di Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli
Victor Hugo, I miserabili:
“Non c’è il nulla. Zero non esiste.
Ogni cosa è qualche cosa. Niente non è niente”.
L’ultima domanda, usando il titolo del miglior racconto di Isaac Asimov, era già stata avanzata tre secoli or sono quando il filosofo tedesco G. W. Leibnitz si domandò, nei suoi Principi della filosofia o monadologia del 1714, “perché esiste qualcosa, e non il nulla?”.
La scienza ha risposto in parte al quesito ontologico di Leibnitz.
Il vuoto quantistico, inteso come zona priva di materia e di massa/energia, risulta allo stesso tempo un nulla e un niente ma, simultaneamente, anche qualcosa: ossia un oceano sconfinato di coppie di particelle e antiparticelle virtuali che si annichiliscono reciprocamente in un tempo infinitesimale, particelle e antiparticelle certo virtuali le quali, tuttavia, producono una reale e concretissima energia del vuoto, come teorizzato dal geniale scienziato Hendrik Casimir nel 1948 e verificato più volte in modo sperimentale tra il 1997 e il 2002.
Hanno efficacemente sintetizzato gli scienziati N. deGrasse Tyson e D. Goldsmith che una «parte centrale della teoria quantistica ci dice che quello che chiamiamo spazio vuoto brulica in realtà di “particelle virtuali” che appaiono e scompaiono così rapidamente che risulta impossibile intercettarle direttamente, o rivelarle con il più sensibile degli strumenti, anche se ne possiamo studiare gli effetti osservabili. Il loro continuo materializzarsi e smaterializzarsi (le cosiddette “fluttuazioni quantistiche del vuoto”, per quelli che apprezzano una bella frase di fisica) conferisce energia allo spazio vuoto».