Ferdinando Dubla (1956), allievo di Cesare Luporini di cui segue il magistero all’Università di Firenze, insegna oggi filosofia e scienze umane e sociali a Taranto; è responsabile dell’Associazione Marx XXI di Taranto e direttore della storica rivista Lavoro Politico web serie. È stato militante del P.C.I. storico, opponendosi al suo scioglimento, in seguito di Rifondazione Comunista e attualmente lavora nel Dipartimento Scuola e Università del PCI.
Tra i suoi testi, “Secchia, il PCI e il ‘68” (Datanews, 1998) con la prefazione di Angiolo Gracci (il partigiano “Gracco”); “La Resistenza accusa ancora” (Nuova ed. Oriente, 2002) sulla figura di Pietro Secchia; “Il Gramsci di Turi” (in collaborazione con Massimo Giusto, Chimienti, 2008); “A fare il giorno nuovo. Il nuovo ruolo dell’intellettuale meridionalista in Gramsci e Scotellaro”, (Chimienti, 2015); “Il doppio sguardo”, e.book in scrittura progressiva dal 2020 sull’analisi comparata tra Gramsci e de Martino (ed. Lavoro Politico), ricerca sviluppata in collaborazione seminariale con la cattedra di Pedagogia generale-Dipartimento di Filosofia dell’Università di Macerata. È promotore del collettivo di ricerca dei Subaltern studies Italia.
Gramsci è senza dubbio una delle figure più importanti, se non la più importante, per la nascita e lo sviluppo del Partito Comunista Italiano. Vorresti condividere con noi le tue riflessioni a riguardo?
Antonio Gramsci è tra i filosofi più importanti del XX secolo e la sua statura internazionale si accresce con il progredire del tempo: fondatore del Partito Comunista Italiano, ha contribuito con spessore teorico alla sua qualità politica. Egli stesso, infatti, impersonava la figura dell’intellettuale “organico”, una ricollocazione di classe dell’uomo di studio e di cultura non più rinchiuso nella torre eburnea dei saperi specialistici, ma impegnato direttamente nella dimensione politica della trasformazione sociale.
Una trasformazione rivoluzionaria, perché l’organicità è saldata al riscatto delle classi subalterne, per mezzo del partito ‘moderno principe’ e intellettuale collettivo. È sempre stato, d’altronde, l’intento strategico della “filosofia della prassi”, espressione dei “Quaderni dal carcere”, centrata sull’unità dialettica di teoria e pratica sociale trasformatrice e rivoluzionaria, una concezione unitaria che ricostruisce l’etica interiore dell’umano in una visione che ricomprende non una natura antropologica astrattamente intesa, ma la storia, dunque “secolarizzata”.
Era stato Marx, a partire dall’“Ideologia Tedesca” (1845), a far prevalere la storia sulla natura antropologica: nella demistificazione del falso universalismo borghese, crolla anche ogni universalismo assoluto. L’uomo è il prodotto della storia, ma è nella storia che si sviluppa la natura umana. Nella natura c’è istinto e intelligenza. Si trattava, dunque, e Gramsci riflette su questo, approfondendo e specificando l’analisi di Marx, di rendere storico l’intelletto collettivo.
Per Gramsci, tutti gli aderenti al partito dovevano trasformarsi in intellettuali dirigenti, giacché il partito, elaboratore di ricerca teorica e azione pratica (la prassi e la sua filosofia, come già nella riflessione di Antonio Labriola) impersonava il passaggio dalla fase dell’economico-corporativo a quella, superiore, del momento etico-politico dove la «necessità è già diventata libertà» [Gramsci, Q. 7, p. 920, ed. Einaudi, 1975], dal particolare all’universale.
Veniamo dunque ad un punto chiave del pensiero di Gramsci: la filosofia della prassi. Quali sono le tue riflessioni in merito?
Filosofia della prassi è, per Gramsci, il marxismo e il suo cuore, la concezione materialistica della storia. Praxis è movimento di andata e ritorno: l’essere umano pensa e agisce, cioè produce materialmente come soggetto collettivo di storia, riflette e intenzionalmente, cioè pedagogicamente, trasforma la società; e storia è cultura, non solo struttura, dunque, ma dialettica che ha nella sovrastruttura il determinarsi non di semplice ‘riflessione’, ma motrice essa stessa della trasformazione sociale.
Se la lotta di classe è base della dialettica rivoluzionaria, la coscienza di classe ne è la conseguenza, ma nel contempo diventa soggetto di storia (il filo di interpretazione che connette la lezione di Cesare Luporini di cui ho seguito il magistero universitario a Firenze, sul rapporto Marx-Gramsci, a me sembra questo, si vedano gli scritti raccolti nel 1974 in “Dialettica e materialismo”, insieme naturalmente al concetto di “formazione economico-sociale”, il quale apre alla possibilità di costituire modelli per l’analisi del modo di produzione capitalistico, ma, nello stesso tempo, di comprendere come i rapporti di produzione si riflettano nella coscienza dei singoli, nelle relazioni intersoggettive e nelle radici stesse della vita morale).
La soggettività storica per una trasformazione rivoluzionaria ha la sua costante alimentazione con la coscienza di classe, un tema che appassionò la ricerca di György Lukács (in “Storia e coscienza di classe”) e Karl Korsh (in “Marxismo e filosofia”), entrambi nel 1923; in Gramsci c’è la formazione “molecolare” di questa coscienza, la sua genesi e il suo potenziale sviluppo.
Egli scrive che “la posizione pratico-teorica, in tale caso, non può diventare «politica», cioè “quistione di egemonia”: la coscienza di essere parte della forza egemonica (cioè la coscienza politica) è la prima fase di una ulteriore e progressiva autocoscienza, cioè di unificazione della pratica e della teoria. Anche l’unità di teoria e pratica non è un dato di fatto meccanico, ma un divenire storico, che ha la sua fase elementare e primitiva nel senso di «distinzione», di «distacco», di «indipendenza»: ecco perché altrove ho osservato che lo sviluppo del concetto-fatto di egemonia ha rappresentato un grande progresso «filosofico» oltre che politico-pratico”. (Gramsci, Q. 8 (XXVIII) § (169), ed. Einaudi, 1975, p.1042.)
L’analisi critica della storia della filosofia, della filosofia spontanea dell’uomo-massa, del folklore delle classi subalterne, del senso comune veicolato dalle classi dominanti tramite i suoi apparati e i suoi intellettuali “organici”, è, per Gramsci, propedeutica alla conquista di una nuova visione del mondo, possibile solo con la coscienza di classe dell’uomo-collettivo, di una filosofia dell’avvenire che si propone la trasformazione rivoluzionaria di sé, degli altri, della società capitalista, nella direzione del socialismo come nuovo umanesimo, dell’unificazione olistica del genere umano che si riappropria dell’“onnilateralità”, che è innanzitutto ricomposizione tra sé e il proprio genere, non più scissi.
Un punto assai importante, quello del socialismo come “nuovo umanesimo”, cui si contrappone la visione liberal capitalista che vorrebbe l’uomo come monade chiusa in se stessa, contemporaneamente metro e misura di ogni cosa ma incapace di organizzarsi in struttura sociale gestaltica…
Il potere di classe vuole monadi isolate: ma l’atomizzazione è propria della omogeneizzazione culturale dei rapporti sociali di produzione capitalisti, dell’uomo-massa senza coscienza di classe. Gramsci indaga su come può, molecolarmente, generarsi questa coscienza. Riflettere oggi su senso comune e folklore, sull’eterodirezione dei subalterni da parte degli apparati egemonici delle classi dominanti, non è esercitazione accademica né trastullo dell’“acribia filologica” sterile, ma impegno costante per quello che anche l’antropologo de Martino chiamava éschaton (riscatto) dei senza storia, perché senza autocoscienza e senza narrazione.
Per questi motivi, la centralità del quaderno 25, che colloca Gramsci tra i classici dei Subaltern studies, un collettivo di ricerca indiano guidato da Ranajit Guha (nato negli anni ’80) che, in connessione con la critica postcoloniale, ha legato la filosofia degli ‘oppressi’ ad una narrazione storica nuova, dando voce, per parafrasare la Gayatri Chakravorty Spivak (“can the subaltern speak?”) a chi non può parlare, in quanto muto e ai margini.
C’è sicuramente anche il problema della traduzione, traducibilità e interpretazione degli scritti di Gramsci [maggiormente prima dell’ottimo lavoro di Joseph Buttigieg (Columbia University Press, 1992-2007)] e non riguarda solo i Subaltern studies, ma anche la critica postcoloniale e gli studi culturali (Stuart Hall). Ma, a nostro avviso, appunto, è l’ottica degli studi a prevalere: i ‘subalternist’ vanno oltre “l’acribia filologica” per impostare una diversa narrazione e interpretazione, aprendo orizzonti conoscitivi non più ’mediati’ dall’egemonia delle classi dominanti.
La stessa “quistione meridionale” si riposiziona: se il meridionalismo è ancora latitudinario, da Sud geografico il Sud postcoloniale è Sud politico, è Sud culturale, è il Sud ai margini della storia, è il Sud dei subalterni senza narrazione.
“La storia dei gruppi sociali subalterni è necessariamente disgregata ed episodica. E’ indubbio che nell’attività storica di questi gruppi c’è la tendenza all’unificazione sia pure su piani provvisori, ma questa tendenza è continuamente spezzata dall’iniziativa dei gruppi dominanti, e pertanto può essere dimostrata solo a ciclo storico compiuto, se esso si conchiude con un successo. I gruppi subalterni subiscono sempre l’iniziativa dei gruppi dominanti, anche quando si ribellano e insorgono: solo la vittoria “permanente” spezza, e non immediatamente, la subordinazione. (..) Ogni traccia di iniziativa autonoma da parte dei gruppi subalterni dovrebbe perciò essere di valore inestimabile per lo storico integrale”. (Gramsci, Q. 25 (XXIII), 1934, Ai margini della storia. Storia dei gruppi sociali subalterni, pag. 2283/2284).
È dallo svelamento di queste tracce che bisogna ripartire, con Gramsci, e con l’intellettuale collettivo che ‘sente’ e che ‘sente’ prima di comprendere.
Partendo da questi presupposti, cosa pensi del ruolo di Secchia nella costruzione del PCI, e come il suo allontanamento dall’organizzazione del partito può aver influito sulla sua successiva evoluzione?
Pietro Secchia è stata una figura importantissima nella storia del movimento operaio italiano e, naturalmente, del PCI. Si è sempre portato dietro lo stereotipo del comunista filobolscevico/filosovietico “duro e puro”, pronto addirittura a passare, nelle fasi acute dello scontro di classe negli anni ’50/’60, alla lotta armata. Ma l’acribia filologica e, ancor più, la “filologia vivente” su testi e documenti, possono contribuire nel tempo, speriamo, a rompere gli schemi precostituiti e i pregiudizi che narrano fantasmi, non storie.
Ho lavorato per diversi anni sull’Archivio Secchia (Feltrinelli) seguendo la traccia del lavoro di Enzo Collotti e pubblicato diversi testi sulle varie fasi della parabola della sua biografia politica, cercando di connettere continuamente la sua filosofia dell’organizzazione con le riflessioni di Gramsci sulla natura e struttura del partito necessario per la transizione ad una società socialista.
Impegnato nelle fila dei giovani comunisti a tessere una fitta organizzazione del centro interno del partito, il suo arresto nel 1931 fu un duro colpo per l’intero antifascismo militante, come scrisse Palmiro Togliatti.
Dirigente politico di primo piano, guidò il settore organizzazione del PCI, che nel 1947 raggiunse e superò i due milioni di iscritti, fino ad assurgere, con Luigi Longo, alla vicesegreteria nel 1948. Nel 1954 fu esautorato dalle sue funzioni per l’affaire-Seniga e sostituito da Giorgio Amendola. Si dedicò con rinnovata passione, negli anni a seguire, al lavoro parlamentare e alla memorialistica storica. Morì nel luglio del 1973 convinto di essere stato avvelenato durante un suo viaggio in Cile nell’anno precedente.
Un tema caro a Secchia fu sempre la necessità della formazione di quadri per un partito comunista che, di massa, non smarrisse mai la sua qualità rivoluzionaria. La formazione dei quadri è vitale in un partito comunista e lo è, per usare un lessico delle moderne scienze della formazione, con una funzione intenzionalmente pedagogica: la selezione dei gruppi dirigenti, l’organizzazione, non può che avvenire nella lotta di classe e per la lotta di classe, attraverso la capacità di dirigere l’azione politica, aborrendo il burocratismo che deriva dall’inazione e dalla passività.
L’intenzionalità pedagogica è rivolta all’interno del partito stesso, ma il partito esso stesso diventa strumento di emancipazione all’esterno, per costruire gramscianamente l’egemonia, innanzitutto sul piano dello smascheramento analitico delle false apparenze e illusioni dell’ideologia e della prassi concreta con cui si sostanzia il dominio economico, politico, culturale, della borghesia.
Azione politica, studio e lotta di classe, organizzazione: il gramsciano “blocco storico” doveva essere antagonista e di massa, opporsi all’“apparecchio” delle classi dominanti dello Stato borghese, che aveva però dovuto cedere terreno, nell’immediato dopoguerra, alla legalità costituzionale proprio in virtù del grande ruolo assunto dal PCI nella lotta antifascista, un “apparecchio” potente e articolato, forte nelle minute pieghe della società subalterna, delle classi popolari, capace di una lotta a tutto campo, difensiva e offensiva, e in cui ogni tattica doveva divenire “opportuna”, non opportunistica, legata alla strategia e alla prospettiva socialista. Prospettiva che si costruisce con le proprie mani, non attendendo messianicamente l’intervento, prima o poi, della “patria socialista”.
Il periodo 1948/1951 fu per Secchia il periodo di massima incisività politico-organizzativa: si potrebbe affermare che è proprio la fase in cui il rapporto politica/organizzazione si rovescia; il primato dell’organizzazione è de facto lo strumento attraverso il quale, nonostante le ripetute dichiarazioni contrarie, Secchia tenta un’applicazione della linea politica elaborata da Togliatti (“partito nuovo-democrazia progressiva”) in chiave più marcatamente classista.
L’organizzazione non è uno schema prefabbricato, non predilige formulari dogmatici, ma è funzionale agli obiettivi politici; ecco perché la costruzione del processo rivoluzionario diventa tutt’uno con l’analisi politica derivante dalla “guerra di posizione”, conquista progressiva di “trincee” e “casematte” della società civile, organizzazione del consenso nelle pieghe minute della classe operaia e delle classi popolari: altro che piani K che il nemico strombazza per scongiurare il terrore che lo prende di fronte ad una capacità grande del partito di organizzare la lotta di classe. Non è l’apparato la forza del partito comunista, ma il suo profondo legame con le masse: il partito di quadri che riesce a radicarsi nel popolo, che diventa di massa e popolare, che non potrebbe vivere senza questa sintonia.
Purtroppo però, negli anni 50 il partito cominciò a prendere un’altra strada…
Il PCI di Togliatti dopo il Congresso del 1951 tenderà invece a rendere centrale il momento tattico come preminente rispetto alle finalità strategiche e detterà modalità e tempi dell’aggiornamento e revisione dei princìpi, caratteristica progressiva nella vicenda del PCI post-togliattiano (pur con fasi diverse e con modalità affatto univoche e lineari), in particolare la perdita di una cosciente intenzionalità pedagogica per costruire l’egemonia delle classi subalterne e un’aderenza a logiche politiche deprivate di finalità strategiche. Un mutamento, però, che non avverrà nell’arco di un tempo breve: e le maggiori resistenze gli si porranno proprio dall’impianto e dalla struttura organizzativa, la cui “decostruzione” avrà bisogno di tempi differiti, non esistendo altre forme organizzative se non quelle proprie di chi ha rinunciato a trasformare la società in senso socialista.
Sono questi i veri motivi che porteranno all’emarginazione di Secchia nel 1954, un’emarginazione che Togliatti programmò subito dopo gli avvenimenti dei primi mesi del ’51 (quelli che precedettero il Congresso). I pretesti, fossero quelli di una complicità di Secchia con Stalin per esautorare Togliatti da segretario del PCI per collocarlo alla guida del Cominform, come nel 1951, o quelli di una scarsa vigilanza nei confronti del transfuga Seniga, nel 1954, potevano essere anche diversi.
In realtà, dal 1951 al 1954, inizierà la tendenza ad accantonare l’idea che un Partito Comunista non settario né opportunista, di quadri e di massa, potesse continuare a lavorare per un processo rivoluzionario in direzione del socialismo, come indicato da Gramsci, e che frutterà sì postazioni favorevoli alle classi lavoratrici, ma pur sempre nel quadro delle compatibilità dettate dalle classi dominanti e dunque su basi non permanenti; un processo non lineare e immediato, lo ripetiamo, non privo di contraddizioni, specie perché filtrato dalla passione, dai sentimenti, dalla coscienza dei militanti e dell’intero popolo comunista. Ma anche qui, appunto, si scopre la fecondità della marxiana dialettica materialista nell’analisi e nell’interpretazione storica: sempre la realtà è più complessa delle rappresentazioni descrittive con cui ci si sforza di comprenderla.
Cambiamo argomento: al di là dello stereotipo che vede de Martino come il classico intellettuale meridionalista che per un tratto ha condiviso il percorso del PCI, cosa puoi dirci della reale profondità del suo pensiero?
Ernesto de Martino è stato uno degli intellettuali più importanti del XX secolo e la sua conoscenza si svilupperà ancor più nel tempo, credo e spero. È stato certamente l’etnologo che ha posto le basi di un umanesimo antropologico di derivazione storicista, ma in interlocuzione permanente con gli studi culturali in ambito internazionale, per cui ha una statura filosofica che supera di gran lunga i vari stereotipi che hanno attraversato la ricezione dei suoi lavori: storicista crociano, ma per niente ortodosso e critico dialettico dell’idealismo storicistico.
Fu insigne meridionalista e autore di una importante “trilogia”, impegnato politicamente prima nel PSI, per la frequentazione del gruppo socialista di Villa Laterza a Bari, e poi nel Partito Comunista, influenzato dagli scritti di Gramsci e infine, dopo le sue ricerche sul campo, in Basilicata e nel Salento, scrittore “für ewig” di appunti che “superano” l’impostazione marxista che si sarebbero concretizzati nell’opera postuma, curata da Angelo Brelich e Clara Gallini, “La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali”, pubblicata nella prima edizione con Einaudi nel 1977.
E, purtroppo, gli studi accademici tendono oggi per lo più a sottolineare la “discontinuità” delle varie fasi della biografia demartiniana, piuttosto che a sottolineare gli aspetti unitari di fondo della sua intera riflessione vivificata dall’inchiesta sul campo.
In realtà, io credo che de Martino abbia un aspetto prevalente e un filo unitario che lo attraversa in tutte le varie fasi del suo lavoro, che può essere connotato complessivamente come di antropologia filosofica: l’analisi dei gruppi subalterni e della loro cultura, l’irruzione, come egli la chiama, nella storia, dei ceti popolari, con le loro tradizioni, il modo di concepire la propria esistenza e quella degli altri, l’angoscia esistenziale e le materiali condizioni di vita, la ricerca dell’atavico e dell’ancestrale nel ‘primitivo magico’ dell’essere umano, sfruttato e alienato, dominato e reso muto ma capace di riscatto e di un percorso di liberazione di sé in quanto appartenente ad un collettivo in cui si rispecchia per il tramite della ritualità e in genere dei codici simbolici.
Quindi a tuo avviso c’è una profonda relazione tra il pensiero di Gramsci e quello di de Martino…
Certamente, quelli di Gramsci e de Martino risultano essere sguardi ‘complementari’, un doppio sguardo che si unifica olisticamente e necessariamente per la pluridimensionalità dell’essere umano: necessario per il riscatto delle classi subalterne, l’uno attraverso la scienza politica e la filosofia della prassi, l’altro attraverso la ricerca sul campo e l’antropologia filosofica, l’uno e l’altro impegnati in uno sforzo di interpretazione, hanno sviluppato categorie ermeneutiche che attraversano l’essere umano in tutte le sue dimensioni, implicitamente alla ricerca di quell’“uomo onnilaterale” di Marx, in cui convivono razionalità e irrazionalità, sentimento e ragione, e si intrecciano natura, storia e cultura.
Non si tratta, a nostro avviso, di “accostare” le categorie di egemonia, senso comune o folklore con la crisi della presenza e l’ethos del trascendimento o la destorificazione del negativo, ma di leggerle in senso olistico, come “doppio sguardo” dell’unitarietà umanistica, storica ed esistenziale, che abbraccia la ricca molteplicità e la pluridimensionalità dell’essere, nella sfera materiale, relazionale, “spirituale”, senza residui “misterici”, se non l’occultamento tramite l’apparenza fenomenologica, segno dialettico strutturale e sovrastrutturale insieme della società alienata e mercificata del sistema capitalistico, inserito però in un più complessivo “paradigma di civiltà”, segnatamente quello produttivistico e industrialista, che ha provocato una vera e propria “mutazione antropologica” (categoria pasoliniana) in quanto sempre più distante dalle civiltà “della terra”; è così che il “doppio sguardo” può cogliere quello del bracciante di Minervino (citato da de Martino) e, insieme, l’utopia millenaristica di Davide Lazzaretti (citato da Gramsci), cioè il sudore della zolla e il misticismo comunitario.
Il raffronto è diretto (esplicito) quando de Martino studia Gramsci sulle edizioni degli scritti del 1947, 1948 e del 1951, ma è indiretto (implicito) quando l’etnologo partenopeo riflette sui temi dell’antropologia legata alla sua ricerca sul campo e sull’antropologia filosofica che, in particolare negli ultimi anni, si rivolge più analiticamente alla cultura filosofica europea e internazionale.
Dunque, se il senso di appartenenza a un mondo storico è il tratto culturale dell’identità antropologica di un popolo, lo straniamento è alla radice dell’alienazione; per cui diventa centrale il rapporto, che è atavico e ancestrale insieme, con la terra e il proprio territorio. In chiave di attualizzazione, la relazione umana che presiede alla propria configurazione, passa da individuale a collettiva: e, per mezzo di essa, diventa possibile la trasformazione rivoluzionaria.
È, molecolarmente, la fase della genesi della coscienza di classe in Gramsci: qui però, la presa di coscienza avviene “per entro” l’altro sguardo possibile, quello che può anche produrre i fantasmi magici del senso comune veicolato dall’egemonia delle classi dominanti e i fenomeni di alienazione diventano tutti “spossessamento e “altro-da-sé”, proprio come accade oggi nei processi di omogeneizzazione culturale della società consumistica di massa.
L’ethos del trascendimento, che è sempre immanente in questi processi, vera chiave della filosofia demartiniana, diventa così la base dell’éschaton, del possibile riscatto: la ricerca dell’autodeterminazione sociale, politica, economica, etica della società “autoregolata” che Gramsci indica come fine strategico dell’ideale comunista, passa attraverso la ricerca della totale liberazione degli esseri umani, sottraendo l’angoscia alla dimensione psicopatologica e la disperazione alla condizione dei subalterni.
“Il mondo popolare subalterno costituisce, per la società borghese, un mondo di cose più che di persone”. (E. de Martino, “Intorno a una storia del mondo popolare subalterno”, su Società nr. 3/1949)
Questo saggio è un vero e proprio manifesto per gli studi subalterni in Italia. In una delle mie conversazioni con Cesare Luporini, nell’anno stesso della sua messa in quiescenza (1979), ebbe a dirmi che la nota redazionale preposta all’articolo sulla rivista, che sottolineava la non identificazione con la “linea” della redazione, in realtà rivelava il timore che gli stessi temi analizzati dall’etnologo napoletano fossero confinati nell’irrazionalismo e dunque risultassero ostici per una loro immediata ricezione politica per il Partito Comunista.
In sintesi: l’ethos del trascendimento e la destorificazione del negativo nell’antropologia filosofica di de Martino, la formazione “molecolare” della coscienza di classe nella filosofia della prassi di Gramsci, entrambi accomunati da una concezione dialettica della storia, la mutazione antropologica di Pasolini per la critica a un paradigma di civiltà, quello del capitalismo come sistema di valori: è da qui che può partire un collettivo di ricerca per gli studi subalterni in Italia che, sulla scia dei Subaltern studies indiani di Ranajit Guha, con alcune suggestioni, criticabili ma di ricerca aperta, della critica postcoloniale (Spivak e Chakrabarty) e degli studi culturali (Stuart Hall), narrino la storia senza ‘mediazione’ dei gruppi subalterni per ogni Sud del mono: se il meridionalismo è ancora latitudinario, da SUD geografico il SUD postcoloniale è SUD politico, è SUD culturale, è il SUD ai margini della storia, è il SUD dei subalterni senza narrazione.
Inserire Gramsci e de Martino filologicamente negli studi subalterni internazionali, è compito attuale di un collettivo di ricerca Subaltern studies Italia, insieme alla riproposizione di straordinari strumenti analitici delle forme della modernità, come l’intellettuale collettivo gramsciano e il ‘general intellet’ di Marx.
Concludendo, ci piacerebbe chiederti quali sono a tuo avviso i punti chiave per la ricostruzione di una prospettiva Comunista in Italia.
È necessario un partito innestato nella tradizione ma che interpreti la modernità e le sue contraddizioni, che sappia lavorare sul medio-lungo periodo ma capace di intervenire nell’immediato, che sappia interpretare la nuova composizione di classe aspirando comunque a rappresentare il ceto produttivo di fabbrica e il proletariato subalterno di nuovo conio, cioè derivante dalle dinamiche del capitalismo a egemonia finanziaria e dell’imperialismo.
Un partito che ridia fascino al proprio orizzonte socialista nelle specificità della sovranità dei popoli, che sappia elaborare e deliberare collettivamente, con l’intento di unire comunisti e sinistra e per un’efficace azione politica, senza la quale ogni riflessione, seppur elevata, diventa sterile.
Si tratta, dunque, di rendere storico l’intelletto collettivo. Il potere di classe del sistema capitalista vuole monadi isolate: ma l’atomizzazione è propria della omogeneizzazione culturale dei rapporti sociali di produzione incentrati su profitto e plusvalore, dell’uomo-massa senza coscienza di classe.
È Gramsci ad aver indagato su come può generarsi questa coscienza, e il partito comunista, leninisticamente partito di quadri perché reali avanguardie, deve sviluppare questa coscienza attraverso una linea di massa; ciò chiama in causa il radicamento popolare del partito dei comunisti.
C’è chi li vuole folcloristici e testimoniali, un gruppo settario dedito allo studio della distillazione teorica senza incidenza e senza influenza; combattere il dogmatismo e il settarismo è però l’altra faccia di un’altra battaglia: quella contro l’opportunismo e la subalternità compatibilista. È nella tradizione del PCI la battaglia su questi due fronti, che specularmene si sostengono l’un l’altro.
Il compito, modernissimo, dei comunisti oggi, è ricondurre ad unità la frammentazione della classe, speculare all’unità politica della sinistra di classe nel nostro paese: più capacità di radicamento di massa, con una linea politica di massa, con la formazione permanente di quadri e militanti attivi per contrastare la tendenza alla delega, al verticismo, alla separazione, per favorire la partecipazione cosciente delle donne e degli uomini alla costruzione del loro stesso destino.
Ed è questo compito che definisce la necessità di una mirata politica dei quadri, i quali si formano, vengono formati, si autoistruiscono attraverso una militanza attiva, con la partecipazione convinta e motivata alle battaglie sul territorio a cui viene legato un respiro più grande, quello della lotta alle contraddizioni della società capitalista e alle conseguenze sociali dell’imperialismo; la sfida per un Partito comunista è proprio quella di non venir meno alla coesione interna sui fini e tratti identitari, pur nell’incessante capacità creativa dei suoi quadri di saper rispondere adeguatamente alle fasi storico-politiche. E per questa capacità creativa, è necessario che il partito sia intellettuale collettivo, nella ricerca aperta e incessante dei suoi militanti e intellettuali ‘organici’ alla classe, nella discussione continua, ma infine nell’azione politica deliberata collettivamente.
Il partito come strumento di emancipazione costante della rappresentatività di classe, un partito che si modifica interpretando correttamente la realtà e le sue incessanti trasformazioni, ma che non perde mai la bussola dei suoi principi fondanti (in un corretto rapporto tattica/strategia), perché, oltre la sua ragion d’essere, la sua identità, così perderebbe sia il ruolo di scuola formativa, nel senso pedagogico gramsciano dell’autoistruzione dell’‘intellettuale collettivo”, sia il fascino dei suoi ideali di superamento dello ‘stato delle cose esistente’, e cioè della barbarie capitalista. La selezione dei quadri è al contempo frutto e risultato della lotta di classe, ma è anche funzionale all’organizzazione della stessa su larga scala, in un processo dialettico che rende l‘alfabetizzazione politica lo strumento culturale più efficace per interpretare la realtà e dunque modificarla strutturalmente, in profondità, nelle ‘trame minute’ del conflitto sociale.
Il ‘frammento sulle macchine’ degli appunti per “Il Capitale” di Marx, noti come Grundrisse (Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, composti tra il 1857 e il 1858), hanno, a mio avviso, un’attualità straordinaria, fuori da ogni lettura cripto-critica (critica-critica la avrebbero chiamata Marx ed Engels nella ‘Sacra famiglia’) e si legano al tema del partito comunista come costruttore di una nuova egemonia per il riscatto e la liberazione dei subalterni: se il complessivo sapere dell’intelligenza sociale (non solo i mezzi di produzione, ma la conoscenza ad essi connessi, la cultura, l’arte e la scienza, capitale fisso dell’intera umanità) non viene condiviso, l’appropriazione privata del “general intellect” colliderà con le esigenze e i bisogni di natura sociale di tutti gli individui.
È una fondamentale contraddizione di sistema, strutturale e sovrastrutturale. Coniugata con l’elaborazione dell’“intellettuale collettivo” nella riflessione di Gramsci, essa squaderna tutta la sua attualità oggi, nell’era pandemica, dove la proprietà privata della scienza e della tecnica, nei sistemi capitalistici, si scontra con il benessere sociale.