La questione ambientale

inquinamento industriepubblichiamo la relazione introduttiva di Ascanio Bernardeschi al seminario promosso dell’Associazione la Rossa

di Ascanio Bernardeschi

L’impegno, e l’auspicio di riuscirci, è che questo sia un primo seminario promosso dell’Associazione la Rossa per poter discutere, con maggiore possibilità di approfondimento di quanto possa avvenire nei pur interessanti, tradizionali dibattiti nelle feste rosse, di questioni della massima rilevanza.


E la questione dell’ambiente e del clima ha la massima importanza, se si pensa che il doomsday clock, la lancetta virtuale che simboleggia la distanzia dalla catastrofe del pianeta, la quale nel 1947 indicava 7 minuti alla fine del mondo, oggi indica 100 secondi. Abbiamo cioè consumato abbondantemente ¾ del tempo a disposizione. Il motivo di tale pericoloso avvicinamento è dato sia dal rischio di un conflitto disastroso, sia dai rapidi cambiamenti climatici in atto. Le due cause hanno fra di loro una forte correlazione.

A noi non interessa interloquire con i negazionisti ma con chi, anche da posizioni diverse dalle nostre, prende atto del problema e si pone l’obiettivo di risolverlo.

Però, se va crescendo la consapevolezza della concretezza del problema, non è così per le cause e i rimedi, anche a causa di tesi massicciamente divulgate quanto fuorvianti, talvolta per insufficienza analitica, altre per deliberata scelta.

A fine gennaio, per esempio, mi sono imbattuto nel Manifesto di Assisi per un’economia a misura d’uomo contro la crisi climatica, un documento che ha raccolto ben 2 mila adesioni fra istituzioni, mondo economico, politico, religioso ecc. Fra i promotori, oltre al solito “ambientalista” embedded (nel senso di arruolato al sistema), Ermete Relacci, ed esponenti della Chiesa cattolica, vi figurano i presidenti di Coldiretti e Confindustria e gli amministratori delegati di Enel e Novamont. La compagnia è già di per sé eloquente.

Nel manifesto si dice che il problema si risolve soprattutto con la partecipazione dei cittadini e seguendo gli insegnamenti dell’enciclica Laudato Sì. Ci si rivolge poi a questa Europa, senza menzionare che le sue effettive priorità sono ben altre, allo stato italiano, al mondo delle imprese per un’economia circolare e sostenibile, attraverso il riciclo dei rifiuti (ottima cosa, senza dubbio) e la green economy che rende più competitive le nostre imprese. Insomma piena compatibilità fra la competizione economica, il capitalismo e la salvaguardia dell’ambiente, invocando “empatia e tecnologia”. Si indicano per la verità anche alcuni problemi oggettivi che anche noi denunciamo: diseguaglianza, eccessiva burocrazia, illegalità nell’economia, ma si tace dei disastri dell’altra economia, quella legale. Insomma un manifesto interclassista in cui il termine capitalismo nemmeno figura. 

E infatti anche l’enciclica da loro richiamata auspica “un confronto che ci unisca tutti”. Sul banco degli imputati non c’è il capitalismo ma “l’attività incontrollata dell’essere umano”, quindi indistintamente di tutti, dei poveracci come di coloro che li sfruttano, mentre sfruttano la natura. Vi si sostiene che la crescita economica (senza altra qualificazione) e il progresso tecnologico (idem) possono ripercuotersi contro l’uomo. Sotto accusa è il “paradigma tecnocratico dominante” non quelle classi sociali che lo indirizzano e lo controllano, né tanto meno la pulsione a massimizzare i profitti. E quindi l’indicazione è: “grandi percorsi di dialogo”. Non c’è spazio per la dialettica fra le classi.

Altra posizione, a cui sono stati accordati un gran fragore mediatico e tribune tribuna eccellenti è quella del movimento Friday for Future di Greta Tumberg. Lei si è rivolta sopratutto, platealmente, ai potenti, essendole stato concesso (casualmente?) di parlare addirittura alle conferenze COP24 e 25, al Forum mondiale di Davos, al Parlamento europeo, all’Onu e chissà dov’altro ma nei suoi interventi non si è andati al di là della presa di coscienza della gravità della crisi climatica e dell’atto d’accusa alla politica perché non prende i necessari provvedimenti.

L’imputato è la cattiva politica e su quello dell’accusa le giovani generazioni: “i giovani hanno cominciato a capire il vostro tradimento – afferma la bambina all’assemblea generale Onu del 23 settembre – gli occhi di tutte le future generazioni sono su di voi e, se sceglierete di tradirci, vi dico che non vi perdoneremo mai”. Come se si trattasse di una questione generazionale.

Per fortuna nel movimento da lei creato non manca un ben altro grado di consapevolezza. Per esempio una “Lettera aperta a tutte le lavoratrici, a tutti i lavoratori e a tutte le organizzazioni sindacali” schiera la sua componente italiana dalla parte dei lavoratori. E quindi non va trascurato lo spazio per una interlocuzione con questo movimento. Ma proprio perché le posizioni più avanzate possano prevalere occorre essere molto chiari sulle responsabilità del capitalismo in fatto di ambiente e clima.

L’altro argomento dei discorsi di Greta è che la crescita economica eterna sarebbe “una favola”. Che poi e il litmotiv dei teorici della decrescita.

Questi ultimi, prendendo atto dell’insostenibilità di questo modello economico, anziché proporre il cambio del modo di produzione, ipotizzano di introdurre la riduzione controllata e selettiva della produzione e dei consumi, per assicurare l’equilibrio ecologico fra l’uomo e la natura, attraverso l’introduzione di una serie di buone pratiche, molte delle quali assolutamente necessarie anche dal nostro punto di vista, altre del tutto utopiche, altre assai funzionali allo sfruttamento e già implementate dal capitale. Non manca neppure in alcuni uno sguardo nostalgico a sistemi precapitalistici. Le ricette sono: i Distretti di Economia Solidale, l’agricoltura biologica, i Gruppi di Acquisto Solidale, la difesa dei territori e dei beni comuni, il risparmio energetico, il consumo critico, il cohousing, la sharing economy, ecc. 

Certamente in un ipotetico contesto di crescente socializzazione delle decisioni economiche, la decrescita, o meglio la programmazione del tasso di crescita in termini di sostenibilità ecologica, rappresenterebbe un’opzione possibile, valida e doverosa. Ma sotto i vincoli della compatibilità capitalistica essa si tradurrebbe in decrescita della sola quota salari.

Quello che manca è la consapevolezza che la maggior parte di questi bei propositi andranno a cozzare contro un sistema che è guidato dalla regola della massimizzazione del profitto.

È l’assenza di un segno di classe che caratterizza tutte queste correnti di pensiero. Noi pensiamo invece che il capitalismo degradi l’ambiente colpendo in modo sproporzionato i poveri e i colonizzati, che poi sono quelli meno responsabili del degrado ambientale, come ci mostrerà anche Vento a proposito delle migrazioni climatiche.

L’idea che la produzione consista nel ricambio organico fra l’uomo e l’ambiente, che solo il lavoro e la natura siano i fattori produttivi e che il capitale nella sua brama di autovalorizzazione sussuma sotto di sé, in maniera pervasiva, le relazioni sociali ed umane e le forze della natura era già stata espressa nel XIX secolo nell’opera di Karl Marx e Frederick Engels.

Le loro osservazioni sull’ecologia andavano ben oltre la comprensione della maggior parte dei loro contemporanei. Fanno capolino i temi dei cambiamenti dei rapporti fra città e campagna e dell’urbanizzazione intensiva, della nocività di certe lavorazioni, dello sfruttamento della natura, in un sistema che tende a superare ogni limite di sostenibilità sull’altare del profitto.

Nel primo libro del Capitale, a proposito della produzione del plusvalore relativo, Marx, per esempio, osserva:

Con la preponderanza sempre crescente della popolazione urbana che la produzione capitalistica accumula in grandi centri, essa […] turba il ricambio materiale organico fra l’uomo e la terra, ossia il ritorno al terreno degli elementi costitutivi consumati dall’uomo sotto forma di mezzi alimentari e di vestiario, turba dunque […] la durevole fertilità del terreno […] La produzione capitalistica sviluppa quindi la tecnica e la combinazione del processo di produzione sociale solo minando al contempo le fonti da cui sgorga ogni ricchezza: la terra e il lavoratore.[1]

Il concetto viene ripreso nel capitolo sulla legge generale dell’accumulazione capitalistica a proposito della colonizzazione dell’Irlanda da parte dell’Inghilterra. In una nota Marx osserva che “l’Inghilterra ha esportato indirettamente il suolo irlandese da un secolo e mezzo senza concedere ai suoi coltivatori nemmeno i mezzi per sostituire le parti costitutive del suolo”[2]. I nutrienti del suolo si trasformano in cibo e fibre tessili da inviare alle città della casa madre e poi, anziché essere riciclati nel suolo, prendono la forma di scarti e rifiuti che inquinano l’ambiente.

Il tentativo di restituire nutrimento al terreno con i fertilizzanti chimici porta a ulteriori problemi ambientali. “Un sistema di produzione che prende dalla natura più di quanto non vi rimandi è un sistema di rapina della natura”, la quale prima o poi rimetterà il suo conto.

Per Marx la contraddizione fra natura e capitalismo è una frattura irreparabile. Nei manoscritti per il terzo libro, incompiuto, del Capitale rileva che grande industria e agricoltura condotta capitalisticamente “si danno la mano, in quanto il sistema industriale nella campagna succhia l’energia anche degli operai, e l’industria e il commercio, dal canto loro, procurano all’agricoltura i mezzi per depauperare la terra”[3]. Per questo egli auspicava il sistematico “ripristino” del metabolismo tra umanità e natura, in quanto nessuno, nemmeno “tutte le società prese insieme” è proprietario della terra. Siamosemplicemente i suoi possessori, i suoi beneficiari” e dobbiamo “lasciarla in eredità in uno stato migliore alle generazioni successive”.

“La Libertà in questo campo può consistere soltanto in ciò, che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca; che essi eseguono il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa”.[4]

In altri termini, parlava di socialismo.

Naturalmente, pur lasciandoci geniali intuizioni sull’evoluzione della società capitalistica, Marx non poteva a quel tempo immaginare che la combustione dei fossili avrebbe prodotto l’effetto serra e i cambiamenti climatici. Non per questo è superato, a differenza di quanto viene continuamente sostenuto, magari da chi non lo ha letto.

Vediamo per esempio una prima obiezione secondo cui Marx pensava al capitalismo del XIX secolo e non a quello odierno. 

Questa critica parte da un fraintendimento. Si confondono le parti in cui Marx descrive la società a lui contemporanea con la sua teoria. Queste parti invece servono solo da illustrazione di come funzionasse la sua teoria, ovviamente nella realtà che all’epoca era possibile osservare. Ma la sua teoria è altro da quelle esemplificazioni e va indagato se ancora ci è utile per capire la società odierna, non scartandola a priori.

Un altra obiezione di certi ambientalisti è l’affermazione che egli fosse stato sviluppista e acritico nei confronti della tecnologia. Qui il fraintendimento è fra Marx e un certo marxismo, dimostratosi effettivamente inadeguato a comprendere i mutamenti impetuosi che il capitalismo, per la sua stessa natura, non poteva non introdurre. In realtà Marx – e non la caricatura di Marx eseguita da certi critici, anche nell’ambito dei movimenti “marxisti” – non ha mai avuto fiducia cieca nella tecnologia. Semmai ha riconosciuto che la rivoluzione borghese e il capitalismo abbiano svolto un ruolo progressivo, di abbattimento delle barriere che si frapponevano allo sviluppo delle forze produttive, preparando le condizioni per la rivoluzione proletaria. Invece sulla relatività della scienza, la sua non oggettività, la necessità di un suo appropriato uso e di un controllo sociale su di essa, non ha mai avuto esitazioni. Basti questo esempio. Egli, mentre considerava non scientifiche le posizioni degli economisti puramente apologeti, che definiva volgari, aveva grande rispetto per l’economia politica classica, e la considerava a tutti gli effetti scienza. Eppure profuse il massimo impegno per criticare quella scienza e diede al Capitale il sottotitolo Critica dell’economia politica.

Ancora oggi ci è utile il suo metodo di analisi della dialettica fra natura e società. Come ci illustrerà la compagna Filosa, natura e società, natura e storia, l’esame congiunto di questi due aspetti è fondamentale per comprendere i problemi e cercare di risolverli. La tecnologia da sola, all’interno delle relazioni capitalistiche non può alleviare il problema delle mutazioni climatiche in modo significativo. Anzi, come ci dirà Baracca, un certo modo di fare scienza, perfino per fini pacifici, può costituire un grave pericolo per l’umanità e per la natura. E neppure ci possono risolvere il problema la sharing economy, dimostratasi un buon pretesto per il supersfruttamento, o la green economy, la quale può essere un’occasione per fare lauti affari, magari assistita da finanziamenti pubblici, senza intaccare il meccanismo di fondo, che è la ricerca di efficienza fine a sé stessa, per vincere la concorrenza fra capitalisti ed espandere senza limiti la produzione. O meglio espanderla fintanto le contraddizioni di questo modo di produzione non esplodono con una bella crisi. La stessa green economy, ci dirà Cappello, potrebbe risolversi in una nuova bolla finanziaria.

Quindi il problema non è generazionale. Il problema è che il movente unico delle attività economiche è il profitto; che il saggio medio del profitto tende a diminuire proprio in conseguenza dei tentativi dei singoli capitalisti di aumentare quello individuale, introducendo innovazioni che risparmiano lavoro; che per fare argine a questa caduta occorre tagliare salari, diritti e democrazia e privatizzare ferocemente non solo le industrie strategiche, ma anche ogni aspetto della vita, nonché mettere la natura sotto la massima pressione; che di conseguenza sono state imposte svolte liberiste; che per far passare queste politiche è necessario smantellare gli strumenti di controllo popolare (per esempio leggi elettorali truffaldine), reprimere le lotte sociali (il decreto sicurezza è un ottimo strumento a questo proposito), controllare e accentrare i mezzi di comunicazione e di informazione, come è stato fatto. I poteri pubblici statali sono stati espropriati da quelli sovranazionali, obbedienti al capitale transnazionale, e il personale di governo è costituito da marionette i cui fili sono tirati dai poteri economici. A questo proposito, Torre accennerà anche agli indirizzi della politica del tutto omissivi delle radici reali dei problemi. Per questo anche la questione ambientale ci viene presentata in maniera sterilizzata, senza rammentare il capitalismo e senza mettere in discussione il suo potere. Se non diciamo questo la gente non ci capirà nulla e magari se la prenderà con l’immigrato di turno.

La nostra società si basa sull’antagonismo fra le classi e non si può comprendere la questione ecologica se non si parte da qui. Non siamo di fronte a un problema di razionalità astratta, ma di razionalità specifica, nel contesto di questo tipo di società. Infatti in tale contesto è molto “razionale”, per chi opera le scelte e ne incassa i dividendi, distruggere risorse, disseminare rifiuti tossici, inquinare fiumi e mari, scaricare nell’atmosfera migliaia di tonnellate di anidride carbonica.

Marx ci serve per comprendere che la questione ambientale è una questione di classe, e che i dati oggettivi mostrano che i benefici del progresso tecnico finiscono prevalentemente nelle tasche dei capitalisti, mentre i danni ambientali si scaricano prevalentemente sulla classe lavoratrice e sui ceti più deboli della società.

È vano quindi pensare di risolvere il problema con la collaborazione interclassista, che può esserci solo se non contraddice gli interessi dei padroni del vapore. Come ci riferirà Simonetta, i costi finanziari di politiche ambientali realmente efficaci, sarebbero enormi. E allora gli intellettuali borghesi ci direbbero che per affrontarli bisognerà sacrificarsi: diminuire il costo del lavoro, e intensificarne lo sfruttamento, anche attraverso un intervento su orari, ritmi, flessibilità e diritti; ridurre la spesa sociale per i servizi pubblici e il welfare, insomma deve decrescere il tenore di vita di chi sta più in basso nella società.

Il seminario di oggi pone ai relatori che abbiamo invitato, e che ringraziamo per la loro disponibilità, l’obiettivo di fornirci gli elementi necessari per costruire una posizione ambientalista e nel contempo, anticapitalista perché noi crediamo che non ci sia ambientalismo efficace senza la critica a questo modo di produzione e perché occorre abbinare gli obiettivi di salvaguardia dell’ambiente a quelli del riscatto delle classi sociali sfruttate. 

Come ci dirà Buonuomo, ecosocialismo o barbarie!

1.  K. Marx, Il Capitale, Libro I, pp. 549-50, Ed. La Città del Sole, 2011, corsivo di Marx.

2.. Ivi, p. 776.

3.  K. Marx, Il Capitale, libro III, p. 926, Ed. Riuniti, 1989.

4. Ivi, p. 933.