Gender question o questione capitalistica? Totalità senza coscienza

di Eugenia Lamedica* | In GE (Gioventù evangelica), anno LXI 219 nuova serie, n. 1/2012 

gender question1Più che riflettere sulla “questione del gender”, il presente intervento vorrebbe porre al pensiero della “differenza sessuale” [1] una questione: l’elaborazione teoretica del “femminismo radicale” – quello, per intenderci, scaturito dalla manìa decostruttivistica post-moderna – può dirsi all’altezza di un’epoca di capitalismo avanzato quale, a tutti gli effetti, può definirsi la nostra? Più precisamente: concentrandosi esclusivamente sulla critica del “simbolico maschile performante”, il femminismo non finisce per perdere di vista il potere molto più radicalmente “performativo” del sistema capitalistico? Il potere, cioè, di mettere in atto, attraverso i suoi assunti ideologici, un determinato modo d’essere dell’umano – uomo e donna insieme. Sembra proprio che l’elaborazione teoretica sul genere svolta dal tardo femminismo – che poco c’entra con le rivendicazioni del primo femminismo, cui va ascritto il merito di una fondamentale battaglia democratica per l’estensione dei diritti [2] – non riesca a fornire dei validi strumenti per capire, prima ancora che per criticare, gli effetti del capitalismo sulla società e sui suoi abitanti.

Né la decostruzione dell’universalismo “fallogocentrico”, né la critica del Soggetto cartesiano, né la ricerca di un ordine simbolico, politico ed etico “al femminile” – questi, in estrema sintesi, gli obiettivi del femminismo post-strutturalista –, possono dirci molto su come il sistema capitalistico attuale concepisce ed “agisce” il modo di “essere” dell’uomo (e della donna). Come scriveva un socialista inglese a metà degli anni ’90 “oggi femminismo ed etnicità sono popolari perché sono i segnacoli di alcune delle più vitali lotte politiche cui ci troviamo di fronte nella realtà. Ma sono popolari perché non sono necessariamente anticapitalisitici, e quindi risultano abbastanza adatti a un’età post-rivoluzionaria” [3]. Il problema tuttavia non si limita ad una “insufficienza concettuale”. Come è noto, il sistema capitalistico ha la capacità di assorbire qualunque discorso e, integrandolo nel suo sistema, neutralizzarne la portata critica. A questo destino non sfugge il femminismo che, nella sua decostruzione del “soggetto autonomo autodeterminantesi” (giudicato, come si sa, un’ingombrante eredità dell’ordine simbolico maschile) finisce per confermare involontariamente quella che potremmo definire l’“ideologia capitalistica della singolarità”. Qui di seguito ci occuperemo di questa ideologia. Cercheremo di mostrare come il nuovo, inaudito potere detenuto dal sistema capitalistico – quello, cioè, di mettere radicalmente a rischio quanto c’è di più autentico nell’essere umano – renda largamente superflua, ai fini di una critica della realtà, la riflessione femminista su un ordine simbolico-politico esclusivamente “al femminile”. Nella convinzione che l’umanità odierna debba affrontare sfide radicali, prioritarie rispetto allo smantellamento del patriarcato fallocentrico – anch’esso, peraltro, ormai pienamente neutralizzato dall’“ontologia” capitalistica, avversa all’universalismo e disseminatrice di identità –, utilizzeremo la parola di genere maschile “uomo” nel senso universale di essere umano, consapevoli di trasgredire così ad un fondamentale divieto linguistico femminista, ma convinti che, oggi più che mai, i nostri migliori strumenti di critica e opposizione risiedono nel potere universalizzante del linguaggio e nella forza razionale del lògos.

Oggi non è più il potere di assoggettamento (da qualunque “trascendentale storico” sia stato rappresentato: il maschio, il Soggetto, lo stato o il potere di turno) ad oggettivare l’“altro” negandogli il diritto ad avere diritti (sia esso donna, psicotico, nero, lesbica, transessuale, ecc.). Questa forma “tradizionale” di assoggettamento avveniva nell’ordine dei segni e dei codici di riferimento della società, non dell’economia, e, per quanto oppressivo potesse essere il potere di uno dei due, aveva come interlocutori due soggetti: la persona e lo Stato. In questo ordine – ci si passino le cacofonie – il “soggetto” assoggettato e ridotto a oggetto (individuale o collettivo) aveva la possibilità di rivendicare la propria soggettività tramite la lotta e la libera opposizione, “critica” o armata che fosse. Da questo punto di vista, come ben illustra il sociologo Zygmunt Baumann, il sistema capitalistico odierno esercita una forma di potere radicalmente nuova rispetto al vecchio Stato-Leviatano, con i suoi apparti disciplinari e il suo potere normativo, resi noti dalle intramontabili analisi di Michel Foucault. Il capitalismo adotta piuttosto la strategia del “disimpegno”, diventando tanto più ineludibile quanto più è “elusivo”. La maggior parte di noi sperimenta quotidianamente tale “strategia”: si chiama precariato, ma i governi lo presentano con il nome più neutralmente tecnico di “liberalizzazione del mercato del lavoro”. L’altisonante formuletta maschera quello che potremmo chiamare il “ricatto” del Mercato verso lo Stato. Più scientificamente Michel Foucault lo definì “inversione dei rapporti del sociale rispetto all’economico” [4]. Cosa ciò significhi è presto detto. Se lo Stato non si presta a sgombrare il campo da tutto ciò che può essere di ostacolo al libero investimento di capitali (si legga: da ogni norma a difesa del capitale nazionale e da ogni garanzia e tutela pubblica del lavoro – in breve: di welfare), i detti capitali leveranno le ancore facendo rotta verso altri liberi mercati. Dove per “liberi” non si intende altro che liberati dagli interventi regolatori dello Stato – secondo l’austriaco Von Mises, mentore dei neoliberali, per natura totalitari [5]. “Un governo che abbia a cuore il benessere del suo elettorato, deve invitare e attirare i capitali”; il paradosso odierno è che può farlo solo “usando tutti i poteri normativi a sua disposizione per attestare, con chiarezza e credibilità, che quei poteri non saranno usati per limitare la libertà del capitale” [6]. In pratica, il governo attira il capitale necessario a dare lavoro e “benessere” ai suoi elettori solo garantendone la libertà di fuga: ossia assicurando al capitale la libertà di privare i suoi elettori di lavoro e benessere! Sempre secondo Baumann, “grazie alle nuove alle nuove tecniche del disimpegno, elusione, evasione e fuga oggi a disposizione delle élite, per tenere a bada, depotenziare e conseguentemente privare del potere di contrasto la restante popolazione è sufficiente la radicale vulnerabilità e precarietà della situazione, senza bisogno di ricorrere a una «regolazione normativa» del comportamento” [7]. Il sistema capitalistico odierno blocca quindi alle radici la possibilità stessa di quelle azioni comuni che, attraverso la lotta per il riconoscimento dei diritti delle parti in causa, non solo rendono i lavoratori agenti di una trasformazione sociale ma, non trascurabile effetto “collaterale”, producono la sfera comune delle leggi e delle garanzie, sollecitando i lavoratori (e le lavoratrici) di oggi a farsi i cittadini (e le cittadine) di domani. Risultato della lotta per il riconoscimento tra diversi attori sociali, i cittadini entrano nella sfera pubblica istituita al fine di mediare tra i propri interessi particolari, in un processo dialettico di continua negoziazione delle regole della convivenza. Impedendo il riconoscimento, perciò, il sistema capitalistico blocca non soltanto le singole contrattazioni, ma lo stesso meccanismo generatore della sfera pubblica. I vecchi pensatori avrebbero detto che l’“individuo privato” prende il posto del “cittadino”. Tuttavia, l’“individuo” prodotto dal tardo capitalismo non ha più nulla a che vedere con il borghese tradizionale, protagonista di una sfera privata non ancora interamente colonizzata dall’economia. Oggi il capitalismo si sbarazza della politica, ma in cambio regala la promessa dell’emancipazione individuale. Oggi il capitalismo sostituisce alla soggettività formale del diritto il miraggio di una realizzazione materiale di ciascun singolo individuo – nelle infinite “occasioni” che si spalancano in un nuovo, rischioso, ma eccitante universo di “opportunità”. Fuor di ideologia, ciò significa che la mercificazione oggi non riguarda più semplicemente il lavoro (come ancora poteva pensare Marx), ma l’essere umano nella sua stessa particolarità individuale. Nell’epoca del capitalismo avanzato, l’individualità si presenta come il prodotto di un’attività permanente di (auto)reificazione, vista come l’unica via d’accesso alla sfera contrattuale delle transazioni – che, dall’ambito prettamente economico in cui era tradizionalmente collocata, raggiunge ormai tutte le sfere dell’esistenza, compresa quella delle relazioni intime [8]. Tuttavia, poiché la nostra è anche l’epoca dei diritti, della liberazione dell’individuo e dell’individualismo – almeno così continua proclamare un democrazia che viene gradualmente svuotata di senso dalle iperlibertà economiche che essa stessa garantisce, quasi un rovesciamento della contraddizione che Marx scorgeva nello Stato borghese [9] –, non sempre è agevole rendersi conto del processo di reificazione in atto in tutte le sfere della vita. In questo senso, le categorie della singolarità e della biografia, sulle quali un certo femminismo tenta di ridefinire l’intera sfera dell’etica e della politica, ottengono solo l’effetto di legittimare le strategie disgreganti del capitale.Non bisogna tuttavia stupirsene. L’eterogenesi dei fini, legge universale della storia, coinvolge naturalmente anche il lavoro intellettuale. Accade così che un discorso concepito per certi scopi critici – come decostruire i codici di un potere oppressivo –, finisca invece per agevolare l’affermazione di uno stato presente. Non è difficile, infatti, vedere come un concetto di “identità” ricondotta esclusivamente all’unicità dell’aspetto fisico e della biografia (il “curriculum”), corrisponda fin troppo all’immediatezza indotta dal sistema di mercato. Erodendo l’infra della sfera pubblica – che potremmo definire come una “totalità attiva”, che media tra le singolarità –, il sistema capitalistico si pone come una “totalità elusiva” facendo emergere la potente illusione dell’immediatezza. Esso, cioè, si “sottrae” al riconoscimento e, “celandosi” nelle pieghe della presunta “complessità” del reale, dà l’illusione che non esista di fatto nessuna totalità ma soltanto individui alle prese coi propri problemi personali (il che, per inciso, corrisponde anche ad un’assunzione ontologica del pensiero femminista). Il paradosso del “neocapitalismo”, tuttavia, è che esso è una “totalità”, un potente e inestricabile connubio di capitale, finanza, ricerca, mercato e consumo esteso sull’intero globo terracqueo, una totalità tale da determinarci e condizionarci fin nell’intimità della nostra quotidianità (cambiare lavoro ogni mese non “influisce” forse sulla “qualità” delle nostre vite?). L’incapacità di diagnosticarla è dovuta al fatto che questa totalità si rende presente nella forma della sua assenza assoggettandoci proprio in quanto non accetta, in termini di conseguenze sociali e umane [10], le responsabilità del suo potere e, impedendo la creazione di un infra relazionale, blocca, come abbiamo detto, i meccanismi generativi della sfera pubblica (in questo senso parliamo di “totalità elusiva”). La tendenza in atto è quella che potremmo semplicemente definire una compiuta “privatizzazione del reale”. Al centro di questo evento inaudito si colloca l’essere stesso dell’uomo, divenuto il mezzo dell’accumulazione capitalistica e il termine ultimo delle strategie ideologiche di un vasto impero mass mediatico, oggi più che mai strumento dell’integrazione forzata dell’individuo nella “realtà”. Gli innumerevoli programmi “real time”, in special modo nei format americani che invadono i canali del consumo globalizzato – come Mtv –, sono solo l’ultimo ritrovato di questa strategia di “acclimatazione permanente” dell’individuo nell’ideologia tardo capitalistica della “gestione della personalità”. L’odierno “ordine” capitalistico post-fordista è un paradossale “ordine del caos”, cui non servono soggetti liberamente autodeterminantisi, ma “funzioni-soggetto” atte al consumo in cui inoculare la persuasione che, mentre la presa individuale e collettiva su una totalità sempre più incontrollabile svanisce, si è tuttavia ancora “protagonisti delle proprie vite”, fautori delle proprie scelte di consumo e, tramite l’acquisto di accessori, “artefici creativi” della propria individualità. Questa individualità, ovviamente, è una realtà puramente “residuale” e, come tale, desolatamente povera. Tradizionalmente, essa veniva concepita come il frutto di una conquista, di un lungo processo di mediazione chiamato anche “formazione”, fondata sul potere interiorizzante del pensiero e su una riconosciuta gerarchia di valori (tradizionalmente chiamata “cultura”). In questo senso, la disarmante immediatezza, la nuda “spontaneità” del consumatore moderno, non è un “dato” di cui colpevolizzare telespettatori troppo accondiscendenti alle lusinghe del mondo rassicurante della pubblicità, esso è piuttosto il risultato di una de-socializzazione, di un’espropriazione di capacità di reazione e di una sottrazione di strumenti atti a comprendere. Si potrebbe dire che la libertà di cui oggi gode l’individuo è l’analogo della libertà del mercato, frutto di una de-regolamentazione di regole pre-esistenti (non di rado spazzate via attraverso qualche “guerra umanitaria” [11]). Scambiando la (legittima) critica dei “lati oscuri” del Soggetto autonomo e autodeterminantesi per la definitiva liquidazione ontologica ed epistemologica dello stesso, indubbiamente le femministe (in contraddizione con il loro dichiarato ribrezzo per ogni asserzione assoluta) hanno dato il loro, seppur involontario, contributo a questo stato di cose. Il punto è capire perché ciò sia avvenuto. Il “neocapitalismo” (un capitalismo che ha fatto propri gli ideali della scuola neoliberale), strutturalmente proteiforme, ha la capacità di inglobare ed assimilare l’intera sfera del simbolico umano. È da questa capacità di tradurre tutti i linguaggi entro la semantica economica mantenendone al contempo la sintassi autonoma, che nasce il mito contemporaneo della “complessità”, nutrito dall’impressione che il sistema capitalistico garantisca un’autentica pluralità. Il capitalismo odierno è “elusivo” proprio perché riesce ad imporre l’equivalenza del valore di scambio attraverso un’infinta varietà di “narrazioni” e “storie” individuali [12] e, sottraendosi come totalità, fa emergere l’apparente immediatezza di tutte le singolarità. Per usare due note categorie marxiane, si potrebbe dire che solo oggi la “sovrastruttura” è stata integralmente assorbita da una “struttura” che, non avendo più bisogno di mascherarsi dietro la trascendenza della cultura, fa direttamente “cultura” di se stessa fagocitando ogni residuale ambito di trascendenza “mondana” (la sfera pubblica, la natura, finanche l’interiorità del soggetto autconsapevole). Ogni opera di decostruzione consolida perciò quella che, a questo punto, proporrei di chiamare la (vera e propria) “ideologia capitalistica della singolarità”, che il sistema promette di emancipare e di promuovere offrendo un nuovo mondo di inauditi “rischi” ma anche di “infinte possibilità”. Tuttavia, se la nostra “coscienza incarnata” [13] è proporzionale alla possibilità che abbiamo di autodeterminarci nella realtà agendo in essa, la coscienza integralmente autobiografica di questa singolarità “post-moderna”, è largamente la proiezione del nostro stato di impotenza e di incapacità di dominare intellettualmente i meccanismi in atto. L’incontrollabilità della sua distribuzione, “dislocata” in tutto il mondo, e l’evidente incommensurabilità di ogni azione di singoli e gruppi rispetto all’enorme concentrazione e accumulazione di potere economico e finanziario, rende molto più facile al sistema capitalistico il naturalizzarsi, facendosi passare, cioè, come qualcosa di necessario (e, dunque, scomparendo alla vista come “sistema”). Il risultato così ottenuto è triplice: neutralizzare (attraverso l’assimilazione produttiva) tutte le opposizioni, ottenere “unità di consumo-lavoro” pronte per l’uso, scaricare ogni stortura del sistema sul singolo, considerato “imprenditore di se stesso”, responsabile dell’investimento del proprio valore-capitale e dunque anche dei suoi eventuali fallimenti, vissuti come un problema personale [14].

È nel concetto di “capitale umano” coniato dai neoliberisti che va probabilmente ricercata una delle radici di questo sistema che riesce ad affermare la propria logica monistica creando il gioco prospettico dell’“infinita pluralità”, che piega l’intera realtà alla propria autoriproduzione generando nello stesso tempo l’“evento della spontaneità” (l’“istant-mob” è solo una delle pratiche che testimoniano di questa “ontologia migrante” del capitalismo, che tanto bene si sposa con quella post-modernista). Purtroppo il discorso, seppur vitale, trasborda dai limiti qui concessici. Vogliamo ricordare tuttavia il punto di svolta, collocabile nel passaggio dalla concezione tradizionale propria dell’economia classica (da Smith a Marx), che considerava il lavoro un’attività astratta, scambiabile come una merce e calcolabile in base all’unità di tempo, al concetto di risorsa umana dove invece è la persona nella sua interezza, dalle competenze professionali fino al suo corredo genetico passando per il suo aspetto fisico, a costituire un capitale da investire [15]. Le conseguenze di questa trasformazione epistemologica sono radicali ed è assai probabile che ancora non riusciamo a coglierne la portata. Se il salario non è più il prezzo di uno scambio, ma il frutto di un investimento, il consumo non servirà più a soddisfare un bisogno, ma a realizzareun rendimento. Da portatore di bisogni, legato a un ordine naturale razionalizzato dal processo dello “scambio” – dominato dal criterio ancora “umanistico” dell’utilità –, l’uomo, in quanto “manager di se stesso”, diventa il produttore della propria individualità nel consumo (considerandosi come un “cosa” da migliorare); in quanto “capitale” investito, invece, diventa una risorsa da accumulare (ossia “mezzo di produzione” sul quale investire per rientrare nel ciclo produttivo del Capitale). Il capitalismo arriva così al suo (presumibile) ultimo stadio: da sistema economico ancorato ad un ordine naturale – per quanto socialmente determinato e culturalmente mediato; da mezzo – per quanto complesso ed articolato – di soddisfacimento di bisogni; da strumento particolare di un limitato ambito della vita – riguardante la riproduzione materiale dell’esistenza individuale e collettiva –, esso diviene una totalità compiutamente autoreferenziale, dotato della capacità di produrre il genere di uomo di cui abbisogna: un “uomo-risorsa”, una funzione-individuo che, nel produrre se stesso, riproduce l’intero sistema capitalistico. Rispetto alla logica della sfera pubblica il passaggio è eclatante: mentre per instaurare uno spazio pubblico, relazionale e trans-soggettivo, si è costretti ad inter-agire e parlare con gli altri, lo spazio socializzato del consumo abbisogna soltanto di individui la cui unica forma di relazione sia costituita da transazioni, solo che – questa è la radicale novità – oggi è lo stesso essere umano a presentarsi come la merce più desiderabile. Più precisamente: è l’essere dell’uomo a costituire una merce intesa come qualche cosa di continuamente “migliorabile”, modificabile a piacimento attraverso gli strumenti messi a disposizione dal mercato. Un essere, quindi, che può sempre venir condotto “oltre se stesso”, fino, perché no, a tramutarsi in qualcos’altro. (Non a caso, grazie alle sempre nuove frontiere della ricerca genetica, la prospettiva di una post-umanità ormai non è più solo l’innocuo vagheggiamento di qualche film di fantascienza. In quanto “capitale umano”, infatti, l’uomo è anche un mezzo di produzione su cui concentrare gli investimenti di una economia la cui forza motrice risiede nell’innovazione tecnica. Come si vede, abbiamo davanti un orizzonte incommensurabile rispetto a quello del vecchio umanesimo, per il quale la perfettibilità umana era un concetto morale e civico, limitato dall’esistenza delle sfere del divino, della natura e dello Stato). La colonizzazione economica del mondo della vita diventa così un fatto compiuto. L’alienazione non riguarda più solo l’attività lavorativa – come ancora poteva credere Marx – , ma diventa uno stato normale dell’intera esistenza, eterodiretta dal mercato e subordinata a logiche economiche. (Paradossalmente, anzi, l’alienazione è vissuta dall’uomo odierno assai più intensamente nella sfera intima e privata, mentre la residuale possibilità di socializzazione presente nel lavoro diventa, a paragone della radicale solitudine del consumatore, qualcosa di desiderabile [16] ). L’economia cessa così di essere un semplice ambito di un sistema sociale più complesso, in cui trova posto una pluralità di logiche e linguaggi per diventare un sistema totale e totalizzante, capace di assorbire e riprodurre la società nella sua interezza: una società, ovviamente, a misura capitale, ossia una fonte inesauribile di “risorse umane”.

Capitale (macchina psicorganica) da consumare nei processi produttivi; corpo da modificare a seconda delle esigenze del mercato (cosa infinitamente manipolabile); “psiche” di cui prendersi cura in tutte le “tecnologie del sé” reclamizzate dai vari professionisti del benessere; lavoratore “liberalizzato” nei suoi diritti sociali (risorsa da sfruttare a piacimento): l’uomo di oggi sta letteralmente diventando una “cosa”, il mezzo privilegiato dell’autoproduzione del sistema, il suo corpo e la sua mente la principale posta in gioco delle innovazioni tecnologiche e degli investimenti dello sviluppo capitalistico. Non credo serva a questo punto notare come il processo di reificazione in atto in ogni ambito dell’esistenza – un processo che trasferisce all’“esterno” dell’uomo quelle virtù rigenerative che, fin dalla scoperta platonica dell’anima, erano state attribuite alle risorse dell’interiorità e alla funzione pedagogica della sfera pubblica – coinvolga non solo i “maschi”, ma anche le donne. Pur valido in una certa fase storica e senz’altro capace di fornire ancora efficaci strumenti di lotta e di autoconsapevolezza alle donne che, ancora in tanti Paesi del mondo, versano in un drammatico stato di oppressione ed inferiorità17, il femminismo occidentale, centrato sulla decostruzione dell’ordine fallocentrico, conferma tuttavia l’inadeguatezza dei propri strumenti analitici di afferrare le dinamiche del capitalismo avanzato. A ben poco, infatti, servirebbe imputare le conseguenze reificanti di questo sistema alla logica fallogocentrica da cui (verosimilmente) è stato generato – quasi che il capitalismo fosse interpretabile solo come la proiezione della medesima logica che da millenni costringe le donne al rango di “oggetti” legittimandone le strategie di smantellamento e liquidazione di ogni universale. Posti davanti al rischio della sua perdita definitiva, forse solo oggi siamo in grado di cogliere i potenti effetti performativi di quell’ideale universale negato dalle più radicali speculazioni femministe: il genere umano. Siamo convinti che, oggi come oggi, anche la battaglia per la liberazione di un’“autenticità” femminile dipenda da quella contro la reificazione capitalistica degli esseri umani. Ma, per questo stesso motivo, riteniamo anche che un “pensiero femminile” dovrebbe ripartire dalla donna intesa come rappresentante e custode del genere umano18e non, come qualche scrittrice femminista propose una volta, dall’“utopia ironica” di una avveniristica post-società di cyborg19, quasi che la perdita dell’umanità non riguardasse quanto vi è di più autentico nell’essere stesso delle donne.

*Eugenia Lamedica è Dottore di ricerca in Filosofia con una tesi su “Hannah Arendt e il repubblicanismo” e ha scritto contributi per le seguenti opere:

-AA.VV. (in collaborazione con l’Istituto Storia della Resistenza di Treviso Istresco), L’anarchico di Mel e altre storie, Cierre ed., Sommacampagna 2003
-AA.VV., L’ altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico. Vol. 2: Il sistema e i movimenti (Europa 1945-1989), Jaca Book, 2011

NOTE

1 Un eccellente sunto storico-teoretico del femminismo si trova in Adriana Cavarero e Franco Restaino, Le filosofie femminite. Due secoli di battaglie teoriche e pratiche, Bruno Mondadori, Milano 2002.

2 Ricordiamo che il femminismo contemporaneo si scinde tra femminismo che rimane legato all’orizzonte emancipazionista, mirante a integrare la donna nell’ordine universale ed egalitario della democrazia, e femminismo che invece se ne distacca, facendo della differenza sessuale l’arma con cui decostruire – e, in fin dei conti, liquidare – l’intero ordine universalistico in quanto proiezione fallocentrica. Per una delucidazione di questa differenza cfr. sempre A. Cavarero Il pensiero femminista. Un approccio teoretico, in A. Cavarero e F. Restaino Le filosofie femministe…, op. cit. p. 90). È questo progetto che, davanti all’epistemologia disgregante del capitalismo, secondo noi si rivela decisamente fallimentare.

3 Terry Eagleton, Le illusioni del post modernismo, Editori Riuniti, Roma 1998.

4 Michel Foucault, Nascita della bipolitica, Feltrinelli, Milano 2005, p. 195.

5 Ludwig Von Mises, Lo stato onnipotente. La nascita dello stato totale e della guerra totale, Rusconi, Milano 1995. Per il rapporto stato/mercato nel pensiero neoliberale si veda anche Milton Friedman, Capitalismo e Libertà, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1997. Un’eccellente analisi del neoliberalismo si trova in Michel Foucault, Nascita della …, op. cit. pp. 176-258.

6 Zygmunt Baumann, La società individualizzata, il Mulino, Bologna 2002, p. 37.

7 Ivi, p. 50.

8 Per un’analisi delle ricadute sociologiche e psicologiche del nuovo capitalismo trans-nazionale, si consiglia la lettura delle opere di Baumann.

9 Ovvero la contraddizione tra uguaglianza formale e disuguaglianza materiale mascherata dall’apparente simmetria dello scambio salario/lavoro (per il quale cfr. Il capitale, prima sezione, “merce e denaro”).

10 Non facciamoci illusioni, infatti: il potere che oggi chiede a gran voce la deregolamentazione dei mercati europei è lo stesso che sfrutta la mano d’opera a basso costo di Paesi che, privi di solide tradizioni statali come è – tra un po’ bisognerà dire “era” – l’Europa, non hanno bisogno di de-regolamentare alcunché, in quanto sono già privi di regole [leggi: di qualunque tutela sociale – A questo proposito si consiglia la lettura dell’ancora validissimo No Logo di Naomi Klein]. È assai probabile che una divisione in classi di reddito trans-nazionale stia soppiantando la tradizionale divisione tra “terzo mondo” e “Occidente” a cui, nel tentativo di salvaguardare la nostra illusoria sicurezza, ci eravamo appigliati come a una verità a-storica.

11 Un’“affascinante” analogia tra le tecniche di tortura per de-condizionare la mente umana e i disastri e guerre visti come strumento per de-regolamentare i mercati (e neutralizzare gli Stati) si trova in Naomi Klein, Shock Economy. L’ascesa del capitalismo dei disastri, Rizzoli, Milano 2007.

12 Per una brillante analisi dell’utilizzo ideologico e strumentale delle storie, penetrato da qualche anno in tutti i settori (politica, guerra, marketing, economia), si rimanda a Christian Salmon, Storytelling. La fabbrica delle storie, Fazi Editore, Roma 2008.

13 Un corpo è “dove c’è qualche cosa da fare” scriveva Merlau-Ponty nella sua Fenomenologia della percezione. L’attenzione batte più sull’intenzionalità della prassi che non sulla passività della narrazione (la quale è per natura retrospettiva). Il cambiamento del punto di vista non è “neutro” ma dipende dal nostro modo di “essere” nella realtà.

14 Per una bella analisi delle ricadute sociologiche della strategia “individualizzante” del capitale si rimanda alle belle analisi di Baumann in La società individualizzata …, op. cit.

15 Si veda a questo proposito Michel Foucault, La nascita della…, op. cit. pp. 176-193.

16 Si potrebbe dire che l’alienazione non è più quella dell’uomo da se stesso, ma quella dell’uomo dal mondo inteso come l’infra relazionale che sta “tra” le persone allorquando interagiscono tra loro comunicativamente. È stata Hannah Arendt che, contestando il corrispettivo concetto marxiano, propose il calzante concetto di “alienazione dal mondo” per caratterizzare la condizione dell’uomo nella società del consumo di massa (cfr. Hannah Arendt, Vita Activa, Bompiani, Milano 1964).

17 Il femminismo infatti è in larga parte costituito da “pratiche” la cui efficacia è costituita dalla capacità di promuovere consapevolezza di sé e partecipazione da parte delle donne. Ciò tuttavia non toglie che la grande produzione teoretica femminista, soprattutto a partire dagli anni ’70, legittimi una critica sul piano “categoriale”.

18 Che è poi quanto faceva Simone de Beauvoir allorché scriveva: “Il dramma della donna consiste nel conflitto tra la rivendicazione fondamentale di ogni soggetto che si pone sempre come essenziale e le esigenze di una situazione che fa di lei un inessenziale. Data questa sua condizione, in che modo potrà realizzarsi come essere umano?” (S. de Beauvoir, Donna non si nasce, lo si diventa (1949), in A. Cavarero e F. Restaino, Le filosofie femministe…, op. cit. p. 138). È il “femminismo radicale” degli anni ’60-’70 che inverte la tendenza, negando la legittimità dell’universalismo (cfr. nota 2).

19 Donna J. Haraway, Ormai siamo tutti/e cyborgs (1985), in . Cavarero e F. Restaino, Le filosofie femministe…, op. cit. pp. 202-204.