegno per il comportamento degli insorti, cui egli rimprovera di aver voluto distruggere tutto quello che a Parigi è degno di essere visto e ammirato, ogni testimonianza della «cultura» e della civiltà. Viene così dato credito alla voce, rivelatasi poi infondata, secondo la quale i comunardi avrebbero distrutto il Louvre; ma in tale requisitoria non si fa cenno alla distruzione realmente avvenuta circa dieci anni prima del Palazzo d’Estate a Pechino, con la decisiva partecipazione del paese che per Bagehot è l’incarnazione privilegiata della causa della libertà e della civiltà.” (Ibidem, pp. 716-717)

Quindi Losurdo dopo aver elencato questa sequela di fatti ci pone davanti ad una riflessione, di profonda importanza per il mondo odierno

“Giunto al trionfo planetario, l’Occidente liberale ritiene di identificarsi in modo permanente con la causa della civiltà e della libertà. A partire da questa assoluta e immodificabile preminenza vediamo un’élite esclusiva, la ristretta comunità dei liberi, formulare in modo esplicito la pretesa, fino a quel momento ignota e inaudita, di esercitare una dittatura planetaria sul resto dell’umanità.”

(Ibidem, pp. 717-718)

Da qui si capisce come i liberali, al contrario di radicali e socialisti, dividano nettamente in due il mondo: da una parte i paesi nord-atlantici, chi più chi meno, liberalizzati ed industrializzati, che colonizzano e castigano popoli inferiori destinati a tale trattamento dalla ragione. Quindi quali sarebbero queste ribellioni nazionali supportate dai liberali? Di sicuro non quelle dei popoli del terzo mondo, di cui i cardini del pensiero liberare giustificano la schiavitù (abbiamo visto Montesquieu) e le guerre di colonizzazione contro questi popoli. Su questo secondo tema basti pensare a come i principali pensatori liberali di quel tempo giustifichino i soprusi coloniali contro i popoli indiano d’America, irlandese ed algerino dalle rispettive forze liberal-imperialiste. Particolare fu il ruolo del liberalismo contro gli Indiani d’America

“La ribellione dei coloni inglesi in America è accompagnata da un’altra grande polemica. Per tanto tempo, come la sorte dei neri così quella degli indiani non aveva in alcun modo turbato la profonda convinzione degli inglesi da una parte e dall’altra dell’Atlantico di essere il popolo eletto della libertà. In un caso e nell’altro ci si richiamava a Locke ai cui occhi, come vedremo, i nativi del Nuovo Mondo sono assai vicini alle «bestie selvagge». Ma con l’insorgere del conflitto tra colonie e madrepatria, lo scambio di accuse investe anche il problema del rapporto con i pellerossa. L’Inghilterra – proclama Paine nel 1776 – è «la potenza barbara e infernale che ha incitato i negri e gli indiani a distruggerci» ovvero a «tagliare la gola degli uomini liberi in America». Analogamente, la Dichiarazione d’indipendenza rimprovera a Giorgio III non solo di aver «fomentato rivolte entro i nostri confini» degli schiavi neri, ma anche di aver «cercato di aizzare gli abitanti delle nostre frontiere, gli spietati e selvaggi indiani, il cui modo di guerreggiare è, com’è noto, un massacro indiscriminato, senza estinzione di età, di sesso o di condizione». Nel 1812, in occasione di una nuova guerra tra le due “rive dell’Atlantico, Madison condanna l’Inghilterra per il fatto di colpire con la sua flotta indiscriminatamente la popolazione civile senza risparmiare né donne né bambini, e dunque con una condotta simile a quelle dei «selvaggi» pellerossa. Da complici dei barbari gli inglesi diventano barbari essi stessi.

In realtà, la polemica inizia già molto prima, in seguito al Proclama della Corona che, nel 1763, cerca di bloccare o contenere l’espansione dei bianchi a Ovest dei monti Allegani. E’ una misura che non piace ai coloni e a George Washington, che la considera «un espediente temporaneo», destinato a essere rapidamente superato, ma di cui non conviene tener conto neppure nell’immediato: sciocco è colui «che trascura la presente opportunità di andare a caccia di buona terra». Fra tali «sciocchi» non rientra il futuro presidente degli Stati Uniti. In questa nuova veste, se da un lato nei discorsi ufficiali egli dichiara di voler apportare «le benedizioni della civiltà» e la «felicità» a «una razza non illuminata» (an unenlightened race of men), dall’altro nella corrispondenza privata assimila i «selvaggi» pellerossa a «bestie selvagge della foresta» ( Wild Beasts of the Forest). Stando così le cose, assurda e perfino immorale era stata la pretesa della Corona inglese di bloccare l’ulteriore espansione dei coloni, la quale invece – proclama Washington in una lettera del 1783 – costringerà «il selvaggio così come il lupo a ritirarsi».

A tale proposito ancora più drastico si rivela Franklin, che nella sua Autobiografia osserva: «Se rientra tra i disegni della Provvidenza estirpare questi selvaggi al fine di fare spazio ai coltivatori della terra, mi sembra probabile che il rum sia lo strumento appropriato. Esso ha già annientato tutte le tribù che precedentemente abitavano la costa».

Rientra in una sorta di piano eugenetico di ispirazione divina la decimazione o l’annientamento di un popolo che adora «il Demonio». La de-umanizzazione dei pellerossa è sottoscritta anche da coloro che in Inghilterra si pronunciano per la conciliazione coi ribelli. Il tentativo della Corona di bloccare la marcia espansionistica dei coloni appare agli occhi di Burke assurdo e sacrilego, in quanto «volto a proibire come crimine ed a sopprimere come male il comandamento e la benedizione della Provvidenza: ‘Crescete e moltiplicatevi’». Si tratta, in ultima analisi, di un infausto «sforzo inteso a conservare come tana di bestie feroci [wild beasts] quella terra che Dio ha espressamente concesso ai figli dell’uomo».” (Ibidem, pp. 53-56)

Torniamo su Alexis de Tocqueville, sempre nell’opera di Domenico Losurdo leggiamo 

“In Tocqueville il modello americano si fa sentire con particolare chiarezza soprattutto allorché egli affronta il problema dell’Algeria. Illuminante è la lettera inviata il 22 luglio 1846 a Francis Lieber:

[…] La guerra è divenuta per noi e resterà, fin tanto che non avremo contese in Europa, il lato secondario. Quello principale è oggi la colonizzazione, è come attirare e soprattutto trattenere in Algeria una grande popolazione europea di coltivatori. Abbiamo già 100.000 cristiani in Africa, senza contare l’esercito. Ma essi si sono quasi tutti stabiliti nelle città, che diventano grandi e belle città, mentre le campagne restano deserte. E’ impossibile occuparsi della colonizzazione in Africa senza pensare ai grandi esempi forniti in questo campo dagli Stati Uniti. Ma come studiarli? Sono stati pubblicati negli Stati Uniti sia dei libri, sia dei documenti di qualsiasi genere che possano illuminarci su questo punto e che ci facciano conoscere in che modo si svolgano le cose? Si potrebbero trovare queste indicazioni nei rapporti ufficiali o di altro genere? Tutto ciò che potrete procurarci a tale proposito sarà accolto da noi con grande riconoscenza.” (Ibidem, pp. 534-535)

Continuando a leggere troviamo altre perle di Tocqueville, il quale dice che 

“Ho spesso udito in Francia uomini che rispetto ma che non appoggio considerare riprovevole il fatto che si brucino i raccolti, che si svuotino i silos e che infine ci si impadronisca degli uomini disarmati, delle donne e dei bambini.

Si tratta, secondo me, di necessità spiacevoli, ma alle quali sarà costretto a sottomettersi ogni popolo che vorrà fare la guerra agli arabi.” (Citato in Domenico Losurdo, Controstoria del liberalismo, Edizioni Laterza, Bari 2005, pp. 536)

Oramai al lettore sarà chiaro come la realtà sia diametralmente opposta a quella che Hayek vorrebbe far credere: i liberali sono solo per gli interessi dell’espansione di quel mercato che viene rispettato solo dai popoli liberi e bianchi del nordatlantico. Un interessante collegamento con l’attualità si può avere col vedere come numerosi liberali odierni supportino il processo di colonizzazione intrapreso dall’Entità Sionista in Palestina, contro il popolo indigeno che vive in quella regione da più di mille anni. La principale argomentazione infatti di questi liberali sionisti e che Israele offra un modello di civiltà più avanzata su temi liberali classici come i diritti civili delle minoranze, la tutela della libertà privata, le libere elezioni, eccetera, rispetto ad un mondo arabo considerato come barbaro ed inferiore alla civiltà occidentale di cui è figlia l’Entità Sionista. Ovviamente in questo caso i liberali odierni, nel difendere Israele, passano sopra i crimini contro l’umanità, l’apartheid, le stragi e gli espropri di cui è oggetto il popolo palestinese, confinato ormai in vere e proprie riserve. Ogni parallelismo con le argomentazioni dei liberali del secolo decimonono è d’obbligo. Anche lì, come abbiamo visto, si parla di giusta oppressione dei popoli superiori d’Inghilterra, USA e Francia contro i popoli inferiori e rinnegatori della libertà, rispettivamente, indiano d’America ed algerino. 

Alcuni liberali hanno, a cavallo tra i secoli decimonono e ventesimo, esclusivamente supportato le ribellioni, non dei popoli coloniali oppressi dall’imperialismo, ma delle varie borghesie, governatrici dispotiche delle colonie. Il mondo liberale s’è più volte diviso infatti, come spiega bene Losurdo in molti passaggi del libro più volte citato, sulla base dei conflitti tra uomini liberi delle colonie contro la loro madrepatria che cerca d’opprimere la loro libertà, ma che viene da alcuni liberali difesa in quanto patria della libertà nel mondo. E’ il caso della rivoluzione statunitense, dei primi inizi delle rivoluzioni in America Latina e della guerra di secessione statunitense. Su tutte e tre possiamo citare le parti dedicate nell’opera di Losurdo:

“Sia nella metropoli che nelle colonie la rivoluzione francese conosce una trasformazione in senso radicale. Per chiarire ulteriormente tale processo, possiamo prendere le mosse dalla definizione che, nel corso della lotta contro l’assolutismo Stuart, agli inizi del movimento liberale inglese, un suo esponente dà della «vera libertà» a lui cara: «In virtù di una certa legge noi sappiamo che le nostre mogli, i nostri figli, i nostri servi, i nostri beni appartengono a noi [are our own], che noi edifichiamo, ariamo, seminiamo, raccogliamo per noi stessi»81. E’ accaduto, però, che i «nostri servi» non hanno subito in modo passivo l’assimilazione ai «nostri beni» e, in contrapposizione alla «vera libertà» cara all’esponente già visto del proto-liberalismo inglese, hanno rivendicato una libertà del tutto diversa, che esigeva l’intervento del potere politico al fine di liquidare il servaggio nelle sue diverse forme e promuovere in qualche modo l’emancipazione delle classi subalterne. E’ quello che si verifica in Francia, grazie anche al contesto storicamente favorevole già analizzato. Nella metropoli, al primo inizio “liberale della rivoluzione fa immediatamente seguito la rivolta dei servi delle campagne (con la fine, suggellata la notte del 4 agosto 1789, del sistema feudale) e, successivamente, l’agitazione delle masse popolari urbane. Il secondo inizio liberale, che avrebbe dovuto consacrare l’autogoverno dei proprietari di schiavi, finisce con lo stimolare la rivoluzione degli schiavi stessi. Questi conseguono l’emancipazione e, più tardi, riescono a bloccare la terribile macchina da guerra della Francia napoleonica.

Un’analoga dialettica si manifesta in America Latina. Inizialmente, il movimento indipendentista e la rivoluzione si configurano come reazione alle riforme della Corona spagnola, che «rovesciano la vecchia politica di segregazione degli indiani e li sollecitano ad assimilarsi parlando spagnolo e vestendosi all’europea». Tali misure di integrazione non tardano a suscitare l’ostilità dell’élite creola. Questa si professa ed è liberale, legge Locke, Montesquieu, Adam Smith, cerca talvolta di entrare in rapporto con Jefferson, protesta contro le interferenze del governo centrale e contro gli ostacoli da esso frapposti allo sviluppo dell’industria locale, aspira a seguire l’esempio della rivoluzione americana. Come per i coloni inglesi al Nord, anche per i creoli latino-americani al Sud, in quanto proprietà privata del piantatore, lo schiavo non attiene alla sfera pubblica; nei diversi manifesti che segnano l’inizio della guerra d’indipendenza contro la Spagna, non c’è alcuna presa di posizione a favore dell’abolizione della schiavitù.” (Ibidem, pp. 340-342)

Inoltre

“Abbiamo visto O’Sullivan, avvocato e giornalista di New York, considerare il Sud il luogo più adatto, confinante com’era col Messico e l’America Latina, per depositare provvisoriamente i neri, prima della loro emancipazione e deportazione al di fuori degli Stati Uniti. Il Sud costituiva, dunque, un territorio non del tutto incontaminato dalla barbarie dei neri che vi risiedevano in qualità di schiavi. La comunanza coi neri e la contaminazione sessuale, testimoniata dall’elevato numero di mulatti – rincarava la dose l’abolizionista Theodore Parker -, avevano lasciato tracce profonde anche sui bianchi del Sud: era per “l’appunto l’influenza dell’«elemento africano» a spiegare l’attaccamento a un’istituzione contraria ai principi della libertà. E come aveva fatto l’America pre-rivoluzionaria e rivoluzionaria, così anche il Sud protesta contro la tendenziale esclusione, di cui si sente vittima, dall’autentica comunità dei liberi. Non più le colonie americane nel loro complesso, ora sono gli Stati del Sud a sentirsi accostati al «mondo barbarico moderno» di cui parla Blackstone.

Assieme a quello appena visto ritornano gli altri aspetti del contenzioso che avevano contrapposto i coloni ribelli all’Inghilterra. Agli occhi di Calhoun, gli abolizionisti del Nord, che vorrebbero cancellare la schiavitù mediante una legge federale, calpestano il diritto di ogni singolo Stato all’autogoverno e pretendono di fondare l’Unione sulla schiavitù politica, sul «legame tra padrone e schiavo». Il Nord reagisce ironizzando, ovviamente, su questa appassionata difesa della libertà, condotta dal Sud «democratico» e schiavista. Per comprendere l’ulteriore replica da parte di quest’ultimo, conviene ritornare per un attimo a Franklin. Rispondendo ai suoi interlocutori inglesi, che si facevano beffe della bandiera della libertà agitata dai coloni ribelli e dai proprietari di schiavi, egli non si era limitato a ricordare gli interessi e l’impegno della Corona nella tratta dei neri. Aveva fatto valere un secondo argomento, richiamando l’attenzione sul fatto che la schiavitù e la servitù non erano dileguate neppure dall’altra parte dell’Atlantico: in particolare, i minatori della Scozia sono «in tutto e per tutto schiavi [absolute Slaves] in base alla vostra legge»; essi «furono comprati e venduti con la miniera di carbone, e non sono liberi di lasciarla più di quanto non lo siano i nostri negri di lasciare la piantagione del padrone». Gli autori della denuncia contro la schiavitù nera erano i responsabili di una schiavitù bianca, non certo migliore di quella da loro condannata con tanta veemenza.” (Ibidem, pp. 141-144)

E

“Sostanzialmente incontrastata in paesi come la Spagna o la Prussia, la schiavitù «alligna in tutti i terreni» tranne che in quello inglese. E’ assurdo allora voler piegare con la forza i coloni ribelli: «un inglese è la persona meno adatta al mondo a cercar di indurre con argomenti un altro inglese a sottostare alla schiavitù».

Ovviamente, la schiavitù di cui qui si parla è la schiavitù di cui si rende responsabile il monarca assoluto. L’altra, quella che incatena i neri, è qui taciuta. Allorché diventa irreversibile la rivoluzione, ovvero la «guerra civile» con tutti i suoi «orrori», come preferiscono dire i lealisti fedeli alla Corona e gli stessi uomini politici inglesi favorevoli al compromesso e al mantenimento dell’unità della «nazione» e della «razza» inglesi, il quadro cambia in modo sensibile. Chiaro è l’elemento di continuità. Ognuna delle due parti contrapposte accusa l’altra di voler reintrodurre il dispotismo, la «schiavitù» politica. La requisitoria dei coloni ribelli è ampiamente nota: essi non si stancano di denunciare la tirannide della Corona e del Parlamento inglesi, il loro folle progetto di sottoporre i residenti in America a una condizione di «servitù perpetua e schiavitù». Ma la risposta non si fa attendere. Già nel 1773 un lealista di New York lancia un monito: finora «siamo stati in guardia contro gli attacchi esterni alla nostra libertà» (il riferimento è alla guerra dei Sette anni), sennonché è sopraggiunto un pericolo ben più insidioso, quello di «essere schiavizzati da tiranni interni». Sempre a New York, un altro lealista ribadisce due anni dopo: i ribelli aspirano a «ridurci peggio degli schiavi».I due tronconi in cui il partito liberale si è scisso riprendono, in polemica l’uno con l’altro, l’ideologia e la retorica che aveva presieduto all’auto-celebrazione della nazione inglese nel suo complesso come nemica giurata della schiavitù politica.

La novità è che, sull’onda dello scambio reciproco di accuse, assieme a quella politica irrompe pesantemente nella polemica anche l’altra schiavitù, quella che entrambi i tronconi avevano rimosso come elemento di disturbo della loro orgogliosa autocoscienza di membri del popolo e del partito della libertà. Agli occhi dei coloni ribelli il governo di Londra, il quale impone in modo sovrano la tassazione a cittadini o sudditi che pure non sono rappresentati nella Camera dei Comuni, si comporta come un padrone nei confronti dei suoi schiavi. Ma – obiettano gli altri – se proprio di schiavitù si deve parlare, perché non cominciare a mettere in discussione quella che si manifesta in forma brutale e inequivocabile proprio là dove più appassionatamente si inneggia alla libertà? Già nel 1764 Benjamin Franklin, in quel momento a Londra a perorare la causa dei coloni, deve fronteggiare i commenti sarcastici dei suoi interlocutori:

Voi americani fate un gran chiasso per ogni minima immaginaria violazione di quelle che ritenete le vostre libertà; eppure su questa terra non esiste un popolo così nemico della libertà, così assolutamente tirannico com’è il vostro, quando ciò gli fa comodo.

I sedicenti campioni della libertà bollano come sinonimo di dispotismo e di schiavitù un’imposizione fiscale varata senza il loro esplicito consenso, ma non si fanno scrupoli di esercitare il potere più assoluto e più arbitrario a danno dei loro schiavi. E’ un paradosso: «Come si spiega che le più alte grida di dolore per la libertà le udiamo levarsi dai cacciatori di negri?» – si chiede Samuel Johnson. In modo analogo, al di là dell’Atlantico ironizzano coloro che cercano di contrastare la secessione. Thomas Hutchinson, governatore regio del Massachusetts, rimprovera ai ribelli la loro incoerenza o ipocrisia: negano nel modo più radicale agli africani quei diritti che pure proclamano essere «assolutamente inalienabili». A lui fa eco un lealista americano (Jonathan Boucher), rifugiatosi poi in Inghilterra il quale, riandando con la memoria agli avvenimenti che l’avevano costretto all’esilio, osserva: «I più chiassosi avvocati della libertà erano i più duri e più malvagi padroni di schiavi».

A esprimersi con tale durezza non sono soltanto le personalità più direttamente coinvolte nella polemica e nella lotta politica. 

“Pungente in modo particolare è l’intervento di John Millar, esponente di primo piano dell’illuminismo scozzese:

È singolare che gli stessi individui che parlano con stile raffinato di libertà politica e che considerano come uno dei diritti inalienabili dell’umanità il diritto di imporre le tasse non abbiano scrupolo di ridurre una grande proporzione delle creature a loro simili in condizioni tali da essere private non solo della proprietà, ma anche di quasi tutti i diritti. La fortuna non ha forse prodotto una situazione più di questa in grado di ridicolizzare un’ipotesi liberale o di mostrare quanto poco la condotta degli uomini sia, in fondo, orientata da qualche principio filosofico.

Millar è un discepolo di Adam Smith. Anche il maestro sembra pensarla allo stesso modo. Allorché dichiara che al «governo libero», controllato dai proprietari di schiavi, preferisce il «governo dispotico» capace di cancellare l’infamia della schiavitù, egli fa esplicito riferimento all’America. Ritradotto in termini immediatamente politici, il discorso del grande economista suona: il dispotismo rimproverato alla Corona è comunque preferibile alla libertà rivendicata dai proprietari di schiavi e di cui beneficia solo una classe ristretta di piantatori e padroni assoluti. Ancora oltre si spingono gli abolizionisti inglesi, i quali chiamano a difendere le istituzioni britanniche, minacciate dagli «usi arbitrari e disumani che prevalgono in un lontano paese». Tanto arbitrari e disumani che, come risulta dall’annuncio pubblicitario riportato dal «New York Journal», una donna nera e suo figlio di tre anni vengono venduti separatamente sul mercato, come se si trattasse di una vacca e di un vitello. E dunque – conclude nel 1769 Granville Sharp – non bisogna lasciarsi ingannare dalla «magniloquenza teatrale e dalle declamazioni in onore della libertà», cui fanno ricorso i ribelli schiavisti; contro di essi bisogna decidersi a difendere con energia le libere istituzioni inglesi.

Gli accusati reagiscono rimproverando a loro volta all’Inghilterra la sua ipocrisia: essa si vanta della sua virtù e del suo amore per la libertà, ma chi ha promosso e continua a promuovere la tratta dei neri? E chi trasporta e vende gli schiavi? E’ così che argomenta Franklin, agitando un motivo che poi diviene centrale nel progetto iniziale di Dichiarazione d’indipendenza, elaborato da Jefferson. Ecco in che modo nella versione originaria di questo documento solenne sono messi in stato d’accusa l’Inghilterra liberale scaturita dalla Gloriosa Rivoluzione e Giorgio III. Egli ha intrapreso una crudele guerra contro lo stesso genere umano, violando i più sacri diritti alla vita e alla libertà delle persone di un lontano popolo che mai gli recò offesa, facendole prigioniere e trasportandole in un altro emisfero come schiave, o mandandole incontro a una squallida morte durante il trasferimento. Questa guerra piratesca, vergogna delle potenze infedeli, è la guerra del re CRISTIANO di Gran Bretagna. Deciso a tenere aperto un mercato dove si vendono e comprano UOMINI, egli ha prostituito il suo diritto di veto reprimendo ogni tentativo legislativo che vietasse o limitasse questo esecrabile commercio.”

(Ibidem, pp. 43-50)

Successivamente

“In tale circostanza, mentre gli abolizionisti riprendono, nella polemica contro il Sud, gli argomenti utilizzati al tempo della guerra americana di indipendenza dagli inglesi e dai lealisti, i teorici del Sud fanno ricorso agli argomenti agitati dai coloni ribelli. Abbiamo visto O’Sullivan, avvocato e giornalista di New York, considerare il Sud il luogo più adatto, confinante com’era col Messico e l’America Latina, per depositare provvisoriamente i neri, prima della loro emancipazione e deportazione al di fuori degli Stati Uniti. Il Sud costituiva, dunque, un territorio non del tutto incontaminato dalla barbarie dei neri che vi risiedevano in qualità di schiavi. La comunanza coi neri e la contaminazione sessuale, testimoniata dall’elevato numero di mulatti – rincarava la dose l’abolizionista Theodore Parker -, avevano lasciato tracce profonde anche sui bianchi del Sud: era per l’appunto l’influenza dell’«elemento africano» a spiegare l’attaccamento a un’istituzione contraria ai principi della libertà. E come aveva fatto l’America pre-rivoluzionaria e rivoluzionaria, così anche il Sud protesta contro la tendenziale esclusione, di cui si sente vittima, dall’autentica comunità dei liberi. Non più le “colonie americane nel loro complesso, ora sono gli Stati del Sud a sentirsi accostati al «mondo barbarico moderno» di cui parla Blackstone.

Assieme a quello appena visto ritornano gli altri aspetti del contenzioso che avevano contrapposto i coloni ribelli all’Inghilterra. Agli occhi di Calhoun, gli abolizionisti del Nord, che vorrebbero cancellare la schiavitù mediante una legge federale, calpestano il diritto di ogni singolo Stato all’autogoverno e pretendono di fondare l’Unione sulla schiavitù politica, sul «legame tra padrone e schiavo». Il Nord reagisce ironizzando, ovviamente, su questa appassionata difesa della libertà, condotta dal Sud «democratico» e schiavista. Per comprendere l’ulteriore replica da parte di quest’ultimo, conviene ritornare per un attimo a Franklin. Rispondendo ai suoi interlocutori inglesi, che si facevano beffe della bandiera della libertà agitata dai coloni ribelli e dai proprietari di schiavi, egli non si era limitato a ricordare gli interessi e l’impegno della Corona nella tratta dei neri. Aveva fatto valere un secondo argomento, richiamando l’attenzione sul fatto che la schiavitù e la servitù non erano dileguate neppure dall’altra parte dell’Atlantico: in particolare, i minatori della Scozia sono «in tutto e per tutto schiavi [absolute Slaves] in base alla vostra legge»; essi «furono comprati e venduti con la miniera di carbone, e non sono liberi di lasciarla più di quanto non lo siano i nostri negri di lasciare la piantagione del padrone». Gli autori della denuncia contro la schiavitù nera erano i responsabili di una schiavitù bianca, non certo migliore di quella da loro condannata con tanta veemenza.

In modo analogo, in occasione del conflitto che, maturando per decenni, giunge al punto di rottura con la guerra di Secessione, il Sud ribatte in due modi alle accuse lanciate contro di esso: sottolinea che il Nord e l’Inghilterra abolizionista non hanno titoli per impartire lezioni neppure per quanto riguarda il trattamento dei neri (e dei popoli coloniali in genere); evidenzia quanto di schiavistico continui a esserci nella società industriale fondata in teoria sul lavoro «libero».

Ci soffermiamo per ora sul primo punto. Già in occasione della Convenzione di Filadelfia, i proprietari di schiavi respingono le prediche a loro rivolte in nome della morale, facendo notare che dall’istituto della schiavitù ricava grandi vantaggi anche il Nord, la cui marina mercantile provvede al trasporto degli schiavi e delle merci da essi prodotte. Sì, a partire dal 1808 scatta il divieto previsto dalla Costituzione federale di «immigrazione o introduzione» degli schiavi neri. Resta però il fatto – osservano gli ideologi del Sud – che i neri del Nord, oltre a subire la miseria e l’oppressione lì riservate ai poveri in generale, sono esposti a maltrattamenti e violenze di ogni genere, come dimostra l’esplosione periodica di veri e propri pogrom. Ancora più ripugnante è – sottolinea in particolare Calhoun negli anni che precedono la guerra di Secessione – l’ipocrisia dell’Inghilterra (il paese che, avendo abolito la schiavitù nelle sue colonie, è divenuto il modello degli abolizionisti americani): «la maggiore trafficante di schiavi della terra», il paese «più di ogni altro responsabile dell’estensione di questa forma di servitù» nel continente americano, si impegna poi ad agitare la bandiera dell’abolizionismo, con l’intento di attrarre nelle sue colonie la produzione lucrosa di tabacco, cotone, zucchero, caffè e di mandare in rovina i possibili concorrenti. In realtà, quali risultati ha prodotto nelle colonie inglesi la presunta emancipazione degli schiavi? La condizione dei neri non è per nulla migliorata, la libertà è nel loro caso più che mai un miraggio, mentre indiscussa continua a essere «la supremazia della razza europea». Inevitabilmente, allorché si trovano a convivere «due razze di diverso colore» e nettamente disuguali per quanto riguarda cultura e civiltà, la razza inferiore è destinata a essere assoggettata. Proprio il paese che si erge a campione della lotta contro la schiavitù si distingue in direzione del tutto opposta: non solo fa ricorso al lavoro degli «schiavi» in India e nelle altre colonie, ma «tiene in uno stato di soggezione senza limiti non meno di centocinquanta milioni di esseri umani, dispersi in ogni parte del globo». Un riferimento ancora più esplicito alla sorte dei coolies troviamo in un altro eminente rappresentante del Sud, e cioè George Fitzhugh, e ancora una volta a essere messa in stato d’accusa è l’Inghilterra, che si vanta di aver abolito la schiavitù nelle sue colonie: in realtà, gli «schiavi temporanei» provenienti dall’Asia, che hanno preso il posto dei neri, sono «costretti a morire di lavoro prima della scadenza del loro servizio», ovvero a morire, successivamente, di inedia.

A grandi linee, la polemica sviluppatasi alla vigilia e nel corso della guerra di Secessione riproduce e riprende quella verificatasi, alcuni decenni prima, in occasione dello scontro fra le due rive dell’Atlantico.” (Ibidem, pp. 165-171)

Una situazione simile a quella della rivoluzione francese si ha in America Latina, infatti

“Inizialmente, il movimento indipendentista e la rivoluzione si configurano come reazione alle riforme della Corona spagnola, che «rovesciano la vecchia politica di segregazione degli indiani e li sollecitano ad assimilarsi parlando spagnolo e vestendosi all’europea». Tali misure di integrazione non tardano a suscitare l’ostilità dell’élite creola. Questa si professa ed è liberale, legge Locke, Montesquieu, Adam Smith, cerca talvolta di entrare in rapporto con Jefferson, protesta contro le interferenze del governo centrale e contro gli ostacoli da esso frapposti allo sviluppo dell’industria locale, aspira a seguire l’esempio della rivoluzione americana. Come per i coloni inglesi al Nord, anche per i creoli latino-americani al Sud, in quanto proprietà privata del piantatore, lo schiavo non attiene alla sfera pubblica; nei diversi manifesti, che segnano l’inizio della guerra d’indipendenza contro la Spagna, non c’è alcuna presa di posizione a favore dell’abolizione della schiavitù. […] Bolìvar inizia come liberale, richiamandosi a Montesquieu, sottolineando la necessità di «una Costituzione liberale» e di «atti eminentemente liberali», che devono sancire «i diritti dell’uomo, la libertà di agire, di pensare, di parlare e di scrivere» nonché «la divisione e l’equilibrio dei poteri, la libertà civile, di coscienza, di stampa», insomma «tutto ciò che di sublime vi è nella politica»; celebra la «Costituzione britannica» e, soprattutto, quella americana, la «più perfetta delle Costituzioni»89. Epperò, allorché rivendica non solo la libertà ma la «libertà assoluta degli schiavi», Bolìvar prende di fatto le distanze dagli Stati Uniti dove, anche al Nord, i neri sono reclusi in una casta che non è quella degli uomini realmente liberi. E questa presa di distanza dalla repubblica nord-americana è confermata dall’ulteriore osservazione, in base alla quale «è impossibile essere liberi e schiavi al tempo stesso». Ma è soprattutto significativo un altro elemento: la rivoluzione dal basso degli schiavi, che negli Stati Uniti costituiva un incubo generalizzato, diviene ora oggetto di esplicita celebrazione. Bolìvar non solo si richiama alla «storia degli iloti, di Spartaco e di Haiti», ma nel far ciò, definisce l’identità venezuelana e latino-americana in un modo sul quale vale la pena di riflettere:

Teniamo presente che il nostro popolo non è né europeo né nord-americano; anziché un’emanazione dell’Europa, esso è un misto di Africa e di America, perché la Spagna stessa cessa di essere Europa per il suo sangue africano, le sue istituzioni e il suo carattere. E’ impossibile determinare esattamente a quale famiglia umana apparteniamo. La maggior parte degli indigeni è stata annientata, gli europei si sono mescolati con gli americani e gli africani, e questi con gli indiani e gli europei. Nati tutti dal seno di una stessa Madre, i nostri padri, diversi per origine e per sangue, sono stranieri gli uni agli altri e tutti differiscono visibilmente per il colore della pelle. Tale diversità comporta una conseguenza della massima importanza.

I cittadini del Venezuela godono tutti, grazie alla Costituzione, interprete della Natura, di una perfetta eguaglianza politica.”

(Ibidem, pp. 401-404)

Potremmo a lungo continuare a citare il libro di Losurdo, ma ci fermiamo qui perché riteniamo prioritario sbugiardare completamente i liberali nella loro disonesta ignoranza.

Il concetto di libertà puramente liberale vien dunque messo a nudo; libertà della borghesia monopolista di estendere il suo strapotere, manipolare gli apparati mediatici e diffondere la propria egemonia culturale, è tale solo nella forma, ma non nell’essenza! Il mito delle società del benessere occidentali ha trovato anche e soprattutto successo grazie alla continua beatificazione ricevuta dall’apparato mediatico. Ed è per questo che il proletariato, come brillantemente sottolineava Gramsci più di 100 anni fa, «deve negare recisamente qualsiasi solidarietà col giornale borghese. Egli dovrebbe ricordarsi sempre, sempre, sempre, che il giornale borghese (qualunque sia la sua tinta) è uno strumento di lotta mosso da idee e da interessi che sono in contrasto coi suoi. Tutto ciò che stampa è costantemente influenzato da un’idea: servire la classe dominante, che si traduce ineluttabilmente in un fatto: combattere la classe lavoratrice.» (Antonio Gramsci, Scritti Politici, Volume I, Editori Riuniti, Roma 1973, pag 21) 

Ed infatti se gli operai “si persuadessero di questa elementarissima verità, imparerebbero a boicottare la stampa borghese con quella stessa compattezza e disciplina con cui la borghesia boicotta i giornali degli operai, cioè la stampa socialista.” (Ibidem) 

Andando avanti sappiamo che una delle teorie principali di Friedrich Von Hayek e di tutta la Scuola Austriaca è quella del ciclo economico, che è detto molto schematicamente un riflesso della teoria dell’utilità marginale alla circolazione della moneta, secondo la quale gli istituti centrali di credito, le banche centrali, siano la causa del cosiddetto ciclo economico, e su questa base Von Hayek sostiene che i cicli economici siano causati da un’espansione della politica creditizia delle banche centrali, e non siano legate ad un aumento dei risparmi della banche centrali causato da una cattiva gestione dei tassi di interesse stessi. Anzitutto essa si basa su una teoria del profitto sostanzialmente errata, ovvero quella di Wicksell, ripresa da Hayek in “Prezzi e produzione”. Hayek dice che “se non fosse per le perturbazioni monetarie il tasso di interesse sarebbe determinato dalla domanda e dell’offerta di risparmio.” E questo tasso di equilibrio viene chiamato tasso naturale di interesse. Quindi in parole povere per Hayek il tasso di interesse naturale è una teoria non monetaria del tasso di interesse e suppone che come nella fisica esista un “centro di gravità” verso il quale tenda il tasso. Tuttavia, come sottolineò anche il neo-ricardiano Pietro Sraffa, quando il credito avviene in natura, ovvero tramite stato di baratto, quale sarebbe il tasso di interesse naturale? Il tasso di interesse naturale sarebbe il tasso sui prestiti di una merce fisica, in una realtà composta da capitali eterogenei estranea all’equilibrio generale potrebbero esserci milioni se non miliardi di tassi naturali su ogni singola merce, considerata da Hayek impropriamente come capitale. Per par condicio secondo il sistema di Hayek nessun sistema monetario in cui gli investimenti in beni capitali sono fatti per mezzo di denaro può cogliere i giusti tassi di interesse naturale multipli né tantomeno ciascun prestito in natura di vari beni capitali, questo perché ovviamente i tassi di interesse “convergono” per mezzo dello spread, e ben sappiamo che possono esserci ampie differenze tra lo spread dei tassi bancari ed il tasso naturale delle singole merci. Or Dunque, sempre secondo la logica di Hayek, in un sistema monetario di prestito a fini di beni capitali non si può raggiungere un coordinamento intertemporale ideale. La soluzione quale sarebbe: tornare al baratto ed abolire la moneta?! Come se non bastasse questa teoria si basa su ipotesi errate circa il comportamento e le tendenze dell’homo economicus, non v’è motivo di credere che ci siano tassi di interesse naturali che cancelleranno tutti i mercati dei prestiti che aspettino solo di essere scoperti da un capitalista x. 

CONCLUSIONE 

Si è partiti con l’assunto di conoscere il pensiero marxiano ma non si fa altro che mistificarlo, distorcerlo, modificarlo volgarmente, mal interpretandolo e dandone una lettura selettiva, una turlupinatura che ahimè trae facilmente in inganno chi, come i ragazzi di Istituto Liberale, del pensiero di Karl Marx e Friedrich Engels ha una gneosis molto approssimativa, poco approfondita. Dopo però questa analisi dettagliata e meticolosa delle antitesi poste aspettiamo ancora di capire “gli errori di Marx” ed in cosa consti la falsità della teoria del plusvalore, dove sia l’errore della teoria del valore, perché il materialismo ed il metodo dialettico marxista siano pseudoscientifici e perché nel socialismo l’individuo perda rilevanza; certo qualsiasi persona dotata di raziocinio non è certo stata persuasa dai video che abbiamo appena analizzato. Obiettivo di questo scritto non vogliamo sia solo smascherare le volgari analisi degli individualisti feroci, abbiamo scritto anche e soprattutto rivolgendoci a te, che credi di aver dimostrato quanto il marxismo sia antiscientifico dopo aver parlato di utile marginale e rischio di impresa, che vai blaterando di “100 milioni di morti”, di totalitarismi e di carestie: ci rivolgiamo a te perché sono accuse false, figlie di una profonda operazione ideologica andata passo passo incrementandosi dopo il 1989 e perché è probabile tu stesso, specie se sei giovane, sia stato lampantemente ingannato da questa. E lo facciamo perché crediamo che in un mondo del genere, nel quale viene ripetuto in maniera meccanica che il capitalismo sia la migliore alternativa, che i confini nazionali siano retaggio di un triste passato destinato a decadere, che il mercato abbia l’imperativo morale di dettare legge e gli stati nazionali debbano protrarsi ad esso come docili e servili animali domestici, non si possa neanche biasimare chi, dopo aver sentito questa monotona melodia, l’abbia resa suo tormentone.