Il paradosso del robot. Confutazione di una confutazione

di Ascanio Bernardeschi

da https://www.lacittafutura.it

Contrariamente a quanto affermato da “confutatori” che non hanno compreso la teoria di Marx, con l’introduzione dei robot si riduce il lavoro necessario e con ciò il valore delle merci. I limiti del progresso tecnologico nel modo di produzione capitalistico.

Sta circolando in rete la descrizione di un paradosso, che chiameremo il paradosso del robot

Si immagina che un’impresa licenzi tutti gli operai, tranne uno, sostituendoli con dei robot il cui costo è identico a quello degli operai. Pertanto l’imprenditore può portare il proprio prodotto sul mercato allo stesso prezzo del prodotto delle altre imprese che continuano a utilizzare lavoratori ricavandone un uguale profitto. Viene così meno la validità della teoria marxiana secondo cui solo il lavoro produce valore. E questa presunta confutazione è manna per i teorici della fine del lavoro.

Non che questo racconto sia completamente originale. Un suo stretto parente risale almeno al 1898, quando Vladimir Karpovič Dmitriev, un economista neoricardiano – a cui, secondo Gianfranco Pala [1], si era ispirato Sraffa – sempre per confutare la teoria del valore di Marx, aveva ipotizzato un’economia nella quale le macchine facevano tutto, senza l’intervento del lavoro umano, nel qual caso, sosteneva, sarebbe ugualmente esistito un enorme surplus prodotto.

Nel sistema di analisi dmitrieviano (e poi sraffiano) le cose stanno esattamente nel modo dal lui descritto: la produzione parte da input fisici e realizza output fisici in quantità maggiore. È chiaro che il sovrappiù fisico – si parla appunto di sovrappiù e non di plusvalore – è identico sia nel caso della produzione a mezzo di lavoratori sia in quello a mezzo di merci (usando l’espressione impiegata da Sraffa per intitolare il suo più noto lavoro [2]).

Come funzionerebbero invece le cose utilizzando la teoria di Marx?

Sorgerebbe una prima obiezione. I lavoratori si sostituiscono con macchine solo se in questo modo si riduce il valore delle merci per poter essere più competitivi nel mercato e lucrare la differenza fra il valore individuale così ribassato e il valore sociale che è possibile realizzare, dato dal tempo di lavoro socialmente necessario che ancora si afferma nella generalità delle altre imprese.

Né ha solidità l’obiezione che un imprenditore, a parità di costi, possa approdare a una simile scelta per liberarsi dai lavoratori, dalle grane col sindacato, dagli scioperi e così via. Tutti questi inghippi si traducono comunque, prima o poi, in dispendi che vanno a maggiorare il costo di produzione delle merci; oppure in benefici, se – come sta accadendo negli ultimi 40 anni – ha di fronte un sindacato arrendevole, uno Stato che tutela gli interessi del capitale, e un’organizzazione della produzione che riduce il potere contrattuale dei lavoratori.

Se i computer necessitano inesorabilmente di essere alimentati con energia elettrica, vi sono tanti consumi dell’operaio che possono essere resi superflui. In tal caso il capitalista può avere l’aspettativa di problemi e costi decrescenti continuando a impiegare lavoratori. Siccome qui siamo di fronte un’ipotesi di costi identici, occorre ipotizzare che anche l’importo presunto di tali aggravi o benefici sia già considerato nel raffronto fra le due situazioni e il costo dei robot sia equivalente a quello dei lavoratori tenuto di conto di tutto il resto.

C’è una questione ancora più rilevante. Se dei lavoratori posso disfarmi con relativa facilità – e infatti sostituendoli con robot ne mando a casa diversi – non è così per i macchinari: devo prevedere di tenermeli fintanto non li ho ammortizzati. Se nel frattempo si impone nel mercato una tecnologia più efficiente che riduce sensibilmente i costi di produzione, io o mi disfaccio dei miei robot per accedere a nuovi macchinari, subendo una perdita pari al costo d’acquisto dei robot obsoleti non ancora ammortizzato, oppure continuo a lavorare andando fuori mercato e rischiando il fallimento. I robot, quindi si introducono solo se mi permettono di ridurre i costi.

Ma siccome siamo a discutere di un paradosso, accettiamo pure questo terreno di discussione in cui si sostiene che il postulato di Marx – solo il lavoro crea valore – confligge con la realtà delle cose. Per poterlo sostenere deve essere dimostrato che la situazione ipotizzata conduca a conclusioni non inconciliabili con la teoria marxiana del valore. Cercherò invece di evidenziare che all’interno di questa teoria non esistono contraddizioni e che il paradosso non riesce a individuarle in quanto l’introduzione dei robot determina conseguenze compatibili con la teoria di Marx.

Per prima cosa l’autore del paradosso (e alcuni sraffiani con lui) confonde i valori d’uso con i valori. Posso, con l’automazione, spingere molto la produzione di valori d’uso, per esempio decuplicarla a parità di lavoro diretto e indiretto speso, ma ciò non significa che il valore del mio prodotto sia duplicato. Piuttosto è probabile che rimanga lo stesso. Qui invece siamo di fronte addirittura a una produzione che non fa scendere i prezzi unitari, ma che elimina drasticamente il lavoro. Come può accadere? Non accade.

Quando un’impresa introduce i robot, a fronte di un identico valore del capitale impiegato si sostituisce semplicemente quello variabile con quello costante. Non esiste più un plusvalore, se si eccettua quello prodotto dall’unico lavoratore rimasto e pertanto il valore individuale del suo prodotto si riduce.

Immagino già l’obiezione a questo argomento. L’impresa “innovatrice” porta sul mercato merci identiche a quelle dei concorrenti, prodotte sostenendo il medesimo costo, e può venderle all’identico prezzo dei concorrenti, realizzando un identico profitto. Quindi le merci prodotte con i robot valgono quanto quelle prodotte dagli uomini, pur impiegando una minore quantità di lavoro.

Oltre alla confusione tra valori d’uso e valore, vi sono in questa ipotetica obiezione due ulteriori, erronee, identificazioni. La prima è fra il valore individuale, cioè il lavoro speso da una singola unità produttiva, e il valore sociale dato dal lavoro socialmente necessario secondo la tecnica, l’intensità del lavoro ecc. prevalenti nella società.

Il valore individuale della produzione a mezzo di robot è dato dai costi sostenuti; in questo caso, quasi completamente dal capitale costante, l’aliquota annua di ammortamento del lavoro morto cristallizzato nei robot, il lavoro contenuto nelle materie prime ecc. Grazie al lavoro utile del singolo lavoratore rimasto, il valore del capitale costante consumato si trasferisce pari pari nel prodotto. Ciò avviene perché i mezzi di produzione perdono di utilità consumandosi e/o subendo obsolescenza, e con ciò perdono valore, ma il carattere utile del lavoro concreto, consentendo di realizzare prodotti utili, fa sì che il valore perduto si trasferisca nel prodotto. Al valore del capitale costante deve essere poi aggiunto il lavoro vivo speso dall’unico lavoratore che si suddivide nella spesa sostenuta per acquisire questa forza-lavoro (capitale variabile) e nel plusvalore, la cui fonte è il lavoro che eccede quello necessario alla riproduzione della forza-lavoro stessa. È chiaro che le merci, astraendo dalle oscillazioni di mercato e dai problemi di realizzo, si vendono ancora in base al valore sociale, risultante dal criterio produttivo prevalente, che nel nostro caso è a mezzo di lavoro vivo non sostituito da robot. E fintanto il metodo di produzione a mezzo robot è confinato in un’unica impresa, si può presumere che anche il costo sociale di riproduzione della forza-lavoro non vari in maniera significativa e quindi si possa approssimare a quello preesistente, trascurando l’aumento di produttività. Marx ha chiaramente affermato che le merci si scambiano al valore sociale. Se per realizzare una pizza margherita impiego il doppio o la metà del tempo di lavoro che mediamente impiegano gli altri pizzaioli, non è che la mia pizza vale il doppio o la metà delle altre. Vale quanto le altre. Quindi anche il produttore a mezzo di robot può realizzare il prezzo che si afferma nel mercato che a lui appare come contenente un plusvalore. Ma questa apparenza si manifesta perché egli intasca una parte del pluslavoro speso nelle altre imprese.

Ecco quindi l’altro equivoco: identificare la manifestazione fenomenica che appare ai capitalisti con l’essenza della realtà. Marx ebbe a dire che se le due cose “coincidessero non ci sarebbe [bisogno della] scienza”. Al capitalista appaiono i costi di produzione, i prezzi di mercato, i profitti ecc. Ma occorre stabilire cosa ci sta dietro e a tale scopo la teoria marxiana parte dagli elementi più astratti e gradualmente ricostruisce la complessità avvicinandosi a quella che è la percezione fenomenica dei capitalisti, ma spiegandola sulla base di rigorosi fondamenti teorici. La “scienza economica” borghese per lo più rimane impigliata nel modo in cui vengono percepite le cose dagli agenti del capitale e si limita a considerarle così come appaiono. Non è pertanto contemplato che i profitti siano la risultante della redistribuzione del plusvalore sociale, il che invece avviene necessariamente una volta che si consideri la concorrenza tra capitali.

Se il lettore ha pazienza introduco un esempio numerico. Siccome siamo di fronte a un paradosso, parto da situazioni estremamente semplici, per esempio una identica composizione dei capitali nella varie industrie, ma i concetti non cambierebbero ipotizzando situazioni più complesse.

Supponiamo allora che il nostro sistema economico sia composta da 10 mila imprese e che ciascuna di esse impieghi un capitale costante di 100, un capitale variabile di 100, necessario per retribuire 100 lavoratori, e realizzi un plusvalore di 100 (saggio del plusvalore del 100 per cento). Non ha rilievo se le imprese producono tutte la stessa merce oppure se alcune ne producono una, altre un’altra e così via. Nel sistema avremo un prodotto complessivo che vale

1.000.000c + 1.000.000v + 1.000.000pv = 3.000.000 [1]

Il saggio medio del profitto sarà 1.000.000/2.000.000 = 50%.

A un certo punto, per motivi ignoti, una di esse manda a casa 99 lavoratori, sostituendoli con 99 robot (o con uno che fa il lavoro di 99) e che hanno un costo annuo pari a quello dei 99 lavoratori espulsi. La situazione nuova di questa azienda sarà pertanto 199c + 1v + 1pv = 201. Le restanti 9.999 imprese avranno 999.900c + 999.900v + 999.900pv = 2.99700.

Sommando la produzione della prima impresa alle altre avremo:

1.000.099c + 999.901v + 999.901pv = 2.999.901 [2]

Il valore globale del prodotto è diminuito di 99, un importo infinitesimale rispetto ai 3 milioni, come pure il saggio del profitto che si attesta al 999.901/2.000.000 = 49,995%.

Per la percezione dei capitalisti, quindi, nessun trauma. Il capitalista che ha introdotto robot può intascare, al pari degli altri 99,995 di profitto, cioè, sostanzialmente lo stesso profitto di prima. Ho trascurato qui il plusvalore relativo dovuto all’aumento di produttività del lavoro che si ottiene sostituendo i lavoratori con robot perché un’azienda su 10 mila non lo modifica in maniera sensibile. Tenendo invece di conto di ciò il saggio del profitto si avvicinerebbe ancora di più al 50% di partenza.

Vediamo cosa succederebbe invece se non solo un’impresa, ma ben la metà di esse, 5.000, decidessero di introdurre quei robot. Questa volta, presumendo per semplicità che sia nel settore che produce mezzi di consumo dei lavoratori che in quello che produce mezzi di produzione la metà delle imprese introduca l’innovazione, il valore della forza-lavoro a livello sistemico, dopo qualche periodo di rotazione, si riduce sensibilmente e con ciò aumenta il plusvalore relativo e il saggio del plusvalore e diminuisce sensibilmente il valore del capitale costante. Il risultato della nuova configurazione dipende dalle ipotesi inerenti tale aumento della produttività e dal peso del capitale costante di nuova acquisizione rispetto alla spesa storica (per esempio i robot non ancora ammortizzati). Complessivamente però il valore della produzione non può che diminuire in una maniera significativa, dell’ordine del 25-30% in dipendenza di diverse ipotesi adottabili (risparmio al lettore lo sviluppo dei calcoli fatti). Ciò avviene per effetto della riduzione del lavoro vivo complessivamente necessario e di un aumento del valore del capitale costante che non può compensare la diminuzione del lavoro vivo perché, per quanto aumentato in termini fisici si ha un ribasso dei costi unitari di acquisto. Tuttavia, ancora una volta, il valore del prodotto e il saggio del plusvalore nelle imprese innovative non saranno diversi da quelli delle restanti imprese e ai capitalisti apparirà che non c’è differenza fra l’impiego di lavoratori e l’impiego di robot. Il saggio del profitto, tuttavia, scenderebbe intorno al 40% ove si astragga da problemi di realizzo del plusvalore. Infatti, a quest’ultimo proposito, dimezzandosi quasi il numero dei lavoratori sorgerebbe anche il problema di individuare compratori per smaltire il prodotto eccedente le possibilità di spesa della classe lavoratrice. Come si fa a vendere a non lavoratori privi di reddito tutto questo ben di Dio? Visto che siamo su un terreno paradossale si può pensare di sfuggire a questo problema immaginando che lo scambio dell’eccedente avvenga solo tra capitalisti. Si supponga che una parte di questa eccedenza consista in mezzi di consumo riservati a questa classe, il resto in nuovi mezzi di produzione che servono a produrre nuovi mezzi di produzione per allargare la capacità produttiva secondo il “capitalismo impazzito” di Tugan-Baranovsky. E anche questa difficoltà è superata (sulla carta!).

Vediamo cosa succederebbe se l’innovazione si generalizzasse completamente, cioè se tutte le imprese la adottassero. Avremmo che il valore della produzione diventa infimo, uguale al valore del capitale costante, equivalente tendenzialmente all’ammortamento del capitale fisso rimasto da ammortizzare e a quanto esso incide sul costo degli altri mezzi di produzione cui aggiungere il pochissimo lavoro speso dall’1% degli originari lavoratori!

Se poi i robot fossero in grado di produrre senza bisogno dell’unico lavoratore per azienda, il valore complessivo sarebbe dato dal solo capitale costante, che una volta ammortizzato quello storico si azzererebbe, senza alcun plusvalore. Il saggio del profitto sarebbe indeterminato (0/0). Vi sarebbe cioè un sistema produttivo in grado di moltiplicare i valori d’uso privi di valore e quindi non vi sarebbe neppure accumulazione di ricchezza astratta. La classe dei capitalisti potrebbe così avere sempre più possibilità di consumo e svago ma in realtà non sarebbe più una classe capitalista perché non avrebbe più necessità di sfruttare lavoratori e non potrebbe più accumulare denaro, se non nella forma fittizia consentita dall’inflazione, visto che anche il denaro potrebbe essere prodotto da robot, che esso non servirebbe a niente e non avrebbe valore (questo sì è un bel paradosso!). Ma prima che ciò avvenga, supponendo per esempio che ci sia ancora un residuo valore del capitale costante prodotto in epoche anteriori, lo scambio avverrebbe tra capitalisti, le entrate e le spese, per la classe nel suo insieme, si compenserebbero e il denaro immesso in circolazione, D, sarebbe di pari importo di quello che ritorna nelle tasche di questa classe dopo la vendita del prodotto, D’, dove l’apice è improprio, perché non c’è nessun incremento, nessun pluslavoro. Ovviamente la cosa la possiamo complicare quanto vogliamo, introdurre per esempio una classe servile sterile (non solo domestici e simili, ma anche servitori del potere economico, quali gli economisti, avvocati, politici, militari, sbirri, preti, sacerdoti del web ecc.). Ma quello che potrebbe spendere questa classe improduttiva coinciderebbe ugualmente con quanto i capitalisti/non-più-capitalisti corrispondono loro come retribuzione. Siamo di nuovo di fronte a una partita di giro.

La situazione che pare insostenibile nell’ambito del capitalismo, potrebbe avere una sua razionalità in un sistema socialista dove questa manna di Dio, prodotta grazie al solo lavoro passato e senza intervento di nuovo lavoro, potrebbe essere distribuita fra tutta la popolazione o utilizzata per scopi sociali. Vi sarebbe un incremento costante di ricchezza in termini di valori d’uso senza nessuna accumulazione di capitale ma solo accumulazione fisica di mezzi di produzione per produrre sempre più beni utili, il che non significa necessariamente consumismo sfrenato ma può significare anche soddisfacimento di bisogni sempre più maturi, elevamento culturale per tutti, piena sicurezza sociale, miglioramento dell’ambiente, supporto a conquiste scientifiche per mezzo dell’intelligenza artificiale diffusa ecc.

Siamo partiti da un paradosso e abbiamo proceduto inevitabilmente per paradossi. Ma la cosa è meno fantascientifica di quanto sembri. Dagli albori del capitalismo a oggi il saggio del profitto è sceso drasticamente. Pur considerando la difficoltà di una sua misurazione, dovuta all’annoso problema della misurazione del capitale con le vigenti metodologie statistiche e al sistematico occultamento degli utili, per restare all’ultimo secolo e mezzo circa, tra forti oscillazioni, si è passati dal 40% del 1860 al 10% del 1982, dopo di che, grazie alle politiche liberiste che hanno messo in campo le famose “cause antagonistiche” di Marx, la caduta è stata arrestata e si è assistito a una certa ripresa che comunque colloca il saggio intorno al 12% nel 2009, ultimo anno di cui sono riuscito a reperire dati. Il saggio si è ridotto quindi a meno di un terzo, e studi empirici mostrano che questa caduta è strettamente correlata all’aumento della composizione del capitale, cioè alla sostituzione di uomini con macchine [3].

Mi è stato controbattuto da un cortese interlocutore: “un economista classico potrebbe obiettare che la tendenza alla riduzione del saggio di profitto sia causata da un progressivo e generalizzato abbassamento dei costi di produzione, dovuto all’automazione, e quindi a una corrispondente riduzione dei prezzi di vendita, che tendono a convergere al prezzo di costo riducendo il guadagno. Tutto questo senza fare distinzioni fra il valore aggiunto dal lavoro umano e quello aggiunto da un robot”. Ma questo abbassamento dei costi avviene proprio perché si è risparmiato lavoro. E se gli economisti borghesi sostengono che l’automazione porta all’abbassamento dei costi (e dei prezzi) a) dicono una cosa non contraddittoria rispetto alla teoria marxiana, b) dovrebbero spiegare perché l’automazione, riducendo i costi, riduce parallelamente i margini di guadagno laddove il valore (e quindi il plusvalore, o chiamiamolo pure guadagno) possa scaturire da cosa diversa dal lavoro.

Ma, altra obiezione, i capitalisti sono così folli da rovinarsi con le proprie mani? Per loro sfortuna sì. E non perché non siano razionali. Ognuno, agendo per il proprio tornaconto, trova vantaggioso produrre le merci più a buon mercato, ricavandone extra profitti, attraverso l’impiego di meno lavoro. Nell’immediato ha un notevole vantaggio competitivo sui concorrenti. Però innesca un meccanismo di emulazione che per i capitalisti presi nel loro insieme si dimostra autodistruttivo.

Per loro sfortuna, dicevo, ma per la fortuna dell’umanità perché altrimenti non si realizzerebbe un progresso che offre la potenzialità di soddisfare bisogni sempre più pieni e di liberarci dal lavoro. Ovviamente questo può accadere se gli uomini sapranno utilizzare questa potenzialità sostituendo al dispotismo del capitale la libera associazione dei produttori. Diversamente, nonostante i robot, alcuni lavoratori saranno condannati ad ammazzarsi di lavoro mentre per i più ci sarà la disoccupazione e la miseria.

E Marx in un passo avveniristico dei Grundrisse, il notissimo frammento delle macchine, ci racconta proprio il possibile sbocco dell’automazione. Il capitale, mentre si può valorizzare soltanto succhiando lavoro vivo, tende a risparmiarlo, riducendolo al minimo. In questo modo entra in contraddizione con se stesso. Il lavoro, ridotto a un’entità irrilevante, deve cessare di essere la misura della ricchezza e subentra una società diversa, in cui gli uomini avranno a disposizione estesi tempi di vita liberandosi dal lavoro alienato. Pertanto la fine del lavoro non è ipotizzabile nell’ambito del capitalismo. Questa liberazione dal lavoro, aggiungo io, se non vogliamo che le contraddizioni si risolvano invece in una catastrofe per l’umanità, spetta a noi costruirla.

Note:

[1] G. Pala, Pierino e il lupo. Per una critica di Sraffa dopo Marx, Contraddizione, Roma, 1988, pp. 17-18.

[2] P. Sraffa, Produzione di merci a mezzo di merci. Premessa a una critica della teoria economica, Giulio Einaudi editore, Torino, 1969.

[3] Una ricca illustrazione di dati in questo senso è rinvenibile in G. Carchedi e M. Roberts (a cura di), World in Crisis. A Global Analysis of Marx’s Law of Profitability, Haymarket Books, Chicago, Illinois, 2018. Andrew Kliman da parte sua riferisce che negli Stati Uniti la domanda di investimenti è 72 volte maggiore rispetto al 1933, mentre il PIL è solo 18 volte maggiore e la domanda per il consumo personale è solo 15 volte maggiore, il che – ci permettiamo di supporre – suggerisce che la composizione organica del capitale sia quasi quintuplicata in meno di 80 anni (A. Kliman The Failure of Capitalist Production. Underlying Causes of the Great Recession. Pluto Press, Londra 2012).