Gli insegnamenti del pensiero e dell’azione di Lenin ancora guida del nostro tempo

di Giuseppe Amata

Sono passati cent’anni dalla morte di Lenin e non dobbiamo lasciare la discussione alla penna e alla parola di giornalisti borghesi che si improvvisano storici e per la facilità e velocità con cui diffondono il loro pensiero (avendo il monopolio dei mass media) appaiono agli occhi della pubblica opinione come i grandi dosatori della verità. Verità ovviamente che manipolano per farla corrispondere all’attuale geopolitica dell’Occidente collettivo. Valgono alcuni esempi come “Una giornata particolare” curate da Aldo Cazzullo sulla 7, gli accostamenti tra Stalin e Hitler (dalla delibera del parlamento europeo ai vari documentari televisivi che di tanto in tanto sono stati riproposti negli ultimi decenni), e andando più di sei anni indietro troviamo da tirare in ballo Ezio Mauro con le sue diverse puntate televisive sul “Centenario della Rivoluzione d’Ottobre” ed ora il suo commento su Lenin.

Noi comunisti, di rimando, pur relegati nel limbo dei nostri piccoli spazi on-line e delle modestissime tirature tipografiche (in seguito alla dissuasione collettiva verso la lettura della carta stampata preferendo quella digitalizzata, più manovrabile e di immediati commenti), dobbiamo profondere, al contrario, grande impegno, pazienza, costanza e coraggio (ci vuole anche quello!) per riuscire a veicolare le riflessioni che maturiamo nel corso della nostra esperienza di studio e di lotta.

Mi preme pertanto in questo scritto su Lenin mettere subito in evidenza come pensiero e azione siano inscindibili non soltanto nel giudizio storico del Personaggio (come del resto per disquisire su tutti gli altri personaggi della storia passata e presente) ma, soprattutto, per capire gli insegnamenti teorici e pratici che ci servono di guida nel nostro tempo, a cominciare dall’analisi dell’imperialismo nella fase del capitale transnazionale e dalle contraddizioni che esso scatena con le classi antagonistiche (classe operaia vecchia e nuova, contadini poveri e popoli oppressi, borghesie nazionali nei Paesi emergenti) e anche nel suo seno tra gruppi dominanti per la ripartizione delle aree di influenza come conseguenza dello sviluppo economico diseguale, per seguire con la forma del potere statuale che la classe rivoluzionaria instaura nel lungo periodo per rovesciare i vecchi rapporti economici e sociali nonché per la forma di governo necessaria nel breve periodo, a seconda delle diverse fasi del lungo processo e questo implica l’approfondimento teorico e pratico della fondamentale questione della transizione dal capitalismo al socialismo che il movimento comunista internazionale affronta da più di cento anni e che ha determinato divisioni e contrapposizioni fra forze all’interno dei diversi Partiti comunisti, in particolare di quelli al potere, ma non solo, e fra Partiti comunisti, indipendentemente se al potere o all’opposizione, nella valutazione delle diverse esperienze. Divisioni che hanno impedito dal 1956 (ma anche prima, seppur in forma non antagonistica) la ricostruzione dell’internazionalismo proletario. Ritengo, quindi, di sintetizzare i seguenti temi che scaturiscono dal pensiero e dall’azione di Lenin ai quali i comunisti devono rispondere e nello specifico noi, piccola pattuglia di compagni, impegnati nel Forum in Italia per elaborare un pensiero comunista che permetta la ricostruzione del Partito comunista: a) la forma partito; b) l’analisi sulla fase storica odierna, caratterizzata per un opposto dall’imperialismo come fase suprema dell’imperialismo e dall’altro opposto dalla fase iniziale della costruzione del socialismo quale nuova formazione sociale; c) dal significato della dittatura del proletariato e per dirla con Gramsci dell’egemonia del proletariato che racchiude sia gli strumenti coercitivi statali del potere della classe operaia e delle altre classi rivoluzionarie e sia, da non sottovalutare, gli strumenti ideologici e culturali per un nuovo pensiero dominante che abbia una nuova visione del mondo, senza il quale, come la storia del XX secolo ci insegna avvengono le involuzioni che portano alle restaurazioni, come avvenute nei Paesi ex sovietici e dell’Est europeo; d) l’approfondimento della Transizione in diverse fasi dal capitalismo al socialismo, tenendo conto delle specificità di ogni Paese; e) l’internazionalismo nel XXI secolo come visione condivisa di Partiti comunisti e popoli.

1. Quando discutiamo della forma partito, in particolare proponendoci in Italia la ricostruzione del Partito comunista, non possiamo non partire da quel capolavoro del febbraio del 1902, ossia il “Che fare?”, che risolve il dilemma se pensare alla costruzione di un’organizzazione d’avanguardia della classe operaia, cosciente e combattiva, per guidare il processo rivoluzionario della trasformazione sociale oppure sancire la spontaneità del movimento e seguire le sue fluttuazioni come sostenevano i socialdemocratici di quel tempo e come sostengono ancora certi gruppi politici che si richiamano al comunismo.

Il “Che fare?” risale al Febbraio 1902, quando il movimento rivoluzionario, che allora si chiamava socialdemocratico, muoveva i primi passi in direzione di un’organizzazione partitica e i temi in discussione erano se costituire il partito (oppure lasciare affermare la spontaneità del movimento) e che tipo di partito organizzare. Fino a quel momento quest’ultimo problema era stato solo accennato, sia nel pensiero di Marx e un poco più in quello di Engels (perché visse altri dodici anni dopo la morte di Marx) ed ebbe modo di confrontarsi con i nascenti partiti operai, indipendentemente dalla loro definizione di socialisti o socialdemocratici, ma non era risolto. “Noi esigiamo – scrisse Lenin – la modificazione della tattica prevalsa in questi ultimi anni, noi dichiariamo che ‘prima di unirsi e per unirsi, è necessario innanzi tutto definirsi risolutamente e nettamente'(annunzio della pubblicazione dell”Iskra’)”(1). Si rilevano, quindi, dallo scritto due affermazioni risolute: “Senza teoria rivoluzionaria non vi può essere movimento rivoluzionario”. (…) Il movimento socialdemocratico è, per sua essenza internazionale. Ciò non significa soltanto che dobbiamo combattere lo sciovinismo nazionale. Ciò significa pure che un movimento appena nato in un paese giovane può avere successo solo se applica l’esperienza degli altri paesi. Ma per applicarla non basta conoscerla o limitarsi a copiare le ultime risoluzioni. Bisogna saper apprezzare criticamente e verificare da sè stessi questa esperienza” (2). Certamente non possiamo fare a meno di questi insegnamenti e li ribadiamo con forza oggi verso i gruppi comunisti che si sono proclamati partito o verso chi tra le nostre fila si rifiuta di analizzare criticamente la storia del Partito comunista italiano per inneggiare ai tre maggiori leader del secondo dopoguerra, Togliatti, Longo e Berlinguer, senza analizzarne aspetti positivi e negativi.

Proseguo citando altri passaggi essenziali: “Solo un partito guidato da una teoria di avanguardia può adempiere la funzione di combattente di avanguardia. (…..) La storia di tutti i paesi attesta che la classe operaia, colle sue proprie forze solamente, è in grado di elaborare soltanto una coscienza trade-unionista. (….) Ogni restrizione dell’ ‘elemento cosciente’ (…) significa di per sé, lo si voglia o no, un rafforzamento dell’influenza dell’ideologia borghese sugli operai. (…..) La coscienza socialista contemporanea non può sorgere che sulla base di una profonda conoscenza scientifica” (3). La conoscenza scientifica implica oggi di scoprire l’articolazione delle classi antagonistiche all’imperialismo, a cominciare dall’analisi del proletariato nelle sue stratificazioni, mettendo in evidenza le sue azioni per sviluppare le forze produttive, creare una cultura socialista e favorire gli interessi fondamentali di sé stesso e delle larghe masse popolari. A seguire delle altre figure sociali, un tempo esponenti delle classi oppresse, come i contadini, di cui però una parte, diventata proprietaria di piccoli appezzamenti di terreno, inglobati dalla speculazione edilizia nella cinta urbana oppure nelle aree paesaggistiche divenute centro di turismo e di lottizzazione selvaggia per l’edilizia delle seconde o addirittura terze casa, non si riconosce più nelle istanze delle masse popolari ma in quella dei rentiers di piccole dimensioni ed è assuefatta agli interessi degli speculatori e dei violatori di ogni norma urbanistica. Le classi oppresse o subalterne non risultano quindi compatte. Gli intrecci perversi “leciti” ed illeciti, il lavoro nero, il peso crescente del lavoro improduttivo, hanno creato una fascia sociale più complessa dell’aristocrazia operaia, di cui parlava Lenin. Questa fascia si stacca socialmente ed ideologicamente dall’operaio massa e dagli altri lavoratori manuali (manovali nell’edilizia, braccianti, contadini poveri, residui del vecchio artigianato), e sente l'”effetto di dimostrazione” verso il modo di vita borghese.

Di conseguenza, in una società complessa come quella attuale, bisogna avere una profonda conoscenza scientifica di tutti i temi che assillano l’umanità. Quella profonda conoscenza scientifica che ha permesso a Lenin di cimentarsi, oltre che sulla costruzione del Partito, sui problemi della rivoluzione e dell’internazionalismo proletario, anche su argomenti filosofici ed epistemologici argomentando puntigliosamente in “Materialismo ed empiriocriticismo”, per sconfiggere errate teorie scientifiche come quelle di Ernest Mach e dei suoi predecessori.

Ne discende, con gli accorgimenti opportuni che dovranno essere tratti dall’esperienza storica e dalla realtà politica, economica e sociale attuale (primo fra tutti il fatto che l’attività del partito oggi si svolge sul piano legale, a differenza del passato), che occorre tenere a base gli insegnamenti di Lenin e svilupparli, costruendo un partito che sia, a differenza del partito di massa di Togliatti, Longo e Berlinguer, un partito di quadri preparati strettamente legati alle masse e di masse militanti (e non di masse semplicemente tesserate) e combattive che con le loro lotte e con l’iniziativa politica determinano le condizioni per la selezione dei quadri dirigenti. Quindi, come suggeriva Secchia, nel recondito confronto ideologico e politico con Togliatti, ci serve un partito di quadri e di massa. E’ per questa forma di partito che noi dobbiamo lavorare, prendendo gli aspetti migliori della vita del PCI e costruire un nuovo modello organizzativo. Un partito, quindi, a due livelli, intercomunicanti, laddove i quadri dirigono ciò che decidono insieme alla massa dei militanti, a quella massa che sviluppa un lavoro elementare, primordiale, di iniziativa, di propaganda e di agitazione, che vuole e deve essere partecipe e non rimanere passiva soltanto perchè non possiede tutti gli strumenti della conoscenza scientifica e della capacità organizzativa richiesta invece ai quadri dirigenti.

2. La fase storica odierna è ancora rappresentata, come ben analizzò Lenin, per un opposto dall’imperialismo come fase suprema del capitalismo e per l’altro opposto che si è avviata in diversi Paesi la costruzione di una nuova formazione sociale verso il socialismo.

“L’imperialismo è la vigilia della rivoluzione sociale del proletariato. A partire dal 1917 se ne è avuto la conferma in tutto il mondo”(4). Lenin arriva a questa conclusione attraverso un’analisi materialistica e dialettica del capitalismo, un’analisi che tiene conto della crescita quantitativa di questo sistema e del suo salto qualitativo, cioè il passaggio dalla libera concorrenza al monopolio, cioè un nuovo processo che supera quello precedente e pertanto con contraddizioni specifiche, diverse da quello precedente. Le leggi del capitalismo di monopolio sono diverse da quelle operanti nel capitalismo di libera concorrenza e Lenin spiega che i monopoli scaturiscono dalla concentrazione e centralizzazione in orizzontale e in verticale dei capitali industriali, agrari e commerciali in seguito alla concorrenza e come questa crescita si salda con lo sviluppo del capitale bancario e assicurativo, come aveva spiegato Hilferding, formando il capitale finanziario e questo sviluppo non è un fatto episodico soltanto di qualche paese capitalistico, ma è “in linea generale, legge universale e fondamentale dell’odierno stadio di sviluppo del capitalismo” (5). Dal saggio di Lenin, oltre all’analisi scientifica sul capitalismo penetrato nello stadio dell’imperialismo, si devono tenere a mente questioni di grande importanza che ancora oggi hanno grande valenza storica e pertanto devono essere approfondite: a) come bisogna considerare la critica a Kautsky sul ‘superimperialismo’ in seguito al formarsi nella seconda metà del XX secolo delle imprese multinazionali, qualcosa di più gigantesco del monopolio, e che hanno come nucleo economico di base il potere monopolistico all’interno di un paese imperialista che si espande e si autoalimenta inglobando il capitale proveniente da altri paesi capitalistici emergenti nello scacchiere mondiale e sotto l’influenza geopolitica di un polo imperialistico dominante (soprattutto statunitense ma anche dell’UE e del Giappone) e si sottrae al controllo dei governi nazionali dei Paesi piccoli e grandi; b) è valida meccanicamente l’affermazione che le contraddizioni interimperialistiche in seguito allo sviluppo economico diseguale portano alla guerra tra imperialismi per la ripartizione del mondo oppure questa scientifica affermazione di Lenin bisogna adattarla, considerando l’altro opposto della situazione internazionale? Premesso, come anzi detto, che le multinazionali consistono in aziende di enormi dimensioni, che assorbono o controllano i pacchetti azionari di altre aziende con attività produttive trasversali in tanti paesi, si deduce che esse sono il prodotto non solo dell’evoluzione del capitale finanziario, bensì del sistema monetario internazionale (basato principalmente sul dollaro e con margini limitati per l’euro e lo yen), nonché della rivoluzione informatica che ha permesso al denaro una completa astrazione e una maggiore velocità di circolazione da un capo all’altro del mondo. Quindi, da un verso non bisogna smarrire questo quadro di riferimento, dall’altro dobbiamo basarci sull’esperienza storica che ci insegna, altresì, che dopo Lenin, i Partiti comunisti alla guida delle nuove formazioni sociali in direzione del socialismo (con a capo rispettivamente Stalin, Mao Zedong, Ho Chimin, Kim il Sung, Fidel Castro, Kaysone Phomvihane), assieme a un largo schieramento di Paesi antimperialisti, hanno impedito all’imperialismo internazionale di muoversi liberamente come aveva fatto fino alla Rivoluzione d’Ottobre.

Nel tempo presente, al cospetto delle principali contraddizioni internazionali sfociate nella guerra per procura in Ucraina contro la Russia e nell’aggressione israeliana, o meglio dire genocidio, per distruggere il popolo palestinese, l’imperialismo tende ad agire come un blocco unico, pur in presenza di contrasti interni. Conseguentemente, saranno la lotta di classe e i rapporti di forza internazionali a determinare quale tendenza prevarrà, se quella alla coesione imperialistica o alla differenziazione per la più longeva sopravvivenza del sistema in un Paese rispetto agli altri.

La lotta che dalla fine del secondo dopoguerra si svolge tra imperialismo e antimperialismo, intrecciata a livello economico, militare, mediatico e anche diplomatico (con accordi momentanei o promesse di accordi magari in seguito non mantenute) ha determinato relazioni economiche e politiche consolidate (Bretton Woods, inconvertibilità del dollaro in oro, serpente monetario, CEE poi UE, G7) e relazioni politiche e militari sancite nella struttura della NATO e in altre organizzazioni belliche regionali preposte al mantenimento dell’egemonia americana (prima SEATO ora QUAD e AUKUS). In questo ambito di relazioni politiche e militari imperialistiche, l’economia rappresenta le gambe, la politica la testa, gli apparati militari le braccia. Quando traballano le gambe, la testa non funziona perfettamente e le braccia si muovono a tentoni.

3. Dittatura ed egemonia del proletariato. Lenin col saggio “Stato e Rivoluzione”, come è noto, arricchisce il pensiero teorico di Marx ed Engels. Si pensi a quanto scritto ne “L’Ideologia tedesca”, “Contro l’anarchismo”, “Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte”, “Critica del programma di Gotha”, “Sulle origini della famiglia, della proprietà e dello Stato” e che si può così riassumere: tutte le classi che sono state dominanti nel corso della storia hanno esercitato la loro dittatura, cioè hanno imposto a tutte le altre classi i rapporti di proprietà e la sovrastruttura a loro favorevoli, indipendentemente dalla forma con cui si è esercitato il potere (l’oligarchia, la democrazia, la tirannia, l’impero, la monarchia, il principato, il parlamentarismo, il presidenzialismo, ecc.). Lenin enuncia alcune frasi chiave, indelebili, che non devono mai essere dimenticate da ogni comunista, perchè profondamente scientifiche, in quanto riassumono il senso del processo storico: “Lo Stato è il prodotto e la manifestazione degli antagonismi inconciliabili delle classi. (…) I lavoratori hanno bisogno dello Stato solo per reprimere la resistenza degli sfruttatori. (…) Marxista è colui che estende il riconoscimento della lotta di classe sino al riconoscimento della dittatura del proletariato” (6).

Lo Stato dopo una rivoluzione vittoriosa non deve, pertanto, svolgere soltanto il ruolo coercitivo verso la precedente classe sfruttatrice ma deve adottare tutti gli strumenti sovrastrutturali che permettano di esercitare alla nuova classe, per dirla con Gramsci, la sua funzione egemonica. Ma, facendo un passo indietro e tornando a Engels, questi strumenti sono rappresentati dalle forme politiche della lotta di classe e dai suoi risultati, cioè “le Costituzioni scritte, le forme giuridiche e pure il riflesso di tutte le lotte reali nel cervello dei partecipanti” (7). Quindi, oltre al pensiero di Marx ed Engels, la lezione di Lenin sullo Stato era stata ben compresa da Gramsci sin da quando dirigeva l’Ordine nuovo e preparava la formazione dei Consigli operai, avendo osservato da un lato il successo della rivoluzione in Russia e dall’altro il fallimento dell’insurrezione spartachista in Germania e della repubblica ungherese di Béla Kun. In seguito, durante gli anni del carcere, Gramsci ebbe modo di riflettere sull’esperienza sovietica e sull’andamento del movimento comunista internazionale, anche se era privo di molta documentazione. Le sue riflessioni le scrisse, come è noto, su quaderni a righe del tipo per scolari della quinta elementare e per imbrogliare la censura fascista utilizzò delle metafore e giri di parole. Nelle “Note sul Machiavelli sulla politica e sullo Stato moderno”, si legge la seguente affermazione foriera di grandi insegnamenti futuri: “L’esercizio normale dell’egemonia nel terreno divenuto classico del regime parlamentare è caratterizzato dalla combinazione della forza e del consenso che si equilibrano variamente, senza che la forza soverchi di troppo il consenso, anzi cercando di ottenere che la forza appaia appoggiata sul consenso della maggioranza, espresso dai così detti organi dell’opinione pubblica – giornali e associazioni – i quali, perciò, in certe situazioni, vengono moltiplicati artificiosamente” (8). L’egemonia gramsciana, a mio modesto avviso, non è un concetto ma una categoria scientifica. Essa rappresenta l’approfondimento della categoria marxiana della dittatura del proletariato, e quindi non è in contraddizione con essa. Gramsci tiene in grande considerazione l’importanza della sovrastruttura e si convince che non basta il potere politico ed economico al proletariato per esercitare la sua dittatura di classe. Il proletariato deve realizzare una completa egemonia anche sul piano ideologico e culturale per scardinare tutto il vecchio modo di pensare, quale retaggio che si tramanda nel tempo con le abitudini e la consuetudine della vecchia società. Per esercitare l’egemonia, la classe operaia deve innanzitutto risolvere i problemi nazionali tramandati dal potere borghese e rimasti irrisolti e deve permettere, proponendo un nuovo modo di pensare, che la lotta ideologica affermi una nuova concezione del mondo e sviluppi la creazione artistica. Su questa categoria gramsciana, però, all’interno del PCI, a partire dagli anni Sessanta si è sviluppato un filone revisionistico (dapprima a livello culturale, in seguito ideologico), accettato dalla stragrande maggioranza dei dirigenti di quel partito, filone che metteva in contrapposizione dittatura del proletariato con egemonia. Quello che è successo con lo scioglimento del PCI in Italia, e con la controrivoluzione che ha determinato il rovesciamento dei regimi nell’Est europeo e il dissolvimento dell’URSS, non è stato che l’atto conclusivo del processo storico innescato dal moderno revisionismo.

4. La transizione tra capitalismo e socialismo interessa un lungo periodo storico. Se oggi facciamo questa affermazione con molta disinvoltura è perché è stato il processo storico a smontare tutte le illusioni di dirigenti e militanti comunisti sulla rapidità della trasformazione in direzione di una formazione sociale socialista. Di certo, non lo si poteva pensare facilmente dopo il 1920, cioè quando Lenin si imbatte in problemi concreti, la cui soluzione richiede più che pragmatismo una profonda visione teorica, in quanto le singole problematiche nel loro particolare contengono una contraddizione universale: Come costruire un nuovo modo di produzione? Su quali categorie economiche e sociali bisogna fondare lo sviluppo? Quanto sarebbe durata la fase di transizione dal modo di produzione capitalistico ad un nuovo modo di produzione socialistico?

La rivoluzione bolscevica si era sviluppata vittoriosa su tre grandi parole d’ordine: a) no alla guerra imperialistica e pace subito; b) espropriazione delle banche, delle industrie e dei grandi possessi fondiari; c) controllo operaio della produzione e terra ai contadini. Queste direttive dovevano essere attuate immediatamente, pena la perdita di fiducia delle masse ed il crollo del processo rivoluzionario. Ma l’attuazione delle direttive doveva anche permettere lo sviluppo della produzione per garantire il miglioramento del tenore di vita delle masse, provate dalla guerra imperialistica e dai tentativi controrivoluzionari di restaurazione del vecchio ordine borghese operato dalle Armate Bianche appoggiate dall’imperialismo anglo-francese e turco. Nazionalizzare le Banche e la grande industria era stato facile, aumentare la produzione era più difficile perchè mancavano i capitali e le forze manageriali per lo più appoggiavano il vecchio regime. Ed una classe dirigente di rossi ed esperti (per usare una convincente locuzione maoista) non si poteva formare in poco tempo. La divisione delle terre ai contadini, subito attuata, corrispondeva al mantenimento degli impegni presi con le masse rurali, ma non risolveva il problema degli approvvigionamenti urbani ed il mantenimento degli operai e dei soldati dell’Armata Rossa. La guerra controrivoluzionaria interessava vasti territori e l’Armata Rossa fatta di giovani operai e contadini che abbandonavano il lavoro per difendere la rivoluzione, richiedeva soluzioni immediate anche per l’approvvigionamento, con la requisizione dei prodotti rurali, che i contadini agiati nascondevano. Il comunismo di guerra corrispondeva a questa situazione, permetteva il procacciamento delle fonti elementari per un minimo livello di vita per non morire di fame e per vincere la controrivoluzione, come fu poi vinta.

E dopo come costruire? Come fondare l’accumulazione socialista? Si possono negare immediatamente le leggi dell’accumulazione capitalistica, le categorie del capitalismo, come il profitto ed il mercato? Marx aveva scritto che “una formazione sociale non perisce finché non siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso, nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza” (9). La società sovietica che si affacciava agli anni ’20 aveva sviluppato tutte le forze produttive insite nel modo di produzione capitalistico? Ma la Russia non era un paese capitalistico meno avanzato rispetto ad altri? Come un paese capitalistico meno avanzato può sviluppare una rivoluzione socialista?

Ecco i grandi quesiti teorici, ai quali un genio come Lenin doveva dare risposte!

Lenin per scatenare la rivoluzione non pensava certamente allo sviluppo ritardato delle forze produttive in Russia rispetto agli altri Paesi capitalistici, attendendo prima la rivoluzione in Germania, in Inghilterra od in Francia. Aveva capito che la Russia rappresentava la catena più debole della maglia imperialista ed in quel punto la catena si sarebbe spezzata. E così è stato! Ma costruire un nuovo modo di produzione era altra cosa ed allora bisognava fare i conti con le basi materiali della società. In altri termini, in Russia ancora si dovevano sviluppare alcune leggi della accumulazione capitalistica, ma queste leggi dovevano essere controllate dal potere operaio per bloccarle al momento opportuno e trasformare il modo di produzione. La funzione dello Stato, cioè senza mezzi termini od eufemismi “la dittatura del proletariato”, doveva garantire il successo di questo processo. Era utopia oppure Lenin faceva un affidamento superiore alla consistenza delle forze in campo e dimenticava che la struttura economica tende a riprodurre una sovrastruttura corrispondente, indipendentemente dalla volontà della “dittatura del proletariato”?

Questo è un problema storico ancora aperto, ma io penso che Lenin avesse in mente tutti i rischi del processo che poi va sotto il nome di NEP: “Legarsi alle masse contadine, al semplice contadino lavoratore ed incominciare ad avanzare molto ma molto più lentamente di quanto avevamo sognato, però in compenso, in modo tale che con noi avanzi tutta la massa. Allora a tempo opportuno il moto si accelererà come oggi non possiamo neanche sognare. Questo è a mio parere, il primo insegnamento politico fondamentale della Nuova Politica Economica” (10).

In Urss in pochi anni si consolidò un capitalismo di Stato, il quale doveva sviluppare le forze produttive e permettere successivamente il passaggio ad un nuovo modo di produzione, della cui bontà con “l’ottimismo rivoluzionario” si era certi, senza però poterlo inquadrare teoricamente, perché non si poteva sottoporre alla verifica del “pessimismo dell’intelligenza” una cosa che ancora non evidenziava le basi materiali appropriate per la trasformazione. Ed infatti per Lenin il capitalismo di Stato è una categoria storica di transizione e non ha vergogna di usare questo termine, a differenza di altri bolscevichi che lo usavano con disprezzo; è una categoria che deve essere superata al momento opportuno e come tale bisogna approntare gli strumenti teorici e pratici.

Lo stesso problema a maggior ragione si è posto, come è noto in Cina, e la Cina essendo un Paese semicoloniale e semifeudale, aveva bisogno di un lungo periodo di transizione, il primo del quale era rappresentato, come scrisse Mao in un suo rapporto approvato da tutto il Partito agli inizi degli anni Quaranta dalla instaurazione di un regime di “Nuova Democrazia”. Dopo la proclamazione della Repubblica popolare cinese il 1° ottobre del 1949 si attua quel programma e a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta si cominciano a gettare le basi della trasformazione socialista, accentuatasi negli anni Sessanta. Ma, come sappiamo, in quegli anni Cinquanta prende corpo il revisionismo krusceviano che divide il movimento operaio internazionale e porta alla rottura del Trattato di Amicizia sovietico-cinese firmato a Mosca da Stalin e Mao nel 1950.

Come proseguire fu la domanda che si posero i dirigenti del PCC? La risposta prevalente fu nell’accelerazione della trasformazione socialista, la quale nonostante diversi errori, poi corretti come si rileva dalla Storia del Partito comunista cinese (11) andò avanti fino alla rottura dell’accerchiamento imposto dal condominio americano-sovietico. Nelle nuove condizioni si è potuta realizzare la politica di Riforma e apertura verso l’esterno approvata nel 1978 dal CC del PCC sulla base dell’esperienza passata e, secondo quanto è scritto nel volume citato, con successi ottenuti quando si è tenuto conto dello sviluppo delle leggi oggettive della trasformazione e di rimando con alcuni errori quando si è trascurato il tempo di sviluppo di tali leggi e si è proceduto con atti di volontà. Parafrasando Gramsci noi potremmo dire con l’ottimismo dell’intelligenza e della volontà.

Detta politica di Riforma (come la NEP di Lenin) è stata una grande intuizione di Deng Xiaoping, come ebbe a dire alla fine degli anni Novanta Domenico Losurdo, smontando le preoccupazioni o le perplessità di molti compagni. Io mi permetto di aggiungere che se ciò e vero, la Riforma è stata possibile in seguito al capolavoro diplomatico di Mao e Ciu Enlai che ricevettero Nixon in Cina e aprirono il dialogo cino-americano, in quanto ritenevano nei confronti della Cina molta aggressiva la politica di Breznev, dopo l’invasione della Cecoslovacchia (tragico errore che si ripeterà in Afghanistan!), con l’eufemismo di difendere la “comunità socialista” dall’imperialismo atlantico, per cui ogni nazione dell’est europeo di fatto era a sovranità limitata, come i Paesi europei aderenti alla NATO lo sono tuttora. E’ vero indubbiamente che in Cecoslovacchia vi erano delle forze politiche e sociali, alcune ben mascherate all’interno del Partito comunista cecoslovacco, altre che agivano scopertamente, che sostenevano un cambiamento di regime, ma a differenza dell’’Ungheria del 1956 queste forze non erano armate, pur ricevendo sostegno economico dall’esterno proprio in seguito alla politica del moderno revisionismo che aveva aperto dei varchi in quei Paesi. La contraddizione era diventata antagonistica certamente, ma doveva essere risolta dalla dialettica sociale interna non dall’intervento militare esterno. Cosi pure in Afghanistan, appoggiare con l’intervento militare dell’Armata Rossa una fazione del Partito al potere a danno di un’altra ha significato la violazione del principio della sovranità del Paese ed anche impelagarsi in un conflitto il cui esito finale è stato fatale per l’URSS.

La politica di Riforma economica e di apertura verso l’esterno è stata intrapresa negli anni Ottanta anche dal Partito comunista vietnamita; ovviamente, anche in quel caso, dopo la vittoriosa guerra contro l’aggressione americana e il successivo ristabilimento delle relazioni diplomatiche. Agli inizi del XXI secolo è stata introdotta prima limitatamente e da qualche anno in forma sistemica anche a Cuba e recentemente nella Repubblica popolare democratica della Corea sono state apportate delle modifiche, seppur in forma parziale, nel sistema economico pianificato centralizzato.

Dall’esperienza storica della trasformazione nei Paesi che hanno avviato un processo rivoluzionario si deduce, pertanto, una conclusione teorica universale: la fase di transizione dal capitalismo al socialismo racchiude un lungo periodo storico che dai fondatori del comunismo non era stato pensato così.

E’ stata la realtà, interpretata secondo il metodo marxista basato sulla concezione materialistica della storia, ad imporla. D’altra parte, tutte le fasi di passaggio nella storia da una formazione sociale ad un’altra hanno impiegato periodi molto lunghi che, ovviamente, nel divenire si sono accorciati in seguito all’evoluzione delle tecniche, dei metodi di produzione, dei sommovimenti sociali e soprattutto dell’intelligenza umana, principale forza produttiva, che ha determinato le scoperte scientifiche. Infatti, dalla formazione comunitaria primitiva alla società schiavistica sono passati millenni (detto per inciso i compagni Burgio, Leoni e Sidoli sostengono in alcuni scritti riportati da marx21.it che questo passaggio sia stato un’involuzione, criticando di fatto quanto aveva sostenuto Engels in “Sulle origini della famiglia, della proprietà e dello Stato”). Dalla società schiavistica a quella feudale diversi secoli e da quella feudale al capitalismo alcuni secoli. E tra una formazione sociale e l’altra, parafrasando il linguaggio darwiniano sull’evoluzione, vi sono diversi anelli di congiunzione. Ad esempio, a mio modesto avviso, in Occidente tra il crollo dell’impero romano e la diffusione generalizzato del modo di produzione feudale, gli anelli di congiunzione sono rappresentati per un verso dalle abbazie e per l’altro dalla curtis (che soppianta il latifondo romano), considerate come due unità di produzione; mentre tra il feudalesimo e il capitalismo gli anelli sono rappresentati prima dalla bottega artigianale e poi dalla manifattura, per come dimostrato da Marx.

Il socialismo non si poteva, secondo la concezione materialistica della storia realizzare in quasi tre decenni, almeno secondo quanto era stato scritto sia nella Costituzione sovietica del 1936 che in quella cinese del 1975.

Se partiamo dalla considerazione che il processo verso il socialismo richiede una lunga fase di transizione anche nei Paesi a capitalismo avanzato, fase ovviamente più corta di quella intrapresa dai Paesi semicoloniali e semicapitalistici ma molto più lunga di quella che è stata la NEP. Sui tempi della NEP non è possibile dare un giudizio definitivo sia da parte dei comunisti militanti, sia degli storici, in quanto la scelta di abbandonare la NEP non dipendeva solo da una astratta volontà della maggioranza del Comitato Centrale del Partito bolscevico, ma dalle condizioni oggettive di quel tempo: sabotaggio dei kulaki, accerchiamento della Unione Sovietica da parte delle potenze imperialistiche, necessità di avviare una rapida industrializzazione per permettere al Paese di difendersi da una eventuale guerra aggressiva. Stalin disse all’inizio del primo Piano quinquennale nel 1928 che avrebbero avuto circa dieci anni di tempo per rafforzare l’economia e l’Armata Rossa. Si è sbagliato di appena tre anni, in quanto le armate naziste invasero l’URSS il 22 giugno del 1941.

Se torniamo ai nostri problemi italiani, dobbiamo mettere in evidenza che, la ricostruzione del Partito comunista non si può immaginare senza una strategia politica di fase che dobbiamo tracciare, tenendo ovviamente conto delle condizioni specifiche dell’Italia e dell’esperienza realizzata fino allo smantellamento del capitale pubblico (Banca d’Italia, IRI, ENI, ENEL ed altre aziende di minori dimensioni).

5. Per quanto concerne l’internazionalismo proletario nella nostra epoca, sia detto in forma esplicita, non può essere rappresentato da una visione dogmatica o unilaterale ed amministrata da un centro direzionale, seppur con buone intenzioni e propositi ma anche con errori (come fu la Terza Internazionale), bensì dal confronto delle esperienze e dalla discussione sulle proposte per realizzare obiettivi comuni da parte delle classi rivoluzionarie che guidano i popoli verso l’emancipazione sociale di tutta l’umanità, principio fondamentale del comunismo. Il che significa, oltre all’indipendenza delle scelte che ogni classe e forza rivoluzionaria compie all’interno del proprio paese, anche la realizzazione di obiettivi comuni indispensabili nel procedere, quali l’imposizione della pace e la lotta all’egemonia imperialistica, l’eguaglianza tra Paesi piccoli e grandi nella condivisione delle scelte sui temi dell’inquinamento, dei mutamenti climatici, sul disarmo (a cominciare da quello nucleare) e sulle relazioni economiche fondate sul reciproco vantaggio.

Note Bibliografiche

1) LENIN, Opere scelte, edizioni in lingue estere, Mosca, 1947, p.155.

2) IBIDEM, pp. 156, 157.

3) IBIDEM, pp. 157, 160, 166, 167, 168.

4) IBIDEM, p. 620.

5) IBIDEM, p. 626.

6) IBIDEM, pp. 627, 629, 630.

7) Lettera di Engels a Bloch del 21-22 settembre 1890 (Cfr. K. MARX – f. ENGELS, Correspondance, Editions du Progrès, Moscou 1971, p. 452).

8) A. GRAMSCI, Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno, Einaudi, Torino, 1955, p. 103.

9) K. MARX, Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma, 1957, p. 11.

10) LENIN, Discorso al XI Congresso del PC(b) dell’Urss, in “Bucharin-Preobrazenskij”, L’accumulazione socialista, Editori Riuniti, Roma, 1973, p. 146.

11) CENTO ANNI DI STORIA DEL PARTITO COMUNISTA CINESE, edizioni Marx21, Bari 2023.

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