Uno stimolante contributo di Domenico Moro
Tra gli aspetti della riflessione di Marx ed Engels che trovano conferma oggi, a distanza di 150 anni dalla pubblicazione del Capitale, ci sono la tendenza del capitalismo alla crisi, sempre più grave, e le conseguenze contraddittorie che porta. Queste sono rappresentate dalla internazionalizzazione delle imprese, dall’aumento della concorrenza tra capitali e dall’accrescimento delle dimensioni delle imprese, soprattutto mediante la centralizzazione proprietaria[1]. Ma c’è un altro aspetto della riflessione dei fondatori del materialismo storico che è confermato: la natura di classe dello Stato, che oggi trova una espressione significativa anche nei processi di centralizzazione sovrannazionali.
Dopo oltre tre decenni di liberismo di mercato e privatizzazioni stiamo assistendo al ritorno dello Stato-nazione nell’economia. In realtà, non si tratta di un ritorno alla mano pubblica, ma dello schierarsi dello Stato-nazione a sostegno del proprio capitale. Quella che viene messa in discussione non è la libertà di movimento del proprio capitale, ma la libertà di quello altrui. Questo fenomeno si manifesta soprattutto nei Paesi di più antico capitalismo, l’Europa occidentale, gli Usa e il Giappone, già alfieri della deregolamentazione e del libero mercato, ma ora costretti a cambiare rotta sotto un attacco che proviene da due fronti. Da una parte, c’è la crisi, che non vuole passare e che si è manifestata più acutamente nelle aree capitalisticamente più sviluppate, coerentemente con la teoria marxista della tendenza alla sovraccumulazione di capitale[2]. Dall’altra parte, ci sono i Paesi cosiddetti emergenti la cui quota sulle esportazioni mondiali è cresciuta enormemente: i Brics sono passati dal 7,4% del 2000 al 18,2% del 2017[3]. La minaccia è avvertita soprattutto nei confronti della Cina, in particolare nella tecnologia 5G e nell’intelligenza artificiale (IA), che hanno una enorme rilevanza industriale-commerciale e strategico-militare. Inoltre, la Cina ha aumentato i suoi investimenti diretti (IDE)[4] non solo nei Paesi periferici, ma anche nei Paesi sviluppati, acquisendovi imprese e accedendo così alle loro tecnologie avanzate e inserendosi nella gestione delle infrastrutture fisiche e digitali.
I campioni europei e il “manifesto franco-tedesco”
L’esempio più significativo di questa tendenza al ritorno dello Stato nell’economia è riscontrabile nella Ue, sebbene questa fosse nata per liberalizzare i mercati. Il 19 febbraio i ministri economici di Francia e Germania hanno firmato “Il manifesto franco-tedesco per una politica industriale europea adatta al XXI secolo”, la necessaria appendice economica del Trattato di Aquisgrana firmato qualche settimana prima da Macron e Merkel. Il punto di partenza degli estensori del manifesto è significativo: solo cinque tra le prime 40 aziende al mondo sono europee. C’è, quindi, la necessità di creare campioni europei e per farlo bisogna cambiare le regole europee dell’Antitrust, che, come nel caso della fusione tra la francese Alstom e la tedesca Siemens, bloccano le fusioni transfrontaliere. A quanto pare, mentre su alcuni aspetti le regole europee sembrano modificabili, su altri aspetti rimangono incise sulla pietra, come nel caso della mutualizzazione dei debiti pubblici e dei vincoli di bilancio. Si tratta dell’ulteriore prova della natura di classe della Ue, un accordo intergovernativo finalizzato a favorire il processo di accumulazione del capitale. Insomma, quello europeo è un liberismo à la carte, pronto a essere sostituto dal protezionismo quando fa comodo. L’accordo franco-tedesco sulla politica industriale è diretto in primo luogo a favorire le imprese francesi e tedesche all’interno della Ue, che così rappresenterebbero il nocciolo duro dei processi riaggregativi tra imprese. L’Italia, pur avendo la stazza economica per pesare ed essendo un concorrente agguerrito di Germania e Francia in diversi settori manifatturieri, corre il rischio di essere messa ai margini dei processi di riaggregazione industriale. In secondo luogo, l’accordo è diretto a compattare l’Europa nei confronti degli Usa, che fra pochi mesi devono decidere che fare dei dazi sulle importazioni europee (tra i quali quelli sulle auto tedesche), e nei confronti della Cina, le cui recenti acquisizioni di imprese europee, come quella della tedesca Kuka da parte della cinese Midea, hanno lasciato l’amaro in bocca alla Germania. Mentre le fusioni all’interno della Ue vanno facilitate, quelle tra imprese europee e imprese extra europee, specie cinesi e russe, vanno ostacolate, con l’argomentazione che i settori “sensibili” per la sicurezza nazionale (telecomunicazioni, infrastrutture, ecc.) devono essere protetti. Del resto, l’accordo prevede l’aumento della cooperazione franco-tedesca proprio nei settori, 5G e IA, dove la Ue è in forte ritardo nei confronti di Usa e Cina. In sintesi, l’obiettivo è opporre ai giganti Usa e cinesi dei gruppi europei di dimensioni adeguate, facendo però in modo che siano a guida franco-tedesca. La realizzazione di tali campioni “europei” sta avvenendo sempre di più attraverso il coinvolgimento dello Stato.
La ripresa del ruolo interventista dello Stato-nazione
Infatti, l’aspetto più importante è che, sia nell’accordo franco-tedesco sia nella pratica corrente anche di altri Stati (tra cui l’Italia), lo Stato-nazione sta ricoprendo un ruolo sempre più interventista nell’economia. Infatti, il manifesto di politica industriale franco-tedesco si impegna a ottenere una revisione della direttiva del 2004 che regola le fusioni, permettendo che le decisioni dell’Antitrust europeo possano essere impugnate dai governi nazionali, mentre ora possono essere annullate solo dalla Corte di giustizia europea. L’altra motivazione dell’accordo-franco tedesco, l’accusa alle imprese cinesi e di altri Paesi emergenti di beneficiare di aiuti di Stato e quindi di falsare la libera concorrenza, appare ipocrita. Infatti, negli ultimi anni è stato proprio lo Stato francese ad aver rafforzato la sua presenza nelle maggiori imprese francesi a danno dei partner stranieri. Nel 2015 Macron, allora ministro dell’economia nel governo Valls, aumentò la presenza dello Stato in Renault-Nissan, portando la sua quota al 15% con la spesa di 1,2 miliardi di euro. Tale mossa fu considerata alla stregua di una dichiarazione di guerra dal management della Nissan e dal governo giapponese, e ha portato all’arresto in Giappone tre mesi fa di Carlos Ghosn, l’ex Ceo di Renault-Nissan. Più di recente il governo olandese, sborsando 744 milioni, ha aumentato dell’1% la sua quota in Air France-KLM portandola al 14%, mettendosi così alla pari con il governo francese. La mossa è avvenuta senza avvertire quest’ultimo, che l’ha giudicata “ostile e incomprensibile”. Si tratta invece di una mossa più che comprensibile: il nuovo Ceo, Ben Smith, stava relegando il socio olandese, KLM, in una posizione subalterna rispetto ad Air France, con la conseguente perdita di importanza dello scalo di Amsterdam (65mila posti di lavoro diretti e molti di più indiretti). Infine, la Società aeroporti di Parigi verrà probabilmente posta in vendita, ma ad azionisti che non siano legati a uno Stato estero, cioè, in altre parole, non cinesi. Del resto, il governo francese, per opporsi ad acquirenti indesiderati, può avvalersi della Loi Florange che permette allo Stato di avere diritto di voto doppio in imprese considerate strategiche, e del decreto Monteburg, che permette di vietare un cambio di controllo.
La Francia, però, sebbene sia all’avanguardia sul fronte dell’interventismo statale, non è isolata. In Germania, il governo ha bloccato alcune fusioni utilizzando la banca di investimento pubblica, KfW, e il ministro dell’economia Altmaier ha proposto un fondo sovrano per nazionalizzare le imprese tecnologicamente all’avanguardia prima che siano gli stranieri a impossessarsene. In Brasile la vendita del costruttore aeronautico Embraer alla statunitense Boeing ha sollevato forti critiche persino nella maggioranza di destra filoamericana. Anche in Italia, il Paese che più ha privatizzato insieme al Regno Unito, ci sono accenni di un nuovo interventismo dello Stato, che, ad esempio, si propone di acquisire il 20% della (ennesima) “nuova” Alitalia. Il resto andrà a investitori privati, italiani e stranieri. Negli Usa Trump è stato eletto con il mandato di ridurre l’enorme deficit commerciale, che intanto ha raggiunto il livello più alto dal 2008 (862 miliardi di dollari[5]). A questo scopo, Trump ha imposto nuovi dazi sulle importazioni cinesi e europee. Con la Cina sembra che Trump sia arrivato ad un accordo, imponendo l’importazione di alcuni prodotti statunitensi. In questo modo, però, le tensioni fra aree economiche e tra stati vengono solo spostate, perché in questo modo si ridurranno le importazioni cinesi dall’Europa, soprattutto dalla Germania (macchinari e auto), e dal Brasile (soia). Intanto, Trump ha revocato a India e Turchia il trattamento speciale che consentiva ai due Paesi di esportare senza dazi negli Usa. La mossa è una ritorsione contro l’India, che ha alzato i dazi per tutelare i suoi produttori, e contro la Turchia, che ha preferito al sistema missilistico statunitense “Patriot” uno di fabbricazione russa. Un altro esempio di uso della forza statale nella concorrenza internazionale è dato dall’arresto negli Usa di Meng Wanzhou, direttore finanziario e figlia del fondatore di Huawei, accusata di aver aggirato le sanzioni contro l’Iran. Huawei, che guarda caso è all’avanguardia sul 5G, si appresta a presentare una denuncia contro lo U.S. National Defense Authorization Act, che ha reso più incisivi i controlli sugli investimenti stranieri, specie cinesi. La competizione tra Usa e Ue, da una parte, e Cina, dall’altra, ha riflessi importanti anche in Italia. Secondo il Financial Times, l’Italia potrebbe essere il primo Paese a sostenere la “Nuova via della seta”, il sistema di trasporti che collegherebbe la Cina all’Europa. In particolare, è in programma un accordo tra l’autorità portuale di Genova, il cui interscambio commerciale è per il 35% con la Cina, e la China communications construction company. L’ingresso dei cinesi nei porti italiani (forse anche quelli di Trieste e Palermo) sarebbe inserito nell’accordo bilaterale che dovrebbe essere siglato in occasione della visita del Presidente cinese a Roma alla fine di marzo. Alla notizia, gli Usa e la Ue, la quale è contraria alla “Nuova via della seta”, hanno protestato contro il governo italiano, che sembra spaccato sull’accordo con la Cina: il M5S favorevole e la Lega, che pure aveva fatto del “sovranismo” nazionale il suo cavallo di battaglia, maggiormente sensibile ai tradizionali vincoli internazionali del nostro Paese. Del resto, non è la prima volta che si produce una spaccatura tra i due partner di governo a proposito di collocazione e alleanze internazionali, come nel caso recente del Venezuela.
Interventismo statale sì, ma di che tipo?
Per concludere, quanto abbiamo detto non significa che il mercato mondiale stia sfaldandosi (per lo meno non nel breve-medio periodo), ma che, sulla spinta della crisi, si stiano ridefinendo i rapporti di forza tra le frazioni di capitale che compongono il sistema-mondo. Del resto, una caratteristica del capitalismo, nella sua fase imperialista, è lo sviluppo diseguale, che accentua la competizione tra i capitali e tra gli Stati per la ridefinizione degli equilibri precedenti. Da ciò nasce la tensione tra due tendenze, quella verso la liberalizzazione del movimento delle merci e dei fattori di produzione (capitale, forza lavoro, materie prime e tecnologia) e quella verso il protezionismo e l’interventismo statale. Tale contraddizione si riflette anche nella dialettica, presente in tutti i Paesi, tra “fautori del libero mercato-cosmopoliti” e “sovranisti-neonazionalisti”. Bisogna, però, tenere presente che si tratta di distinzioni non rigide: il capitale, oltre a non essere unitario, oscilla sempre, sulla base delle sue convenienze e delle circostanze, tra i due poli. L’estrema instabilità del sistema politico e dei partiti in Europa occidentale, specie in Italia, è dovuta anche al grado in cui questa contraddizione si presenta in seno ai vari settori del blocco sociale dominante.
Bisogna, quindi, fare molta attenzione a non cadere nell’equivoco di credere che il maggiore interventismo statale sia di per sé positivo. Spesso le imprese, controllate o partecipate dallo Stato, non sono enti pubblici, che rispondano ad autorità pubbliche e svolgano una funzione pubblica. Sono, invece, (come Eni, Enel e Leonardo-Finmeccanica in Italia) società per azioni, hanno una governance sul modello anglosassone della public company, con una presenza molto consistente e diversificata di azionisti privati, spesso stranieri, e sono quotate in borsa. Devono, quindi, rispondere in primo luogo al mercato e agli azionisti, e, di conseguenza devono raggiungere un certo profitto, spesso a breve termine, pena il calo del loro valore di borsa. L’intervento dello Stato non è subordinato ad alcuna programmazione né è indirizzato allo sviluppo complessivo ed equilibrato del Paese, bensì a sostenere l’accumulazione privata di capitale. Inoltre, la tendenza al rafforzamento dello Stato non ci deve far dimenticare che tale tendenza riguarda alcune funzioni dello Stato e non tutte: il bilancio pubblico e la moneta in Europa rimangono stabilmente, almeno per ora, in ambito sovrannazionale. Infine, la tendenza al rafforzamento dello Stato-nazione, sebbene diffusa, non è però uniforme: al rafforzamento di alcuni stati corrisponde l’indebolimento di altri. Per questo, se si vuole definire una strategia politica efficace, è importante la valutazione del ruolo e della posizione dei singoli stati nel quadro dei rapporti di forza internazionali, così come è necessario valutare la posizione – più o meno centrale o più o meno periferica – delle singole frazioni di capitale nella divisione internazionale del lavoro. Se è vero che il potere territoriale – cioè lo Stato, nella definizione che ne da Giovanni Arrighi ne Il lungo XX secolo – è condizione necessaria all’accumulazione da parte dei “possessori di denaro”, è altrettanto vero che, per queste stesse ragioni, tale potere territoriale si caratterizza in un modo o nell’altro in relazione alla fase storica del capitale. Pertanto, una politica che si ponga l’obiettivo di trasformare il ruolo dello Stato deve porsi anche l’obiettivo della modifica dell’assetto economico. Certamente il nuovo interventismo statale presenta l’aspetto positivo di dimostrare, al di là di ogni retorica neoliberista, che il “mercato”, cioè il capitalismo, funziona solo se c’è lo Stato. Il punto, però, è capire quale sia il segno di classe di tale interventismo. Non basta, quindi, pensare a un maggiore intervento dello Stato in economia o a nazionalizzare alcune imprese, bisogna far sì che le imprese nazionalizzate abbiano un ruolo e una governance realmente pubblici e che vengano inserite in una programmazione economica tesa allo sviluppo complessivo ed equilibrato, che in Italia vuol dire soprattutto sviluppo equilibrato delle due parti del Paese, Mezzogiorno e Centro-Nord.
[1] Marx distingue nel Capitale due metodi di ingrandimento delle imprese, i quali permettono, per contrastare la caduta del saggio di profitto, l’aumento della massa di profitto mediante l’aumento della massa del capitale investito. 1) La concentrazione è l’ingrandimento del capitale dovuto al processo di accumulazione di capitale progressivo che l’impresa realizza nei cicli di investimento che si susseguono. 2) La centralizzazione è l’ingrandimento mediante la fusione tra due o più imprese o l’acquisizione di una o più imprese da parte di un’altra, centralizzando così il controllo proprietario delle imprese in poche mani. Nei periodi di crisi la centralizzazione è più diffusa perché le imprese più forti assorbono le imprese più deboli che soccombono alla concorrenza.
[2] Per sovraccumulazione o, meno correttamente, sovrapproduzione di capitale si intende l’accumulazione di un eccesso di capitale, in mezzi di produzione. L’eccesso di capitale è tale in rapporto al profitto che il capitale investito permette di realizzare. In pratica, è quella condizione per cui ogni nuovo investimento non produce il livello di profitto aspettato dal capitalista e tale da giustificarlo. Essa si presenta con maggiore intensità nei Paesi di più antica industrializzazione, proprio perché nei vari cicli di accumulazione la parte di capitale che va in forza lavoro, l’unica a produrre plusvalore, diminuisce in rapporto alla parte che va in capitale fisso (macchinari, materi prime, edifici, ecc.). La sovraccumulazione di capitale è alla base della tendenza alla caduta del saggio di profitto, a sua volta alla base delle crisi cicliche. È da non confondere con la sovrapproduzione di merci.
[3] Unctad, database.
[4] Sono definiti IDE gli investimenti internazionali volti all’acquisizione di partecipazioni “durevoli” (di controllo, paritarie o minoritarie) in un’impresa estera (mergers and aquisitions) o alla costituzione di una filiale all’estero (investimenti greenfield), che comporti un certo grado di coinvolgimento dell’investitore nella direzione e nella gestione dell’impresa partecipata o costituita.
[5] Unctad, Database, 2017.