Comunista e non violento

di Guido Liguori, Presidente della International Gramsci Society Italia

dibattitosugramsci thumbGramsci è morto nel 1937 e la sua opera registra ancora un successo crescente, dalle università statunitensi al Brasile, all’India, al Giappone: nessun pensatore italiano dopo Machiavelli ha avuto uguale diffusione. L’articolo di Enrico Mannucci su Sette del 19 aprile fotografava bene questa situazione.

Anche nel nostro paese da anni si registra una ripresa di studi su Gramsci di notevole rilievo. Sorprende dunque che uno studioso italiano, Alessandro Orsini su Sette del 26 aprile, indossi la maglietta del tifoso (di quelli che “tifano contro”) per proporre una immagine di Gramsci come politico e teorico sanguinario e violento. Una assurdità, perché Gramsci è il teorico dell’egemonia, della ricerca del consenso, della politica come crescita civile delle grandi masse, il tutto intessuto con una elaborazione culturale di grande livello.

Se non fosse così, se avesse ragione Orsini, come si spiegherebbe la diffusione odierna dell’insegnamento gramsciano nei cinque continenti? Certo, Gramsci è stato un rivoluzionario, un comunista, anche in carcere. E rivoluzione non vuol dire necessariamente violenza, bensì cambiamento profondo, radicale. Peraltro Gramsci ha rinnovato il concetto di rivoluzione sottolineandone gli aspetti processuali, argomentativi, culturali. Non esitando a contestare contenuti e metodi dello “stalinismo”, proponendo un comunismo originale e diverso.

Venendo alle “accuse” fatte a Gramsci, Orsini usa il metodo della citazione staccata dal contesto, senza spiegarne al lettore origine e senso. Un esempio: Gramsci «esprimeva il suo giubilo quando i liberali venivano presi a cazzotti in faccia», scrive Orsini. Si riferisce a un articolo gramsciano del 1916 in cui si legge: «non siamo entusiastici ammiratori del diritto del pugno; eppure quei pugni vibrati robustamente sul ceffo di Bevione ci riempiono di giubilo e di ammirazione». Il giovane giornalista sardo (25 anni) commenta così una rissa alla Camera tra bellicisti e socialisti. Il Bevione in questione era giornalista e deputato, famoso supporter dell’industria bellica fin dalla guerra di Libia (diverrà deputato fascista). Gramsci polemizza dunque con chi si faceva sostenitore della guerra (questa sì violenza vera e bestiale). Ma – e qui viene fuori il lato comico della tesi di Orsini – vi è un altro fatto: a dare il pugno a Bevione è il deputato socialista Nino Mazzoni, seguace di Turati, il riformista che Orsini contrappone a Gramsci come un angelo al diavolo. Ma questo Orsini non lo dice. O non lo sa. 

Non vi è spazio per dilungarsi sugli altri esempi fatti da Orsini, tutti egualmente contestabili (come ha dimostrato Giacomo Tarascio su Historia Magistra, in un articolo reperibile on line). Può darsi vi sia qualche eccesso negli scritti del giovane Gramsci. Ma la barra è tenuta costantemente sulla rotta dell’opposizione alla guerra e poi al fascismo, e a un capitalismo corrotto e corruttore. È un autore sempre dalla parte delle masse oppresse, dei “subalterni”. Orsini lamenta persino questo linguaggio, ignorando che le metafore militari erano correnti in politica dopo la Grande guerra. Non avrebbe senso rispondere contrapponendogli gli errori di Turati (dal giudizio sui meridionali all’accodarsi a chi inneggiava alla guerra quando essa era ormai quasi vinta) proprio perché un confronto serio è cosa altra tanto dallo scontro fra tifosi, quanto dai tentativi di demolizione faziosa e propagandistica. Per di più di un autore come Gramsci, che tutto il mondo studia con ammirazione e interesse, anche per il modo creativo e partecipato con cui ha sempre saputo stare dalla parte degli oppressi.