di Giovanni Paolo Sirianni e Pier Giorgio Corriero
[in risposta a La lotta di classe – Tutti gli errori di Marx]
Nel secondo video si critica la teoria della lotta di classe descritta da Marx, il quale apporta a tale concetto le fondamentali concezioni materialistico-dialettiche riguardanti il rapporto (dialettico, appunto) tra struttura e sovrastruttura di una peculiare società ed i collegamenti colla storia passata in funzione di tale teoria, che Marx divide in 3 diverse ere postere alla società comunitaria-primitiva, sorte quindi col sorgere della società politica: quella schiavista, quella feudale e quella capitalista, tra le quali mutano i rapporti di produzione tra sfruttatori e sfruttati.
I primi, secondo Marx, hanno sempre vissuto da parassiti, fagocitando parte del valore creato ex novo dai secondi. La prima critica presentata riguarda la concezione marxista della rivoluzione, passare come un evento deciso da una segreteria di partito, accettata passivamente dai militanti e dal popolo. Ebbene non è mai così. I comunisti non decidono di punto in bianco di indire, una volta che ne hanno l’occasione, l’insurrezione. Analizziamo quanto hanno storicamente detto i comunisti sul tema, per poi dare uno sguardo anche alla componente storiografica sul piano meramente pratico. Gramsci infatti ci insegna che «la lotta del proletariato contro il capitalismo si svolge su tre fronti: quello economico, quello politico, e quello ideologico. La lotta economica ha tre fasi: di resistenza contro il capitalismo, cioè la fase sindacale elementare; di offensiva contro il capitalismo per il controllo operaio sulla produzione; lotta per l’eliminazione del capitalismo attraverso la socializzazione. Anche la lotta politica ha tre fasi principali: lotta per infrenare il potere della borghesia nello Stato parlamentare, cioè per mantenere o creare una situazione democratica in equilibrio tra le classi che permetta al proletariato di organizzarsi; lotta per la conquista del potere e per la creazione dello Stato operaio, cioè un’azione politica complessa attraverso la quale il proletariato mobilita intorno a sé tutte le forze sociali anticapitalistiche (in prima linea la classe contadina) e le conduce alla vittoria; fase della dittatura del proletariato organizzato in classe dominante per eliminare tutti gli ostacoli tecnici e sociali, che si frappongono alla realizzazione del comunismo.» (Antonio Gramsci, Per una preparazione ideologica di massa, Introduzione al primo corso della scuola interna del partito. Firmato in versione originale La sezione agitazione e propaganda del Partito comunista. Pubblicato in forma incompleta sul n.3-4 del marzo-aprile 1931 de Lo Stato Operaio.)
E che quindi «nella sua prima fase sindacale la lotta economica è spontanea, cioè nasce ineluttabilmente dalla stessa situazione in cui il proletariato si trova nel regime borghese, ma non è di per sé stessa rivoluzionaria, cioè non porta necessariamente all’abbattimento del capitalismo, come hanno sostenuto e continuano a sostenere con minor successo i sindacalisti. Tanto è vero che i riformisti e persino i fascisti ammettono la lotta sindacale elementare, anzi sostengono che il proletariato come classe non debba esplicare altra lotta che quella sindacale. Perché la lotta sindacale diventi un fattore rivoluzionario occorre che il proletariato l’accompagni con la lotta politica, cioè che il proletariato abbia coscienza di essere il protagonista di una lotta generale che investe tutte le questioni più vitali dell’organizzazione sociale, cioè abbia coscienza di lottare per il socialismo. L’elemento «spontaneità» non è sufficiente per la lotta rivoluzionaria: esso non porta mai la classe operaia oltre i limiti della democrazia borghese esistente. È necessario l’elemento coscienza, l’elemento «ideologico», cioè la comprensione delle condizioni in cui si lotta, dei rapporti sociali in cui l’operaio vive, delle tendenze fondamentali che operano nel sistema di questi rapporti, del processo di sviluppo che la società subisce per l’esistenza nel suo seno di antagonisti irriducibili, ecc.» (Ibidem)
Quindi la rivoluzione è spontanea lotta sindacale coscientizzata sotto l’azione del partito, che ha ruolo di educatore e coordinatore del processo rivoluzionario, volta alla conquista del potere politico, come infatti sostiene Lenin «Per realizzare questa rivoluzione sociale il proletariato deve conquistare il potere politico, che lo renderà padrone della situazione e gli permetterà di rimuovere tutti gli ostacoli che si frappongono al suo grande obiettivo. In questo senso la dittatura del proletariato è la condizione politica necessaria della rivoluzione sociale.» (Vladimir Lenin, Sulla rivoluzione proletaria e sulla dittatura del proletariato, Casa Editrice in Lingue Estere, Pechino 1960, pag. 8 Ed. Ing.)
Come poi sottolinea il compagno Stalin «Gli scioperi, il boicottaggio, il parlamentarismo, la manifestazione, la dimostrazione: tutte queste forme di lotta sono buone come mezzi che preparano e organizzano il proletariato. Ma nessuno di questi mezzi è atto a distruggere l’ineguaglianza esistente. È necessario concentrare tutti questi mezzi in un mezzo principale e decisivo, è necessario che il proletariato insorga e conduca un attacco decisivo contro la borghesia, per distruggere dalle fondamenta il capitalismo. Questo mezzo principale e decisivo è precisamente la rivoluzione socialista.» (Giuseppe Stalin, Opere Complete, vol. I, Edizioni Rinascita, Roma 1955, p. 338)
Non v’è nulla di meccanico od arbitrario, la rivoluzione non può avvenire senza l’appoggio delle masse popolari e non può germogliare senza un partito armato della teoria marxista-leninista.
Analizziamo adesso la componente storiografica: nessuna rivoluzione socialista nella storia è avvenuta senza un supporto delle masse, come infatti apprendiamo dal cronista della rivoluzione John Reed nei mesi antecedenti alla presa di potere dei bolscevichi ed alla formazione del governo rivoluzionario «Si tenevano dei comizi nelle trincee, sulle piazze dei villaggi, nelle fabbriche. Quale spettacolo mirabile quello dei 40.000 operai della Putilov che andavano ad ascoltare oratori socialdemocratici, socialisti rivoluzionari, anarchici ed altri, restando ugualmente attenti a tutti ed indifferenti alla lunghezza dei discorsi! Durante parecchi mesi a Pietrogrado ed in tutta la Russia, ogni angolo di strada fu una tribuna pubblica. Nei treni, nei tram, ovunque, scaturiva improvvisamente la discussione.
Conferenze e congressi innumerevoli mescolavano gli uomini di due continenti: i congressi dei Soviet, delle cooperative, degli Zemstvo, delle nazionalità, i congressi di preti, di contadini, di partiti politici, la Conferenza Democratica di Pietrogrado, la Conferenza Nazionale di Mosca, il Consiglio della Repubblica Russa.» (John Reed, Dieci giorni che sconvolsero il mondo, Einaudi Editore, Milano 1946, pag 33)
V’è inoltre da dire che la maggior parte delle volte è il potere del capitale ad agire in maniera offensiva iniziando il conflitto armato quando il movimento operaio ha ottenuto un largo consenso presso le masse di lavoratori e sta rapidamente crescendo. Ciò è avvenuto nella maggioranza dei casi di insurrezione rivoluzionaria proletaria. Partendo dalla Russia, l’insurrezione avvenne proprio perché il governo provvisorio (di fatto liberale) tradì le parole d’ordine della rivoluzione di febbraio, continuando nella sostanza quelle dello zar Nicola II in materia di guerra e repressione della classe lavoratrice delle campagne e delle città. A causa di ciò, sempre di più i lavoratori, resisi conto della truffa della democrazia liberale, organizzati nei loro soviet, iniziarono ad appoggiare la linea rivoluzionaria bolscevica (all’epoca il PCR (b) fu perseguitato in tutta la Russia, in continuità con la linea degli zar che mandarono Lenin in esilio in Svizzera e Stalin ancora 24enne in Siberia), che, da minoritaria in relazione con la linea riformista dei falsi socialisti rivoluzionari e menscevichi, divenne maggioritaria, come decretarono le elezioni per il secondo congresso panrusso dei soviet. Un altro esempio può essere la Cina. Qui il partito comunista cercò sempre di muoversi in alleanza con le altre forze rivoluzionarie per la costruzione di uno stato repubblicano a democrazia popolare ed antimperialista. Nel ’27 Chang Kai Shek, leader del KMT, iniziò una spietata repressione contro i comunisti (tradendo il Fronte Unito, stabilitosi per combattere insieme i signori della guerra cinesi, poi alleatisi con il KMT contro il PCC) per smantellare quel pericoloso movimento che avrebbe potuto negare i privilegi di classe della borghesia nazionale e straniera, che Cheng spalleggiò, contro i lavoratori cinesi delle campagne e delle città, ormai oppressi da quasi un secolo dalle scellerate e disumani politiche dei grandi falchi imperialisti occidentali, patrioti solo del loro portafogli. Successivamente il PCC continuò ad allearsi con le altre forze progressiste contro il potere dei signori della guerra supportati da Chang, formando il governo di Wuhan in alleanza con la sinistra del KMT, da cui poi fu ulteriormente tradita. E’ solo dopo il crollo del governo di Wuhan, tradito dall’ala sinistra del KMT (qui si può notare un parallelismo con il rapporto tra i bolscevichi e l’ala sinistra dei socialisti rivoluzionari) che il PCC iniziò a lottare da solo come unica forza che abbia il fine della liberazione dei lavoratori cinesi dal giogo di latifondisti, capitalisti ed imperialisti: iniziò dunque la rivoluzione cinese sovietica vera e propria. L’ennesima prova è l’Italia. Qui il partito comunista, che aveva gestito la resistenza antifascista in maniera quantitativamente e qualitativamente migliore rispetto alle forze democristiane e liberali, che aveva giocato il ruolo cardine nell’instaurazione dello stato repubblicano e che aveva garantito ampi poteri e miglioramenti delle condizioni di vita ai lavoratori italiani, che sotto la tradizione autoritaria monarchica non avevano minimamente visto, nel ‘47 fu ostracizzato dal governo dal nuovo duce De Gasperi, che aveva ripreso, in alleanza con gli ex-repubblichini, a perseguitare i partigiani ed attuare numerose e violentissime repressioni contro i lavoratori scioperanti. Il tutto retto attorno ai brogli elettorali del ’48, di cui ha ammesso l’esistenza anche l’ex direttore della CIA James Woolsey. Si stava passando rapidamente allo smantellamento di quella democrazia popolare che si era costituita dal crollo del fascismo in favore della nuova ed attuale dittatura della borghesia. In questo momento, vista la repressione e l’ostracizzazione del PCI dal governo, quest’ultimo doveva procedere militarmente contro la nuova dittatura della borghesia per l’instaurazione del governo sovietico in Italia, così come fecero il Partito Comunista Russo (Bolscevico) ed il Partito Comunista Cinese. Questa errata politica del PCI a difesa delle istituzioni borghesi fu giustamente condannata dai dirigenti sovietici (primo fra tutti Zdanov) e non accennò purtroppo a mutare dopo la scoperta, grazie alle rivelazioni di Moro, dell’esistenza della Gladio, del “Fattore K” (addirittura nel ’76 i grandi gerarchi della NATO avevano programmato un colpo di stato militare in caso di vittoria elettorale comunista alle politiche, che non si ebbe per un soffio) e quindi della strategia della tensione. Alla luce di questi esempi è evidente che il confronto pacifico tra capitale e lavoro non è possibile perché la borghesia implementerà una forte reazione nel momento in cui il movimento operaio diventerà minacciosamente grande oppure raggiungerà addirittura le redini del governo in base alle legittime elezioni dello stato borghese (vedasi 11 settembre 1973 in Cile). Quindi stabilire il controllo politico dei lavoratori in uno stato è impossibile se in esso permane la dittatura della borghesia. Il potere sovietico deve disarmare i nemici di classe, renderli innocui e liquidarli il più velocemente possibile. Ciò può avvenire solo in maniera violenta. Non si può dunque riformare lo stato borghese, in quanto la reazione antisocialista le è intrinseca, ma bisogna bensì abbatterlo in favore della creazione della democratica repubblica dei lavoratori. La storia dà ragione a Lenin, Stalin, Mao, Ho Chi Minh e gli altri coerenti comunisti rivoluzionari che hanno adottato questa linea; al contrario si mostra fredda e spietata contro la melma opportunista incarnata dai vari traditori del socialismo quali Bernstein, Kautsky, Togliatti, Berlinguer ed altri rinnegati, che hanno ripudiato la rivoluzione condannando la classe operaia alla schiavitù salariale.
Successivamente il nostro caro Cotroneo nega addirittura la realtà della divisione in classi sociali nella società capitalistica affermando ciò sulla base del fenomeno del cosiddetto “ascensore sociale”, ovvero quel processo che consentirebbe un avanzamento nella gerarchia sociale vigente tramite l’impegno personale; tutto ovviamente sotto il falso mito della meritocrazia, del “self-made man” e della competitività. Altro non è che un sotterfugio verso tutti gli sfruttati, si punta sulle parole classiche frasi fatte e si sparge la menzogna per cui nell’attuale regime hanno la possibilità di arricchirsi e diventare capitalisti, e quindi che infondo se non hanno avuto successo nella vita è solo colpa loro e non del sistema. Ma, appunto, altro non è che una menzogna, l’ennesimo misticismo logico, armi che, come avranno sicuramente capito anche i lettori arrivati fin qui, sono alla base dell’inezia liberale, della cronaca storiografica delle classi reazionarie e dei loro lacchè, tra i quali ovviamente Istituto Liberale non può non rientrare.
Quindi si piega la realtà all’ideologia. La prima in Italia e nel resto del mondo sta dimostrando che i poveri, grazie al libero mercato, stanno diventando sempre di più ed i ricchi sono sempre più ricchi, che pian piano la deregolamentazione dell’economia sta portando al totale disastro ambientale ed alle guerre e speculazioni più atroci (la nostra patria è vittima delle seconde ad opera dei derivati credit default swap e delle agenzie di rating, ad esempio), proprio l’altro giorno l’ISTAT ha affermato che nel 2020 335 mila famiglie in più vivono in povertà assoluta, per un totale di oltre 2 milioni, pari al 9,4% della popolazione. L’ascensore sociale nel capitalismo ha dunque moto discendente, ed uniformemente accelerato aggiungerei!
Nonostante ciò la fede neoliberista continua a ribadire l’inviolabilità e la supremazia del sistema del mercato deregolamentato, che colla sua mano invisibile dà ricompense ai giusti e punisce giustamente gli insolventi, insomma una sorta di Dio abramitico presso cui dobbiamo assoluto rispetto e devozione e della quale bontà e giustizia non devono assolutamente essere messe in discussione, pena il rogo che spetta giustamente ad i folli e agli stolti eretici. Marx spiegò già dettagliatamente la natura dell’accumulazione di capitale nel capitalismo e la sua tendenza, specie in un regime di libero mercato ed anarchia della produzione, alla centralizzazione, ergo la sua concentrazione in poche mani: i grandi magnati del capitale. Questi crescono a causa dell’aumento della classe proletaria nel capitalismo, ingrossando sempre di più le fila delle fabbriche del padrone, questo a causa della continua proletarizzazione del ceto medio causata dalla spietatezza della mano invisibile, che non esita a colpire i piccoli borghesi in quanto meno produttivi e competitivi sul mercato rispetto ai grandi magnati del capitale. Oltre alle tecniche dei borghesi per massimizzare il profitto già esposte, ve ne sono molte altre per nulla convenzionali, ma del resto in amore ed in guerra contro la classe proletaria (che i liberali negano) tutto è lecito. Crimini più o meno importanti dal punto di vista storico, che fungeranno, nel futuro, da onta della borghesia nella società post-capitalista; come oggi avviene per le guerre di religione nell’era del dominio feudale.
Uno di questi metodi non convenzionali sono le migrazioni forzate (tali per via delle guerre scatenate dall’imperialismo) di popoli, gestite dai partiti dei padroni (vedi centrosinistra in Italia) al fine di importare in patria popolazioni di forti lavoratori pronti a lavorare in condizioni disumane pur di ottenere un (misero) stipendio.
Qual è la loro funzione nel dominio del capitale? Quella di aumentare l’offerta di lavoro sul mercato, pronta ad essere accettata dai magnanimi borghesi, detentori dei mezzi di produzione (dunque unici soggetti capaci di acquistare forza-lavoro sul mercato del lavoro), solo se il costo medio della forza-lavoro scenderà in maniera generalizzata grazie alla mano invisibile di Dio mercato (che i timorosi signori borghesi non oserebbero mai contraddire), i quali prezzi fissati, anche se precarizzano dei poveri lavoratori, sono sempre giusti! Non vorremmo mica piegare una divinità ai bisogni mondani delle classi popolari, giusto?! Un po’ di buon senso!
Oltre alla funzione di diminuire il costo del lavoro, le deportazioni forzate di popoli hanno la funzione di aumentare la disoccupazione: creare un forte esercito industriale di riserva che abbia sempre la funzione di aumentare l’offerta di lavoro, e che quindi la politica economica dei padroni non si cura di eliminare: è conveniente che sia costante un buon livello di disoccupazione in maniera tale da tenere sempre una elevata offerta di lavoro la cui grandezza è capace di giustificare pesanti diminuzioni salariali, che vanno ad ingrossare il plusvalore, dunque il capitale del padrone.
A riguardo la situazione in Italia ha raggiunto livelli imbarazzanti, descritti dal servizio di Gionata Chatillard, riportato nell’edizione del 5 marzo 2021 del telegiornale di “Casa del Sole TV”, intitolata “La povertà nell’anno del Dragone”, facilmente reperibile su YouTube:
«Le organizzazioni umanitarie che operano nel mediterraneo non si limitano a salvare gli immigrati che naufragano nel tentativo di raggiungere le coste europee, ma stabiliscono veri e propri patti con scafisti e trafficanti di persone.»
Queste sono le conclusioni della procura di Trapani, incaricata delle indagini relative al sequestro avvenuto, tre anni fa’, di una nave dell’organizzazione umanitaria tedesca “Jugend Rettet”. Le accuse rivolte ai ventuno indagati sono gravissime: i magistrati li ritengono infatti responsabili di aver concordati i soccorsi con le organizzazioni criminali che gestiscono il traffico di persone verso l’Europa. I rappresentanti delle ONG indagate avrebbero preso a bordo degli scafisti, spento i transponder delle proprie imbarcazioni per non essere localizzati e comunicato il falso alle autorità marittime italiane. In altre parole, le organizzazioni umanitaria fingevano di andare alla ricerca di immigrati da mettere in salvo, quando invece conoscevano fin da subito la posizioni delle imbarcazioni che intendevano raggiungere proprio perché il salvataggio era stato accordato in precedenza.
I fatti risalgono agli anni 2016 e 2017 e implicano che organizzazioni come “Save the children” e “Medici senza frontiere”, le cui navi avrebbero accolto gli immigrati trasportati dalle navi della ONG tedesca “Jugend Rettet”. Alcuni filmati mostrano dei volontari mentre riconsegnano agli scafisti alcune piccole imbarcazioni che avevano usato per consegnare presunti naufraghi a queste famose organizzazioni non governative.
Si afferma poi che la povertà a livello mondiale sia diminuita negli ultimi decenni grazie alle lungimiranti teorie della Santa Chiesa Neoliberale di Padre Friedman, ma siamo solo di fronte all’ennesima falsità conclamata. Nonostante sia vero che il liberalismo abbia trionfato in gran parte del mondo, dove ciò è avvenuto le conseguenze sono state più che catastrofiche, basti vedere gli aumenti della povertà ed i licenziamenti di massa negli USA di Reagan (sotto il suo regime la povertà ufficialmente si fermò al 14%, ma secondo istituti privati statunitensi raggiunse addirittura il 25%) e del Regno Unito della Thatcher, dove non si risparmiarono licenziamenti, aumento della povertà, macelleria sociale, polarizzazione sociale, repressione delle manifestazioni operaie progressiste, et cetera. Per non parlare poi del calo verticale del consumo calorico dell’Est Europa negli anni ’90 a seguito del passaggio all’economia di mercato e dell’aumento ancor più verticale della povertà, accompagnata da gravi conflitti etnici ed instabilità, totalmente assenti durante l’era socialista. Si potrebbe continuare con l’India, che aumentò la percentuale di poveri dal 26 al 38% in un decennio a seguito della deregolamentazione della sua economia, che ha portato ad uno sviluppo delle forze produttive cha ha evidentemente giovato ai soli padroni, e di decine di altri esempi su tutti e cinque i continenti.
Non c’è proprio nulla da fare: sembra che dove prenda piede il neoliberismo non possano che fiorire solo guerra e povertà, ma allora come mai la povertà a livello mondiale è diminuita? La risposta è solo una: grazie alla Repubblica Popolare Cinese. Grazie alle sue riforme, la Cina è riuscita in quarant’anni a sollevare dalla povertà ben 600 milioni di persone (800 milioni se si parte dal 1949) e favorendo la crescita economica del terzo mondo, specie dell’Africa, verso i quali stati non ha esitato più volte, causa crisi economica mondiale in corso, a cancellare ingenti debiti. Si potrebbe obiettare dicendo che la Cina sia giunta a simili risultati restaurando il capitalismo, ma non sarebbe altro che l’ennesima maldicenza. La Cina non ha mai messo in discussione il primato della proprietàstatale anzi, il settore collettivistico (di matrice statale e cooperativo) mantiene una larga egemonia. Il 3 settembre del 2007 il Quotidiano del Popolo di Pechino, in cinese “人民日报” , l’organo di stampa più prestigioso del Partito Comunista Cinese, ha riportato che nel 2006 le 500 imprese con il fatturato maggiore della Repubblica Popolare Cinese (ivi comprese banche, settore petrolifero, e degli armamenti, ecc.) controllavano e possedevano l’83,3% del PIL nazionale lordo cinese, in netto aumento rispetto al 78% del 2005 ed al solo 55,3% del 2001: tra questi 500 grandi colossi, 349 e quindi quasi il 70% del totale sono di proprietà statale, in modo completo o con una quota di maggioranza della sfera pubblica. Il giro d’affari e le vendite delle imprese statali risultava di 14,9 migliaia di miliardi di yuan su un totale di 17,5 migliaia di miliardi di yuan di vendita globale collezionati dalle prime 500 imprese, pari a circa l’85% dell’insieme del giro d’affari della ricchezza prodotta da queste ultime; visto che la quota dei “500 big” sul prodotto nazionale lordo cinese era pari al sopracitato 83,3%, la quota percentuale delle 349 imprese statali sul PIL cinese ufficiale risultava pari a più del 70% e quasi tre quarti della ricchezza complessiva della nazione. I salari sono aumentati di almeno sei volte negli ultimi tre decenni, come ammesso a denti stretti da studiosi anticomunisti come F. Zakaria; ciò in modo non proprio analogo rispetto all’Italia, dove tra 2000 e 2013 il reddito dei lavoratori è addirittura calato, ed al mondo occidentale tutto. Il tasso di disoccupazione complessivo si attesta intorno al 5,9 % (attualmente in Italia è circa del 9,8%). Secondo un’indagine condotta dalla banca Credit Suisse nel 2013 il salario medio mensile dei giovani 30enni cinesi è di circa 1.100 euro, il 15% in più rispetto ai loro genitori. Quello dei trentenni italiani? Per quei pochi che lavorano è mediamente di 830 euro. Per quanto riguarda la fascia dei giovani tra i 18 e i 29 anni il tasso di disoccupazione è al 4,1% in Cina, in Italia il tasso di disoccupazione dei ragazzi dai 15 ai 24 è pari al 30,3 % al dicembre del 2020. Il Fondo Monetario internazionale (dati del 2004) ha poi stimato che se già nel 1980 le cooperative non agricole di villaggio impiegavano circa 30 milioni di lavoratori, nel 2003 la cifra era salita a 130 milioni di unità lavorative rimanendo quasi invariata negli ultimi 4 anni e comprendendo circa il 20% della forza lavorativa cinese. Nel 1990 la proprietà delle imprese di municipalità e villaggi è stata conferita collettivamente a tutti gli abitanti del municipio o del villaggio interessato. Il potere di assumere o licenziare i direttori delle imprese fu conferito alle autorità locali, con la possibilità di demandare tale scelta a una struttura governativa. Anche la distribuzione dei profitti è stata sottoposta a normativa, introducendo l’obbligo del reinvestimento nell’impresa di più del 50% dei profitti per modernizzare e ingrandire gli impianti e per finanziare servizi e grafiche per i lavoratori, mentre la quasi totalità di quel che resta deve essere impiegata per infrastrutture agricole, miglioramenti tecnologici, servizi pubblici e investimenti di nuove imprese. Nel 2002 ammontavano a circa 100 milioni gli associati delle cooperative cinesi facenti parte dell’Alleanza Internazionale delle Cooperative, mentre nel 2003 le 94.711 cooperative cinesi (di tutti i generi e tipologie) contavano al loro interno la modica cifra di 1.193.000.000 di uomini e donne associati a vario titolo. Come confermato anche da Jean-François Huchet, del Centro francese di Studi sulla Cina Contemporanea di Hong Kong:
«La visione di tante organizzazioni internazionali secondo cui la Cina sarebbe un’economia privata è profondamente sbagliata. Nella lista delle duecento aziende più importanti del Paese quelle private sono poco più di un paio. Anche se numericamente le aziende private sono molte di più di quelle statali, non va dimenticato che in termini di investimenti e di capitale azionario sono le seconde a fare da padrone […] Pechino è stata in grado di smentire la teoria secondo cui le aziende socialiste siano destinate ad uscire di scena per l’impossibilità di essere modernizzate. La Cina, infatti, è stata in grado sia di liberarle dal fardello di tutte quelle attività di matrice sociale cui erano obbligate a provvedere (ospedali, mense, ecc.), sia di renderle più produttive grazie a una politica di fusioni e acquisizioni delle unità più piccole e meno competitive.» (Claudia Astarita, Le aziende cinesi? Sono in mano al Partito, 2008)
La Cina, come intuì il compagno Deng, poteva aprirsi per un lungo periodo per fungere da industria del mondo globalizzato allo scopo di irreggimentare immense somme di capitale nel paese e per avere una situazione diplomatica migliore (prima delle riforme la Cina, dal ‘59, fu avversa ad entrambe le superpotenze, dal ‘71 più all’URSS che agli USA; mentre dopo le riforme, nell’82, ci fu una riappacificazione con l’Unione Sovietica). Queste aperture e questo potenziamento di elementi capitalisti nell’economia (già esistenti in quanto il socialismo è una fase transitoria) sono solo ed unicamente temporanee e strumentali alla crescita del paese, che grazie ad esse sta eliminando quasi totalmente la povertà, sviluppando settori dell’industria prima nemmeno conosciuti in Cina e ha già superato gli USA nei mercati, ottenendo il trono di prima potenza commerciale mondiale ed un sacco di altri benefici. Tale temporaneità di queste meccaniche è dimostrata dalle politiche del compagno Xi Jinping che comprendono nazionalizzazioni costanti, dimostrato da tutte le statistiche del caso, l’aumento dei salari, che abbiamo analizzato in precedenza. Venendo invece all’antagonismo borghesia-proletariato. È vero che dalle riforme del ‘78 in poi si è andata a formare nel paese una ricca classe borghese e che in Cina c’è una spaventosa ineguaglianza sociale, lo stesso Presidente della Repubblica Popolare Cinese ne è pienamente consapevole, quest’ultimo ha infatti detto
«Oggi il contesto interno e quello internazionale stanno mutando in modo ampio e profondo, e lo sviluppo della nostra nazione deve affrontare una serie di evidenti sfide e contraddizioni; lungo la nostra marcia incontreremo ancora numerose difficoltà e problemi. Questioni già emerse, e persistenti, sono: la natura squilibrata, disarmonica e non sostenibile dello sviluppo; la debole capacità d’innovazione tecnica e scientifica; la non razionale struttura industriale; lo sviluppo di tipo estensivo; le evidenti disparità di sviluppo tra zone urbane e rurali, e tra regioni; il grande divario nella distribuzione del reddito; l’evidente inasprimento delle contraddizioni sociali; i numerosi problemi che pregiudicano gli interessi diretti delle masse in ambito educativo, occupazionale, della sicurezza sociale, della sanità pubblica, degli alloggi, dell’ambiente, della sicurezza alimentare, farmacologica e della produzione, della pubblica sicurezza, della giustizia e dell’applicazione della legge; la precarietà delle condizioni di vita di una parte delle masse; gli evidenti problemi di formalismo, burocratismo, edonismo e la tendenza allo sperpero; la vulnerabilità di alcuni settori ai fenomeni negativi di corruzione e la persistente necessità di una severa azione di contrasto alla corruzione. L’approfondimento delle riforme è la chiave per risolvere tutte queste questioni»
(Xi Jinping, Governare la Cina, vol. I, Foreign Languages Press-Giunti Editore, Iolo 2019, pag. 87)
Tuttavia oggigiorno tale dato è in tendenziale decrescita grazie alle politiche di aumento dei salari ed all’ampliamento del settore pubblico, oltre che alla politica non proprio amichevole con i miliardari: anzitutto va specificato che “ricco” non equivale a sfruttatore, la stragrande maggioranza degli individui che figurano nelle liste dei miliardari cinesi sono membri regolari del Partito Comunista Cinese, ergo sono subordinati al Partito ed allo Stato socialista, questi non sono “capitalisti” nel senso vero e proprio del termine.
Inoltre stando alla stessa legge cinese nelle imprese statali e collettive sono stabiliti i cosiddetti “Consigli generali dei lavoratori” all’interno dei quali è concessa l’autorità legale di controllare la direzione aziendale e partecipare alla gestione manageriale ed al meccanismo decisionale dell’impresa, come afferma l’ambasciatore cinese Wang Di “I lavoratori cinesi sono i padroni delle loro aziende. Non c’è conflitto di interessi fondamentali tra i dirigenti e gli operai. Questa realtà fa sì che il sistema cinese di protezione dei diritti dei lavoratori sia diverso dal sistema del lavoro salariato. Secondo la Law Concerning the Industrial Enterprises Owned by the Whole People i lavoratori possono partecipare direttamente alla formulazione e la supervisione del regolamenti relativi al funzionamento della società, alla gestione, al lavoro, al personale, al salario, al benessere, alla sicurezza sociale, al benessere collettivo, ecc. attraverso il Congresso dei Lavoratori. In Cina sindacati svolgono un ruolo particolarmente importante nella protezione dei diritti dei lavoratori” (Wang Di, Spokesman of the Chinese Embassy in Egypt. A Letter To the Cairo Times on Human Rights Situation and Environment Protection in China by the Embassy Spokesman, 06/02/2002)
Il successo della democrazia socialista cinese è sotto gli occhi di tutti, come ha sottolineato anche il Presidente della Repubblica Popolare Cinese, che più volte si è pronunciato circa le calunniose accuse di chi ritiene la Cina “capitalista” o “social-imperialista”, la classe operaia «è la classe dirigente della Cina, rappresenta le forze produttive avanzate e le relazioni di produzione del Paese; costituisce la base sociale più solida e sicura per il nostro Partito; è la forza principale ai fini della costruzione di una società moderatamente prospera in ogni suo aspetto e del sostegno e dello sviluppo del socialismo con caratteristiche cinesi.
Dall’introduzione della politica di riforma e apertura, la classe operaia cinese è cresciuta ed è divenuta più forte: la sua formazione è migliorata in ogni aspetto, la sua composizione è stata ottimizzata, il suo aspetto si è rinnovato e il suo carattere progressista si è rafforzato. In futuro, per sostenere e sviluppare il socialismo con caratteristiche cinesi, dobbiamo fare pieno affidamento sulla classe operaia, consolidare la sua posizione di classe dirigente e valorizzare appieno la sua funzione di forza principale. “Fare pieno affidamento sulla classe operaia” non è solo uno slogan o un’etichetta; al contrario, dobbiamo perseguire fino in fondo quest’idea nel lavoro e nel processo di formazione politica del Partito e del governo, renderla concreta nella promozione e nella gestione delle imprese.
In secondo luogo, dobbiamo fare pieno affidamento sulla classe operaia per sviluppare il socialismo con caratteristiche cinesi. […] La classe operaia cinese deve avere salda convinzione nell’ideale del socialismo con caratteristiche cinesi, proseguire il suo percorso a fianco del Partito, sostenere il sistema socialista, la riforma e l’apertura, ed essere sempre il pilastro che sostiene la via cinese. La classe operaia deve praticare consapevolmente i valori centrali socialisti, sfruttare al meglio le proprie grandi qualità morali, influenzare e guidare tutta la società con il proprio pensiero di avanguardia e le proprie azioni esemplari, infondere nuova linfa nello spirito cinese ed essere un modello nell’esaltazione dello spirito cinese. La classe operaia cinese deve abbracciare la missione di rilanciare la nazione, liberare la propria grande creatività e portare avanti la propria gloriosa tradizione di agire nell’interesse generale del Paese, difendere la stabilità e l’unità politica e rappresentare sempre la spina dorsale, che tiene insieme le forze della Cina»
(Xi Jinping, Governare la Cina, vol. I, Foreign Languages Press-Giunti Editore, Iolo 2019, pp. 53-54)
Inoltre in un altro celeberrimo discorso il Presidente ha ribadito che «Sia la storia che la realtà ci dicono che solo il socialismo può salvare la Cina: solo il socialismo con caratteristiche cinesi può sviluppare la Cina! […] Negli ultimi anni, alcuni media nazionali ed esteri hanno messo in discussione che la Cina non sia più uno Stato socialista, che è un “socialismo capitalista”. Alcuni hanno addirittura asserito che esso sia un “capitalismo di stato”, un “nuovo capitalismo burocratico.” Questi discorsi sono completamente sbagliati. Noi affermiamo che il socialismo con caratteristiche cinesi è Socialismo, che voglia sempre mantenere la via socialista con caratteristiche cinesi, il sistema teorico del socialismo con caratteristiche cinesi e il sistema socialista con caratteristiche cinesi e aderire ai principi-guida del 18° Congresso del Partito per vincere la nuova sfida del socialismo con caratteristiche cinesi.» (Xi Jinping, Questioni relative allo sviluppo ed alla persistenza del socialismo con caratteristiche cinesi, Discorso tenuto dal Presidente della Repubblica Popolare Cinese, Segretario generale del Partito Comunista Cinese Xi Jinping di fronte al Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese nel 2013 e pubblicato il 1/4/2019 su Qiushi (求是), rivista teorica del Partito Comunista Cinese)
Per fare una sintesi, come ricorda Marco Rizzo, in Cina è la politica (in questo caso popolare e socialista) a guidare l’economia, mentre in occidente è l’economia e gli interessi privati dei grandi capitalisti a gestire la politica e quindi la cosa pubblica, che riguarda tutti i cittadini e quindi subordina i lavoratori colpiti dalla nuova schiavitù salariale.
Andando avanti, si afferma l’assurdità secondo la quale non vi è una distinzione netta tra classe borghese e classe proletaria. Si afferma tale scempiaggine poiché ci si basa erroneamente sul mero reddito per dividere la società in queste due categorie. Purtroppo per Cotroneo però non si è borghesi o proletari in base al censo, ma in base alla posizione dell’individuo all’interno della produzione: se egli sarà costretto a vendere la sua forza lavoro al capitalista per ottenere il reddito necessario al sostentamento proprio e della propria famiglia sarà un proletario, mentre se potrà acquistare forza-lavoro detenendo i mezzi di produzione, allora sarà un capitalista. Per Cotroneo “capitalista” è sinonimo di ricco. Il ruolo di capitalista non è dato da ciò; il capitalista è un individuo che riveste un preciso ruolo rispetto ai mezzi di produzione, Marx ed Engels fin da “Il Manifesto del partito comunista” scrivono che «Essere capitalista significa occupare nella produzione non soltanto una pura posizione personale, ma una posizione sociale» (Il Manifesto del Partito Comunista, Edizioni Laterza, Bari 1999, p. 55).
La errata interpretazione di questo termine sorge dalla mistificazione di un altro termine: capitale. Per i liberali il capitale è una pura realtà quantitativa, ma il capitale è un rapporto sociale di produzione, il capitale è “un prodotto collettivo e può essere messo in moto solo mediante una attività comune di molti membri, anzi in ultima istanza solo mediante l’attività comune di tutti i membri della società. Dunque, il capitale non è una potenza personale; è una potenza sociale” (Ibidem).
Stessa cosa è ribadita nuovamente da Marx ne “Il Capitale”, scrive infatti che
«I proprietari della semplice forza-lavoro, i proprietari del capitale e i proprietari fondiari, le cui rispettive fonti di reddito sono salario, profitto e rendita fondiaria, in altre parole, gli operai salariati, i capitalisti e i proprietari fondiari, costituiscono le tre grandi classi della società moderna, fondata sul modo di produzione capitalistico. […] La prima domanda a cui si deve rispondere è la seguente: che cosa costituisce una classe? E la risposta risulterà automaticamente da quella data all’altra domanda: Che cosa fa sì che gli operai salariati, i capitalisti ed i proprietari fondiari formano le tre grandi classi sociali? A prima vista può sembrare che ciò sia dovuto all’identità dei loro redditi e delle loro fonti di reddito. Sono tre grandi gruppi sociali, i cui componenti, gli individui che li formano, vivono rispettivamente di salario, di profitto e di rendita fondiaria, della valorizzazione della loro forza-lavoro, del loro capitale e della loro proprietà fondiaria. Tuttavia, da questo punto di vista, anche i medici, ad esempio, e gli impiegati verrebbero a formare due classi, poiché essi appartengono a due distinti gruppi sociali, e i redditi dei membri di ognuno di questi gruppi affluiscono da una stessa fonte. Lo stesso varrebbe per l’infinito frazionamento di interessi e di posizioni, creato dalla divisione sociale del lavoro fra gli operai, i capitalisti e i proprietari fondiari.» (Karl Marx, Il Capitale, vol III, Sezione VII, Capitolo 52)
Ed anche Lenin chiosa «Si chiamano classi quei grandi gruppi di persone che si distinguono tra di loro per il posto che occupano in un sistema storicamente determinato di produzione sociale, per il loro rapporto (per lo più sanzionato e fissato da leggi) con i mezzi di produzione, per la loro funzione nell’organizzazione sociale del lavoro e, quindi, per il modo in cui ottengono e per la dimensione che ha quella parte di ricchezza sociale di cui dispongono. Le classi sono gruppi di persone l’uno dei quali può appropriarsi il lavoro dell’altro grazie al differente posto che occupa in un determinato sistema di economia sociale» (V.I. Lenin, La grande iniziativa, in Opere scelte, Edizioni Progress, Mosca, p. 499)
Per andare ad analizzare cosa un pensatore marxista a noi contemporaneo ha detto sullo stesso lemma dobbiamo tornare dal caro Domenico Losurdo, il quale scrive che «[…] la mobilità sociale è assai ridotta o del tutto inesistente: i lavori più pesanti e peggio pagati sono affidati a un ceto che tende a riprodursi di generazione in generazione, e dunque a una sorta di casta ereditaria servile. La riproduzione di questa casta o razza è assolutamente necessaria. Secondo Mandeville una funzione decisamente benefica svolge la guerra. Se essa con le sue stragi periodiche non provvedesse a porre rimedio all’eccedenza di maschi che si verifica al momento della nascita, le donne, contese fra troppi aspiranti e concorrenti, diventerebbero una sorta di merce rara accessibile solo ai ricchi. Verrebbe allora a dileguare per la società il rifornimento dei «figli dei poveri», «la più grande e la più diffusa di tutte le benedizioni temporali», risulterebbe cioè difficile o impossibile la riproduzione ereditaria dei poveri destinati a compiere «tutto il necessario lavoro duro e sporco»
(Domenico Losurdo. “Controstoria del liberalismo”, Edizioni Laterza, Bari 2005, pp. 267-268)
Si parla di classe media, ed anche su questo tema già si soffermò Gramsci dicendo sostanzialmente che il termine classe media può assumere differenti connotazioni, e soprattutto che la comparsa della classe media non elimina i precedenti antagonismi. Scrive infatti il pensatore sardo che
«Il significato di classe media muta da un paese all’altro e dà luogo spesso a equivoci molto curiosi. Il termine è venuto dalla letteratura politica inglese ed indica in questa lingua la borghesia industriale, posta tra la nobiltà e il popolo: in Inghilterra la borghesia non è stata mai concepita come un tutto col popolo, ma sempre staccata da questo. Nella storia inglese è avvenuto anzi che non la borghesia abbia guidato il popolo e si sia fatta aiutare da esso per abbattere i privilegi feudali, ma invece è avvenuto che la nobiltà abbia formato un grande partito di popolo contro lo sfrenato sfruttamento della borghesia industriale e contro le conseguenze dell’industrialismo. C’è una tradizione di torismo popolare (Disraeli, ecc.). Anche la storia dei partiti politici britannici riflette questo sviluppo: gli whigs erano aristocratici che lottavano contro i privilegi e i soprusi della corona; i tories piccoli aristocratici popolareggianti: gli whigs sono diventati il partito degli industriali, delle classi medie, mentre i tories sono diventati il partito della nobiltà, sempre popolareggiante. Dopo l’entrata in vigore, ormai irreparabile, delle grandi riforme whig, dopo cioè che l’industria ebbe completamente conformato lo Stato ai suoi interessi e bisogni, tra i due partiti ci fu scambio di personale, divennero ambedue interclassisti, ma i tories conservarono sempre una certa popolarità e la conservano ancora: gli operai, se non votano per il partito laburista, votano per i conservatori. In Francia si può parlare meno di classe media, perché c’è la tradizione politica e culturale del terzo stato, cioè del blocco tra borghesia e popolo. Gli anglicizzati adoperano il termine nel senso inglese, ma altri l’adoperano nel senso italiano di «piccoli borghesi» e le sue correnti si fondono creando talvolta confusione. In Italia, dove la aristocrazia guerriera è stata distrutta dai Comuni (distrutta fisicamente nella persona dei primi ghibellini) – eccetto che nell’Italia Meridionale e in Sicilia – mancando il concetto e la cosa «classe alta», nell’uso corrente e politico, almeno – l’espressione classe media venne naturalmente a significare «piccola e media borghesia», e, negativamente, non popolo nel senso «non operai e contadini», quindi anche «intellettuali»; per molti anzi classe media indica proprio i ceti intellettuali, gli uomini di cultura (in senso lato, quindi anche gli impiegati [ma specialmente i professionisti]). Concetto di «signori» in Sardegna, di «galantuomini» e di «civili» nel Mezzogiorno e in Sicilia.»
(Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Quaderno 5 (IX), § 119)
Marx ed Engels dopodiché non si erano “dimenticati”, come afferma Cotroneo, del fatto che non esista una classe ideologicamente unita al cento per cento. Non hanno ideato infatti la categoria di sottoproletariato per gioco. Per non parlare poi della sua divisione in sub-classi della borghesia, senza la quale non avrebbe mai teorizzato la teoria della centralizzazione del capitale. Dunque ci possono essere proletari che servono la reazione e borghesi che servono la rivoluzione. Engels afferma infatti che
«Ogni giorno esistono centinaia di esseri umani che, abbindolati dai mezzi di comunicazione, darebbero persino la vita per gli stessi uomini che li sfruttano da generazioni. Io dico: è giusto così. Che questi cagnolini fedeli privi di alcun senso critico, braccio inconsapevole della classe dominante siano in prima fila nella crociata contro l’evoluzione dell’uomo! Saranno i primi a lasciare la faccia della Terra (siano benedette le loro anime) al momento della resa dei conti, nessuno ne sentirà la mancanza. Amen.»
(Friedrich Engels, “Anti-During”)
Ciò è verissimo e mai nessun comunista si è “dimenticato” di ciò: Lenin ha sempre parlato della piccola borghesia come di una classe che avrebbe servito la rivoluzione (ma di cui i proletari dovevano diffidare e che dovevano tenere ben sotto controllo); per Mao la piccola-borghesia e la borghesia progressista erano due delle quattro classi (rappresentate dalle stelle piccole della bandiera della RPC) che avrebbero dovuto contribuire nella formazione dello stato di nuova democrazia; quando Kim Il-sung guidò l’attacco al Sud si riferì alla piccola borghesia cittadina espropriata dei propri averi dalla macelleria sociale dettata dalle politiche di mercato. Semplicemente si può affermare che nel complesso le classi proletaria e borghese abbiano interessi contrapposti: l’aumento del salario o del plusvalore. Quindi in generale la borghesia è per la deregolamentazione, che gli permette di aumentare la sua quota di plusvalore, mentre il proletariato è generalmente contrario a ciò. E’ questo che sostiene Marx, non la totale unità di ogni classe sociale, come vorrebbero far pensare i liberali. Andando avanti si afferma una banalità: ridistribuendo una volta la ricchezza, successivamente la disuguaglianza si raggiungerebbe poiché le persone avrebbero utilizzato il proprio reddito in maniera diversa: qualcuno l’avrebbe sperperato, mentre qualcun’altro avrebbe messo da parte un capitale che avrebbe reinvestito. Non si comprende che ciò avverrebbe poiché non si sono risolte le contraddizioni del capitalismo non eliminando l’accumulazione primitiva dopo la redistribuzione. In caso contrario, non vi sarebbe proprio la possibilità di utilizzare nuovo capitale per i singoli individui, solo lo stato socialista avrebbe avuto il monopolio della loro gestione negli investimenti. Verso la fine, si invoca l’unione tra lavoratori e datori di lavoro contro il socialismo. Ciò non ha alcun senso e, come già spiegato, danneggerebbe solo la condizione materiale dei lavoratori, che sarebbero totalmente disarmati nei confronti di una borghesia che non avrebbe più alcun freno nel tagliarli diritti e garanzie conquistate colle proteste e col sangue, conquistati storicamente, specie in Italia, grazie al Partito Comunista nazionale ed all’Unione Sovietica. Infine ci si lamenta sui fallimenti e gli orrori provocati dal marxismo e dal socialismo reale. Atrocità come il suffragio universale (la RSFSR fu il primo paese nella storia a dare il diritto di voto alle donne), parità tra i sessi nel lavoro, miglioramento generale a livello mondiale delle condizioni dei lavoratori (in crisi, specie in occidente, dalla caduta dell’URSS in poi), lotta alla discriminazione razziale ed all’imperialismo ed industrializzazione di un terzo della superficie globale.