L’ultimo libro di Carlo Formenti, Il socialismo è morto, viva il socialismo!, rappresenta all’avviso di chi scrive una “mappa” fondamentale per comprendere quello che sta succedendo: in Italia, in Europa e più in generale in Occidente (e non solo, visto che uno dei meriti dell’autore è proprio quello di adottare una prospettiva globale). Partirei da una delle frasi che apre il testo. Formenti scrive:
«[È] mia convinzione che il socialismo sia realmente morto nelle forme storiche che ha conosciuto dalle origini ottocentesche all’esaurirsi delle spinte egualitarie novecentesche, prolungatesi per pochi decenni dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Non si è trattato di un evento (la caduta del Muro e il crollo dell’URSS hanno svolto la funzione di mera registrazione notarile del decesso), bensì di un’agonia durata dagli anni Settanta alla grande crisi che ha inaugurato il nuovo millennio. Oggi l’agonia è terminata ed è iniziata l’attraversata del deserto».
Ciò che intende Formenti è che il socialismo in Occidente non è solo morto nella prassi – come può apparire ovvio – ma è morto nella prassi perché è morto innanzitutto nella teoria. Nel senso che il pensiero socialista è stato corrotto a tal punto dalla sinistra nel corso degli ultimi quarant’anni – tanto dalla sinistra “moderata” quanto da quella “radicale/antagonista”, tanto dalla sinistra della “terza via” clintoniana/blairiana quanto dalla sinistra delle varie degenerazioni post-Settanta: post-operaista, orizzontalista, post-femminista, ecc. – da essere ormai inservibile per qualunque prospettiva di emancipazione progressiva, essendo diventato, più o meno consapevolmente, subalterno all’ideologia neoliberale – dunque all’ideologia del capitale, cioè del suo presunto nemico – con cui ormai condivide quasi in toto l’orizzonte ideologico, caratterizzato da un approccio teleologico alla globalizzazione e ai processi di mercato, intesi come naturali ed inevitabili, dal globalismo/sovranazionalismo (l’abbattimento/frantumazione delle frontiere e delle sovranità statuali inteso come destino non solo inevitabile ma anzi auspicabile), da cui ovviamente discende l’europeismo di buona parte della sinistra, dall’antistatalismo, dalla fede nella natura liberatrice e intrinsecamente progressista della tecnologia, ecc. Peggio ancora: è proprio la sinistra, in quanto guardiana del “politicamente corretto”, a rendere il sistema di dominazione capitalistico impermeabile a qualunque critica. Nota Formenti:
«[I]l potere performativo del linguaggio, se non crea né modifica le relazioni sociali, certamente ne influenza la percezione, ma soprattutto rende difficile la contestazione delle idee politicamente corrette, mettendo in atto un dispositivo che alcuni hanno definito spirale del silenzio: si esita a criticare i “regimi di verità” egemoni per paura di essere sanzionati socialmente e di essere categorizzati come fascisti, razzisti, sessisti, nazionalisti, populisti, conservatori ecc. … Chi si oppone al liberalismo, nella misura in cui tale ideologia si proclama contraria a qualsiasi limitazione della libertà individuale da parte di comunità sociali e istituzioni politiche, è per definizione reazionario. Lo stesso capita a chi rivendica la sovranità nazionale del proprio paese: le élite politiche ed economiche che governano la società capitalista globalizzata rivendicano la superiorità delle idee cosmopolite e multiculturaliste nei confronti del rozzo localismo delle classi subalterne. I proletari che votano per Trump, per la Brexit, per la Lega e il M5S, e in generale per le forze politiche “sovraniste”, non sono lavoratori ma feccia reazionaria, “sdentati” (Hollande), “popolo demente” (Bifo). Vengono presentati come classi pericolose pronte a sostenere forze politiche neofasciste. Attraverso la neolingua politicamente corretta imposta dal liberalismo cosmopolita e autoritario si intravede l’immagine d’un futuro “liberato” dalle identità nazionali come da quelle di classe, genere ed etnia, un futuro postnazionale e postdemocratico che Antonio Negri e Michael Hardt rappresentano ed esaltano in Impero».
«La verità – scrive Formenti – è che, mentre il capitalismo di ieri si serviva di forze politiche conservatrici – espressione di interessi e culture di classe residuali – per reprimere le lotte del proletariato, quello odierno affida la propria rappresentanza soprattutto a forze politiche progressiste».
Al punto che ormai possiamo dire che il pensiero socialista contemporaneo – o meglio, il pensiero socialista occidentale, come sottolinea Formenti, riprendendo una felice formula di Domenico Losurdo, che distingue appunto il marxismo occidentale (che si è andato progressivamente snaturando rispetto alle origini) dal marxismo orientale –, o ciò che ne rimane, in tutte le sue varianti, è diventato a tutti gli effetti un’ideologia reazionaria, cioè contraria agli interessi della stragrande maggioranza dei lavoratori, degli sfruttati, dei subalterni, tanto in Occidente quanto nei paesi non occidentali (basti pensare al sostegno delle sinistre alle varie “guerre umanitarie” dell’ultimo decennio).
Come altro dovremmo interpretare – giusto per fare l’esempio più recente – l’appello congiunto a favore dell’Unione europea sottoscritto dalle tre più grandi sigle sindacali del paese insieme a Confidustria. Prendiamoci un attimo per riflettere sul fatto: i sindacati che firmano insieme al loro nemico di classe un appello a favore del più diabolico dispositivo di sfruttamento e di disciplinamento dei lavoratori che sia visto in Occidente dal dopoguerra da oggi, cioè l’Unione europea e più specificatamente la moneta unica. È chiaro che siamo di fronte a un’aberrazione tale da permetterci di poter parlare di una vera e propria mutazione antropologica, genetica della sinistra. Qui non si tratta di mettere in discussione la buona fede di questo o di quel personaggio, ma di comprendere che in virtù proprio della succitata quarantennale degenerazione del pensiero socialista, questi si ritrovano ormai privi degli strumenti necessari per comprendere «[le] dinamiche della crisi e [il] processo di mutazione sociale, economica, politica e culturale che la crisi ha messo in atto». Sono come dei ciechi che cercano di orientarsi a tastoni, ripetendo qualche vago slogan trito e ritrito dei tempi andati: la patrimoniale, gli investimenti pubblici, ecc. A prescindere dalla buona fede dei singoli personaggi, non si può non concludere che quelle organizzazioni e quei partiti che discendono dalla tradizione operaia sono ormai diventati a tutti gli effetti dei nemici di classe, dei nemici dei lavoratori e delle classi popolari. E non è un caso che siano percepiti come tali dalla stragrande maggioranza della popolazione.
Questa è la situazione in cui ci troviamo: gli eredi formali della tradizione socialista hanno completamente introiettato l’ideologia del nemico. Dunque ha ragione Formenti a dire che il socialismo – come prassi e come teoria – in Occidente (e soprattutto in Europa) è morto. Bisogno dunque partire dalla premessa, dice Formenti, «che, con la sconfitta subita da parte della controrivoluzione liberal-liberista iniziata alla fine degli anni Settanta, il movimento operaio non ha perso solo una battaglia, bensì la guerra». E quel che è peggio è che proprio «le sinistre hanno svolto il ruolo di becchini dello sconfitto».
Questo non vuol dire che il socialismo non sia più attuale o praticabile – al contrario, è più necessario che mai, come sottolinea Formenti – ma vuol dire che affinché il socialismo possa rinascere il pensiero socialista va rifondato: un pensiero socialista che sia adeguato, che sia all’altezza di questa fase storica – un socialismo del XXI secolo, come scrive Formenti – ma non un socialismo astratto, buono per ogni luogo e ogni epoca, quanto piuttosto un socialismo che possa andare bene per noi che viviamo in Occidente, in Europa, in Italia, alla vigilia del terzo decennio del XXI secolo, nelle specifiche condizioni economiche, sociali, politiche, ecc. in cui ci troviamo. Si tratta dunque di un pensiero quello di Formenti che, come direbbe Chantal Mouffe, si situa «nella congiuntura invece di ragionare sulla congiuntura», sebbene Formenti faccia anche quello.
Come scrive l’autore: «Se la crisi del vecchio perdura, il nuovo deve essere fatto nascere, e il nuovo è il socialismo: non quello d’antan, ormai morto e sepolto, bensì un socialismo del secolo XXI, da costruire a partire dalle concrete condizioni storiche: dalle trasformazioni subite dal modo di produrre, dall’autofagia del capitalismo globalizzato che divora se stesso, dalla ri-nazionalizzazione della politica, dal ritorno dello Stato, dalle trasformazioni della composizione sociale e dalle nuove forme della lotta di classe».
Questo non vuol dire che Formenti non dedichi spazio nel suo libro ad altri contesti geografici – anzi, vi è un’ottima analisi dedicata ai populismi latinoamericani, che Formenti conosce molto bene – ma il suo focus è innanzitutto sulla nostra di situazione, come è giusto che sia. In un certo senso, potremmo dire che Formenti si pone nientedimeno che il problema annoso, attualizzandolo, della rivoluzione in Occidente: rivoluzione – come vedremo – non intesa non come rottura, come passaggio immediato da un sistema all’altro, ma come transizione, come trasformazione graduale ma radicale della società in senso socialista. In questo senso, il libro di Formenti non è solo un libro di teoria – sebbene sia un ottimo libro di teoria: anzi, direi che rappresenta la migliore panoramica sul pensiero socialista contemporaneo, nelle sue declinazioni migliori e peggiori, attualmente disponibile sul mercato – ma è anche e soprattutto uno strumento di lotta, cioè il tentativo di fornire un impianto teorico che possa fungere da base per una nuova politica e una nuova stagione socialista, nella consapevolezza che questo libro non ha la pretesa di essere un punto d’arrivo ma è un’elaborazione in fieri, da cambiare e da aggiustare a seconda dell’evoluzione dello scenario.
Quali sono – o dovrebbero essere – dunque i punti cardine di un neosocialismo del XXI secolo, secondo Formenti? Innanzitutto bisogna fare tabula rasa delle varie degenerazioni che ha subìto il pensiero socialista negli ultimi quarant’anni. Questo però non vuol dire tornare sic et simpliciter al pensiero marxista e socialista delle origini. Come si diceva, è necessario attualizzare questo pensiero e anche affrontarlo con spirito critico, riconoscendone gli errori. In questo senso, ha ragione Formenti a dire che alcune delle degenerazioni dei decenni passati hanno estremizzato e iperbolizzato alcuni elementi che erano già presenti nel pensiero di Marx: un certo eurocentrismo, la sua posizione ambigua nei confronti del ruolo dello Stato, l’idea che la diffusione del capitalismo porti in sé i germi della rivoluzione, un certo atteggiamento positivista e deterministico nei confronti della storia, l’esaltazione del progresso tecnologico, l’idea che vi sia un soggetto privilegiato portatore di una genuina coscienza rivoluzionaria, ecc. Cioè tutti quegli elementi a cui la sinistra contemporanea continua a rifarsi; come scrive lapidario Formenti, «mentre si lascia marcire il cadavere del socialismo, si venerano le sue inutili reliquie». Bisogna dunque anche riconoscere gli errori – nel senso che sono stati palesemente smentiti dalla storia – di quell’impianto teorico originale.
Nel contesto attuale, dunque, per Formenti, gli elementi fondanti di un nuovo pensiero socialista sono i seguenti. Innanzitutto l’idea, già affrontata da Formenti nei suoi testi precedenti e mutuata (con qualche distinguo) da Laclau e dallo stesso Gramsci, secondo cui oggi stiamo attraverso a tutti gli effetti un “momento populista” – caratterizzato da una profonda crisi di autorità e di delegittimazione dei partiti e delle istituzioni tradizionali – e che dunque «il populismo è la forma che la lotta di classe tende ad assumere in una fase storica in cui le tradizionali identità sociali hanno perso consistenza e autoconsapevolezza». Questo significa che oggi in Occidente non esiste un soggetto o una classe specifica su cui poter fare affidamento per portare avanti una battaglia socialista ma che qualunque progetto trasformativo richiede la capacità di creare «un movimento politico capace di aggregare un blocco sociale che accorpi diverse rivendicazioni (anche se parzialmente in competizione reciproca), che risultino incompatibili con il sistema capitalista nelle sue forme attuali», cioè di «costruire un popolo … un’ampia alleanza di soggetti sociali che gli consenta di conquistare il governo e lanciare un programma di riforme radicali». Questa alleanza deve ovviamente includere i lavoratori ma anche le classi medie impoverite e/o minacciate dalla globalizzazione (per esempio, i piccoli-medi imprenditori); deve inoltre saper fare leva su tutte quelle faglie e quei conflitti che sono esterni al mondo della produzione: crisi ecologiche, crisi della riproduzione, conflitti generazionali, di genere, etnici, religiosi ecc.
Un “popolo”, dunque, inteso non come «un’entità “naturale”, preesistente all’insorgenza del loro discorso politico (a differenza del popolo evocato dal nazifascismo, che rinvia a radici comuni di tipo etnico, razziale, antropologico, storico-culturale ecc.)», ma come costruzione politica. Come si diceva, ampio spazio viene dedicato al pensiero di Ernesto Laclau e Antonio Gramsci, «due autori che aiutano a capire come popolo, nazione e stato non siano i prodotti “naturali” di presunte leggi storiche, ma le tappe di un processo di costruzione politica che può generare esiti diversi a seconda di chi esercita l’egemonia sul processo. Sta a noi concepire il popolo-nazione come un soggetto in marcia verso la democrazia, e lo stato come il prodotto del farsi Stato delle classi subalterne». Scrive Formenti:
«Il “momento populista” sorge quando una determinata formazione egemonica (come il sistema liberaldemocratico) non è più in grado di far fronte alla proliferazione di domande sociali che restano insoddisfatte. L’accumularsi di istanze cui il sistema non riesce più a rispondere in modo differenziale fa sì che, fra tutte queste richieste inascoltate, si stabilisca una relazione di equivalenza trasversale che tende ad accomunarle. È appunto questa relazione a generare le condizioni per l’emergenza di un popolo, che altro non è se non l’insieme dei soggetti associati da una relazione antagonista nei confronti dell’oligarchia che concentra nelle proprie mani il potere economico, politico e mediatico. … Il “colore” di tale progetto dipende da quale delle domande insoddisfatte riesce a imporsi come egemone, cioè ad assumere il ruolo di incarnare/rappresentare la totalità delle altre. Muta, per esempio, in relazione al prevalere della domanda di sicurezza (per esempio protezione dai flussi migratori) o della domanda di uguaglianza e giustizia sociali ed economiche (protezione dagli effetti del processo di globalizzazione). Il peso relativo che il programma di una formazione populista attribuisce a tali domande è uno dei fattori che consente di distinguere fra populismi di destra e di sinistra».
In breve, «costruire l’unità popolare significa organizzare il potere della plebe nel momento storico in cui i vecchi strumenti del movimento operaio non funzionano più». Questo il primo punto. Il secondo punto è quello secondo cui «lo strumento della trasformazione, e il campo di battaglia su cui si giocherà l’egemonia, non può che essere lo Stato-nazione». Bisogno cioè liberarsi definitivamente del mito del cosmopolitismo, per cui il cambiamento o è regionale/globale o non è, e che in virtù della sovranazionalizzazione dei processi politici ed economici, il terreno in cui condurre la lotta debba necessariamente essere quello sovranazionale, arrivando addirittura a teorizzare che la dimensione sovranazionale rappresenti una sorta di internazionalismo in nuce, che – tanto per fare un esempio – basti cambiare l’indirizzo politico dell’Unione europea per trasformarla da strumento del capitale in strumento di emancipazione dei lavoratori. Al contrario, bisogna prendere atto del fatto, scrive Formenti, che oggi «[q]ualsiasi progetto di democratizzazione implica oggi ricostruire istituzioni capaci di sottomettere i mercati al controllo politico e sociale, un’impresa possibile solo in un contesto di riconquistata sovranità nazionale, a partire dalla sovranità monetaria».
Con una precisazione: «[L]o Stato-nazione che ha senso difendere, scrive, non è tanto il vecchio Stato nato dalle rivoluzioni borghesi, quanto quel progetto dei cittadini di un territorio che cercano di ottenere il controllo sulle proprie condizioni di esistenza e riproduzione. Il cittadino del mondo di cui parla l’utopia cosmopolita è un’astrazione priva di consistenza reale: cittadini si è nella misura in cui si condivide un progetto comune in un determinato territorio, a prescindere dal fatto che vi si parli la stessa lingua o meno, cittadini si è se si appartiene a una comunità solidale che stabilisce come distribuire la ricchezza prodotta in quel territorio. Contro questa concezione è in atto l’offensiva delle élite globali che considerano le nazioni come meri contenitori di risorse (materie prime, capitali, forza lavoro, terreni ecc.) trovando sponda nelle caste politiche locali».
Questo significa anche «emanciparsi dal mito del comunismo come un mondo futuro pacificato e unificato significa emanciparsi dalla radice illuminista che permea il marxismo non meno del liberalismo, per cui la lotta di classe si rivela in ultima istanza lo strumento per realizzare il trionfo dell’individuo razionale universale»; e, di conseguenza, «riconoscere che l’internazionalismo dovrebbe fondarsi sulla relazione fra comunità diverse che si riconoscono reciprocamente quali portatrici di forme di vita legittime». La sovranità nazionale, in altre parole, non è essenziale solo in quanto rappresenta l’unico strumento capace di resistere all’illimitata estensione geografica del dominio capitalistico, ma perché permette ai vari popoli e alle varie comunità di resistere al dominio capitalistico secondo le proprie modalità e specificità. Non è un caso, come nota David Harvey, che i conflitti sociali siano spesso espressione della «tensione antagonista fra logica dell’accumulazione capitalistica e logica territoriale».
È per questo che innumerevoli lotte sociali e di classe si combattono attorno alla formazione dei luoghi, i quali «sono i paesaggi dove si svolge la vita quotidiana, si stabiliscono i rapporti affettivi e le solidarietà sociali e dove si costruiscono le soggettività politiche e i significati simbolici». In altre parole, per citare sempre Harvey, «il conflitto assume inevitabilmente la forma dello scontro fra flussi del capitale e luoghi dell’autoproduzione dei mondi vitali». È in questo contesto, scrive Formenti, che «la resistenza dei luoghi nei confronti delle potenze sconvolgenti scatenate dai processi di globalizzazione assume il significato di una lotta anticapitalista». Inoltre, rifacendosi all’analisi di autori come Hosea Jaffe e Samir Amin, Formenti nota come l’obiezione più ricorrente al “sovranismo di sinistra” – ossia quello secondo cui, nel contesto dell’attuale sistema capitalistico globalizzato, ogni velleità di sganciamento dal mercato mondiale sarebbe illusoria – sia del tutto infondata: non solo il «delinking dal mercato globale è una via percorribile; di più: è l’unica via percorribile per compiere qualsiasi passo verso il socialismo».
Da questo secondo punto discende il terzo punto: un rifiuto radicale e senza mezzi termini dell’Unione europea – e in particolare della moneta unica –, lo strumento cardine con cui si è svuotata la democrazia e si è portato avanti l’attacco ai lavoratori in Europa negli ultimi decenni. Come scrive Formenti, «distruggere questa Europa dovrebbe essere l’obiettivo strategico di qualsiasi forza politica anticapitalista». Su questo punto Formenti non si dilunga troppo, avendo già trattato approfonditamente l’argomento in altre sedi. È l’autore stesso a riassumere le proprie argomentazioni nella seguente maniera: «[C]omunque la si voglia definire, la UE agisce come un’entità sovrastatale che divora spazi di partecipazione democratica, spoliticizza il mercato e sterilizza il conflitto ridistributivo, e comunque la si voglia definire è una costruzione palesemente irriformabile, il che non dipende tanto dal fatto che per modificare i trattati occorre l’unanimità dei membri, quanto da quel “mercato delle riforme” che scandisce i passaggi fondamentali della sua esistenza», oltre che – e forse soprattutto – dal fatto che «[l]’Europa non è mai esistita come entità politica e culturale unitaria, e l’utopia di farne un unico Stato (utopia che tanto Marx quanto Lenin denunciarono come il sogno reazionario del capitalismo occidentale, il quale aspirava così a rafforzare il proprio dominio sul resto del mondo) si scontra con barriere sociali, linguistiche e culturali che nemmeno l’istituzione di un sistema fiscale, di un esercito e di una polizia comuni sarebbe in grado di superare».
Proprio per questo motivo, scrive Formenti, «il principio di delinking teorizzato da Samir Amin a proposito della relazione fra potenze imperiali e paesi ex coloniali può e deve essere fatto proprio anche dai paesi euromediterranei». D’altronde, fu lo stesso Amin a riconoscere che le relazioni fra nazioni imperialiste e nazioni periferiche non riguardano solo i rapporti fra ex imperi coloniali ed ex colonie, ma può riguardare anche quelli fra paesi industrializzati (per esempio, Amin considera la relazione fra la Germania e i paesi del sud e dell’est Europa come un rapporto centro-periferia). È in contesti come questo che «la lotta di classe assume anche l’aspetto di conflitto fra nazioni, così come chiama in causa il ruolo dello Stato-nazione quale unica cornice possibile di una lotta democratica e, in prospettiva, anticapitalista». In conclusione: «senza Stato-nazione e senza sovranità niente democrazia, e nessuna possibilità di compiere qualsiasi passo verso il socialismo», tanto nel nord quanto nel sud del mondo.
Il quarto punto: oggi la transizione verso il socialismo non può che passare per una fase intermedia basata sul recupero di strumenti che potremmo definire keynesiani o socialdemocratici, che non a caso sono quelli che definiscono i programmi dei populismi di sinistra (da Sanders a Corbyn, da Podemos a Mélenchon). Scrive Formenti: «[Questi programmi] sarebbero stati definiti riformisti e neosocialdemocratici fino a non troppi anni fa (ridistribuzioni egualitarie del reddito, reintegrazione del welfare, ri-pubblicizzazione di trasporti, sanità, educazione, nazionalizzazione di settori strategici e delle banche, ristabilimento del controllo politico sulla banca centrale, programmazione industriale ecc.). Vero, ma, nelle attuali condizioni create da decenni di ristrutturazione neoliberale, questi obiettivi “moderati” assumono un’obiettiva valenza “sovversiva”, e comunque sono passi indispensabili per creare le condizioni per un avanzamento verso obiettivi più ambiziosi allo stato non definibili». Questo è ancor più vero nella misura in cui «nelle attuali condizioni, è impensabile immaginare una transizione diretta al socialismo. Il processo dovrà assumere inizialmente il carattere di una rivoluzione nazional-popolare e democratica, di una rivoluzione “cittadina” – neogiacobina – che ricostruisca sia le condizioni di una reale partecipazione popolare e democratica al processo decisionale, sia la possibilità di una ridistribuzione egualitaria del reddito. L’eventuale passaggio a una successiva fase socialista sarà il risultato contingente dei rapporti di forza fra gli strati di classe che compongono il blocco sociale e della lotta egemonica fra le forze politiche che li rappresentano».
Infine il quinto punto: la dimensione geopolitica. A differenza di altri pensatori, Formenti dà – giustamente – una grande importanza alla dimensione geopolitica. Nel senso che oggi non è possibile ragionare di recupero della sovranità nazionale in Occidente senza tenere conto quello che si muove in altre zone del mondo: in particolare l’ascesa della Cina al rango di potenza regionale e mondiale. Ma a differenza della vulgata, secondo cui cui questo giustificherebbe la necessità di un’unificazione politica dell’Europa, Formenti sottolinea al contrario come l’emergere di un ordine multipolare può rappresentare anche un’occasione per quei paesi che vogliano conquistare una maggiore autonomia in campo economico e geopolitico proprio perché certifica la fine di quell’iper-impero mondiale che era in grado di imporre – con la forza o con altri mezzi – il proprio volere a tutto il pianeta. Oltre a certificare il fatto che gli Stati-nazione, lungi dall’essere morti o sulla via del declino, sono in ottima forma e anzi giocheranno un ruolo sempre più centrale in futuro.
In definitiva, Formenti mette in guardia dallo scrivere ricette per le osterie del futuro. Siamo in una situazione estremamente dinamica e il nostro pensiero deve essere altrettanto dinamico. Ma senz’altro con questo libro ci indica qual è la via maestra da seguire e qual è l’orizzonte verso cui muoverci: un socialismo del XXI secolo, un socialismo che è non solo necessario ma possibile.