A propostito della relazione tra marxismo e keynesisimo

di Giuseppe Amata

Ho ascoltato la registrazione della presentazione del libro di Fabio Massimo Parenti “La via cinese”. Discussione molto interessante. La mia attenzione si è soffermata in particolare sull’affermazione di Fabio M. Parenti che la Cina non vede in contraddizione marxismo e keynesismo. Al riguardo Toni Massara ha posto un’interessante domanda di approfondimento di tale argomento.


La mia opinione al riguardo l’ho esposta nel libro “Il capitalismo e le crisi” (Aracne, 2013) e se non vi annoio vi allego il seguente brano dedicato all’argomento: 

Specificatamente nel breve periodo, per quanto concerne l’evoluzione del rapporto pubblico-privato, assecondando la tendenza innescata trent’anni addietro, si rischia di andare in un vicolo cieco, come la Grecia attesta, facendo manovre economico-finanziarie in continuazione che sconvolgono il tessuto sociale e portano ad un impoverimento generale.

Al contrario, per programmare il superamento della crisi e lo sviluppo economico-sociale, bisognerebbe rilanciare immediatamente l’intervento pubblico e la sua funzione imprenditoriale, con un’ottica però diversa rispetto al passato, per evitare corruzione e burocraticismo dei tempi andati (basti pensare alle tangenti sulle commesse pubbliche ed alle bustarelle per velocizzare le operazioni quotidiane!). Nel rapporto pubblico-privato, in sostanza, a mio modesto avviso, bisogna saper coniugare tre esigenze:

a) analizzare attentamente il decorso dei rapporti di produzione e finalizzarli secondo un piano determinato;

b) attuare una politica economica, basata prioritariamente sulla nazionalizzazione delle grandi banche, ed una politica fiscale, basata sull’equa distribuzione dei redditi, attraverso l’imposizione di una patrimoniale progressiva sulle grandi ricchezze;

c) manovrare attentamente le categorie economiche e finanziarie secondo le priorità macro-economiche e saperle assumere come indicatori per i quesiti di valutazione;

d) imporre a livello europeo la modifica dello statuto della Banca centrale europea, affinché essa svolga la funzione di Banca centrale sotto controllo pubblico; diversamente si pone il problema per l’Italia e per altri paesi mediterranei di uscire dall’euro e di creare una nuova moneta, secondo una recente proposta di alcuni studiosi che merita attenzione (94).

Non si può pensare di risolvere la crisi, come già aveva scritto Keynes, diminuendo la domanda effettiva, per come sta avvenendo da molti anni nei principali paesi capitalistici col precipitare dei salari degli operai, dei redditi degli impiegati e degli stessi profitti delle piccole e medie aziende; mentre si incrementano enormemente i profitti delle multinazionali e le rendite finanziarie e si va alla ricerca illusoria del pareggio di bilancio. Per attenuare l’altezza delle onde cicliche nel modo di produzione capitalistico e secondo le leggi di funzionamento di questo modo di produzione, la storia attesta che non sono state sperimentate altre proposte alternative. Ma Keynes non è sufficiente, sia alla spiegazione, come già detto, delle cause delle crisi del modo capitalistico di produzione, sia per la risoluzione di questa specifica crisi di sistema. I limiti del pensiero keynesiano, pur con tutti gli aspetti interessanti sull’evoluzione del ciclo economico, sono due:

a) il primo, è rappresentato dal fatto che esso, in senso lato, non è in sintonia con le leggi che regolano le condizioni naturali d’esistenza; infatti, moltiplicando gli investimenti si possono aumentare sia occupazione che domanda effettiva, ma si aumenta pure l’inquinamento per i principi della termodinamica insiti in ogni processo di trasformazione; e l’attività economica, prima ancora di essere contabilità tra ricavi e costi, è un processo di trasformazione (da estrazione e lavorazione di materie prime a prodotto finito collocato nei diversi mercati);

b) il secondo, è rappresentato dal fatto che esso è predisposto considerando immutabile l’attuale modo di produzione.

Ed invece si può uscire definitivamente dal pericolo sempre incombente delle crisi economiche, attraverso l’avvio del processo di trasformazione del modo capitalistico di produzione. Ed in tal senso la teoria che può guidare il processo di trasformazione è quella di Marx e di Lenin. Tutto l’impianto teorico che comunemente si definisce marxismo e leninismo deve essere approfondito creativamente col variare delle fasi storiche, perché ha enunciato le leggi di contraddizioni e di movimento, considerando il MCP storicamente determinato, come tutti i precedenti modi di produzione attestati dallo sviluppo storico.

Solo così possiamo arricchire la teoria economica per capire e far crescere lo sviluppo economico e sociale, in accordo con i principi della biologia evoluzionistica e della termodinamica. Subordinato al pensiero marxista-leninista che ha scoperto le leggi di funzionamento del capitalismo ed il processo di trasformazione in direzione di una formazione sociale socialista, il pensiero keynesiano può essere utile nel breve periodo in riferimento all’andamento del ciclo anche per una società avviata alla trasformazione e che riflette nella prima fase ancora le leggi della precedente società. In tal senso desidero elencare tre pilastri del pensiero keynesiano che ritengo utili:

a) la funzione del capitale d’investimento, prioritaria rispetto a quella finanziaria-speculativa;

b) la politica per l’occupazione e per livelli salariali non al minimo della sussistenza (e per realizzare questi due pilastri è fondamentale la politica economica statale);

c) una politica monetaria che stimoli il commercio internazionale, fondata su una nuova valuta internazionale di conto; ed infatti, come già detto, alla vigilia di Bretton Woods, Keynes, aveva proposto un nuovo sistema monetario internazionale, fondato sul Bancor (moneta di conto e non di riserva di liquidità) che accrescesse il commercio ed impedisse la speculazione finanziaria (tutte cose che si sono avute invece con il dollar standard e la supremazia americana sancita a Bretton Woods e poi realizzata con l’istituzione del Fondo monetario internazionale e con la Banca mondiale).

Poiché per realizzare una formazione sociale socialista occorre un lungo periodo storico (come lo è stato del resto per l’affermazione del capitalismo sul feudalesimo), per non cadere nel dogmatismo e nel verbalismo esasperato fondato solo sulle intenzioni senza comprendere la realtà, consideriamo per facilità espositiva tutti i paesi che si definiscono socialisti (e sono tanti al mondo, nonostante il crollo dell’Urss e dell’est europeo) come formazioni sociali di transizione tra il modo capitalistico di produzione ed un nuovo modo di produzione socialistico che ancora non è stato pienamente realizzato. Questa affermazione la ritengo utile per evitare di cadere nel dogmatismo, come fanno molti studiosi e molte forze politiche che a parole si richiamano al marxismo-leninismo ed attribuiscono alla Cina la qualifica di paese capitalistico.

Se la Cina fosse un paese capitalistico, in una situazione di crisi generale del capitalismo, non potrebbe avere un elevato livello di sviluppo delle forze produttive. Non c’è legge dello sviluppo economico diseguale del capitalismo (come sostengono questi studiosi e queste forze politiche per spiegare l’avanzamento economico della Cina) che lo permetta ininterrottamente da trent’anni. Un paese opposto alla Cina, cioè l’India, è vero che sta avendo solo da alcuni anni un incremento della produzione, in seguito alla legge dello sviluppo economico diseguale tra paesi capitalistici, ma non sta avendo uno sviluppo generalizzato delle forze produttive, perché la principale di queste forze, l’uomo, è in costante miseria, e vive a livello della sussistenza, senza assistenza sociale e sanitaria e senza arricchimento culturale (ecco perché non si può dire, a differenza della Cina, che in India vi sia stato un grande sviluppo delle forze produttive).

Poniamoci un’altra domanda: la Cina vince secondo altri studiosi e tanti politici, almeno nell’immediato, solo per una scelta di favorire con abile pragmatismo dei suoi dirigenti il capitalismo “buono”, quello produttivo ed emarginare quello speculativo?

Non mi pare che le cose stiano così. Né d’altra parte, penso, che siano le scelte pratiche di volta in volta adottate dal governo cinese, senza un riferimento teorico, a far avanzare la crescita della Cina. I documenti ufficiali smentiscono questo presupposto, anzi nelle risoluzioni finali del XVII e XVIII Congresso del PCC si sostiene che, il modello cinese rappresenta un riferimento teorico, quale sviluppo del marximo-leninismo e del pensiero di Mao nella realtà specifica della Cina, ed un riferimento pratico, valido non solo per la Cina bensì per altri paesi ad indirizzo socialista, che debbano avviare non soltanto un processo di socializzazione, ma anche di modernizzazione dell’economia. Perché, diversamente, un socialismo egualitario in una situazione di basso sviluppo delle forze produttive, hanno detto tante volte i dirigenti cinesi richiamandosi alla teoria di Deng, non può essere né un motivo di attrazione per altri popoli né una forza competitiva con l’imperialismo.

La mia modesta convinzione è che il modello socialista dell’epoca di Mao, fondato sull’egualitarismo, ha avuto un grande significato per far uscire la Cina dalla dipendenza dal colonialismo, dal neo-colonialismo occidentale e soprattutto dal modello sovietico che l’avrebbe diversamente vincolata in un rapporto letale, come i paesi dell’est europeo, e per iniziare una vera rivoluzione di trasformazione socialista. Le successive scelte economiche, alcune però molto discutibili a mio avviso, in ogni caso non hanno rappresentato solo una funzione pratica, adattabile di volta in volta. Spesso è stato cosi, secondo il principio di ricercare la verità nei fatti, ma la ricerca di questa verità è stata sempre giustificata da un’analisi teorica impegnata a coniugare creativamente il marxismo, il leninismo, il pensiero di Mao e la teoria di Deng (che in senso lato, come ha attentamente analizzato e discusso in profondità Domenico Losurdo (95), riprende alcune tesi di Bucharin) con l’evoluzione del contesto economico internazionale e quindi delle relazioni della Cina con il mondo e con il ciclo capitalistico. Pertanto, per capire l’andamento del ciclo economico, lo studio del pensiero di Keynes era un atto dovuto. E mi spiego meglio per non creare equivoci sul verbo coniugare (direbbero i cattolici, in questo caso, è come coniugare il diavolo con l’acqua santa!).

I dirigenti cinesi conoscono molto bene le leggi del capitalismo, non solo a livello teorico per il marxismo-leninismo che hanno studiato, ma per la pratica che vivono nelle loro relazioni con le grandi potenze capitalistiche. E conoscono anche il punto di vista di tutte le cosiddette scuole economiche capitalistiche (marginalista, monetarista, keynesiana, post-keynesiana, neo-monetarista e neo-liberista) e soprattutto conoscono le scuole dei grandi banchieri che non si richiamano ad alcuna teoria e fanno circolare la moneta in misura maggiore o minore secondo un dato contesto e per realizzare profitti o plusvalenze; nonché conoscono le dottrine organizzative e gestionali che formano i manager per dirigere i grandi impianti industriali e finanziari. Sanno altresì che operano in una società di transizione e prevedono di realizzare la società socialista entro il 2050. Quindi devono convivere con un’economia che presenta aspetti del nuovo modo di produzione che si vuole realizzare ed aspetti del vecchio modo capitalistico che ancora si conserva. Solo che questo modo capitalistico in Cina non è governato, come al tempo di Marx dalle ferree leggi coercitive della concorrenza, né dagli interessi e dalla mobilità del capitale finanziario (come dal tempo di Lenin ai nostri giorni in tutti i paesi imperialistici), bensì è governato dalla funzione dirigente del partito comunista, il quale per governare deve conoscere le leggi di sviluppo del capitalismo e della sua gestione (ecco l’importanza della conoscenza del keynesismo!) e quindi deve assoggettare quanto di capitalistico esiste in Cina alla direzione di marcia imposta dal piano quinquennale, tramite gli organi della dittatura democratico-popolare. Ecco perché in Cina gli apparati statuali e la funzione dirigente del partito vengono rafforzati e si respingono sdegnosamente tutte le pressioni dall’esterno ed anche tutti i timidi tentativi che sono scaturiti dall’interno di importare modelli occidentali di “democrazia” e di governo dello Stato.

In Cina, è avvenuto il contrario di quanto accaduto nell’URSS e nell’est europeo con le riforme dagli anni ’60 agli anni ‘80, le quali sono fallite fino a portare al fallimento gli stessi Stati, perché erano basate sia sull’autonomia, non solo economica ma anche politica, delle aziende, sia sul ridimensionamento del ruolo dirigente del partito comunista fino al suo annullamento. Ed infatti il partito comunista sovietico, da organo burocratico nell’epoca di Breznev, si disgregava anche come organo nell’epoca di Gorbacev, perdendo il controllo politico degli apparati statali delle diverse repubbliche e dell’Esercito, che a loro volta, nello svincolarsi dalla direzione del Partito, si dividevano secondo gli interessi locali delle caste dirigenti.

Quanto detto sulla Cina non significa che in questo paese le contraddizioni sociali non esistono o che non esiste la lotta di classe. Esse esistono e si manifestano su un piano diverso rispetto a come si conoscono in Occidente e fino a questo momento il partito comunista si è dimostrato abile nel saperle governare, tant’è che gli attuali dirigenti eletti dal XVIII Congresso ritengono eccessivo il divario sociale tra gli strati più agiati (borghesia privata e manager pubblici, per usare il nostro linguaggio), da un lato, e la classe lavoratrice e soprattutto le masse rurali di circa 700 milioni d’abitanti che vivono nelle campagne, dall’altro; pertanto, tale divario deve essere corretto immediatamente. Al riguardo nel piano quinquennale si indicano le misure che dovranno essere attuate entro il 2016: aumento degli investimenti nel settore centro-ovest del paese e nelle campagne, per alzare i bassi redditi di quelle popolazioni ed i livelli di consumo, assicurando a tutti innanzitutto i servizi sociali fondamentali, quali l’assistenza sanitaria, l’istruzione, l’informazione e l’alloggio. L’obiettivo è di ridurre entro il 2020 le differenze sociali ed il divario città-campagna.

Quindi, si diceva, marxismo-leninismo e keynesismo convivono in Cina in una divisione di compiti: il primo, come pensiero dirigente, serve ad analizzare l’analisi concreta della situazione concreta, come l’analisi delle classi, l’individuazione delle forze sociali che devono portare avanti compiti specifici, la condizione materiale che si evince dalla relazione rapporti di produzione-forze produttive, l’elevazione del livello scientifico, culturale, ideologico dei quadri per fissare gli obiettivi strategici da raggiungere; il secondo, come pensiero coadiuvante, serve a governare l’economia (rafforzamento delle scelte macro-economiche rispetto a quelle delle singole unità di produzione) in relazione alle diverse fasi del ciclo, non solo interno, ma soprattutto internazionale, per i riflessi che esso determina all’interno, considerando che l’economia cinese è un’economia socialista, ma di mercato e pertanto subisce l’influenza dell’economia mondiale