Note sulla questione comunista in Italia. Intervento di Fausto Sorini

Credo che abbia fatto bene Marco Pondrelli, direttore del nostro sito, ad aprire con un editoriale il dibattito sulla questione comunista, con una particolare attenzione all’Italia. Perchè se è vero – come scrive – che “oggi nell’Unione europea la forza dei comunisti è marginale, … se guardiamo al caso italiano la situazione è ancora peggiore, desolante” e “di scissione in scissione oramai gli iscritti ed i militanti dei tanti partiti sono sempre meno e i gruppi dirigenti sono sempre più litigiosi e lontani dal mondo del lavoro”, privi di autentico radicamento nella società e nei luoghi del conflitto sociale.

Sappiamo bene che le ragioni più profonde di questa situazione, nel Paese che pure fu patria del partito di Gramsci, di Togliatti, di Longo, di Secchia, vengono da lontano e rimandano ai processi degenerativi insiti nella “mutazione genetica” del PCI, nella sua dissoluzione, nella incapacità dei gruppi dirigenti sorti dopo la fine del PCI di ricostruire una forza comunista anche piccola nelle sue dimensioni, ma solida ed espansiva, relativamente omogenea sul piano ideologico, della collocazione internazionale, della concezione dell’organizzazione, espressione dei settori di avanguardia del mondo del lavoro, dei giovani, degli intellettuali (cioè leninista non solo a parole).

A oltre 30 anni dalla fine del PCI – essendo pure stati alcuni di noi protagonisti di esperienze che risalgono già agli anni ’70 del secolo scorso (Interstampa nel PCI, l’Ernesto in Rifondazione, MarxXXI prima serie nel PdCI) – possiamo dire responsabilmente che tutti questi tentativi sono falliti o sono stati sconfitti: sia per limiti soggettivi interni a loro stessi, sia per una inferiorità troppo grande nei rapporti di forza con chi è sceso in campo per osteggiarli, dall’interno e dall’esterno.

Negli ultimi mesi, a partire dal 24 febbraio 2022, si sono manifestati eventi dirompenti che stanno cambiando gli assetti del mondo. Si è evidenziata una guerra che va ben oltre la vicenda ucraina; essa investe lo scontro planetario tra i fautori di un sistema multipolare che tenga conto di come il mondo è cambiato nell’ultimo mezzo secolo, e quanti invece si collocano dalla parte sbagliata della storia e vorrebbero perpetuare un dominio unipolare imperialista, imperniato sugli Usa e sulla Nato. Questo scontro non finirà col cessate il fuoco del conflitto in Ucraina; esso proseguirà in forme oggi non prevedibili lungo tutto l’arco del 21° secolo, e oltre.

Sul piano dell’analisi (e quindi dell’azione politica) i problemi che ci stanno di fronte penso che possano sinteticamente essere così descritti:

1-comprendere le ragioni di fondo che hanno segnato l’insuccesso delle esperienze comuniste seguite allo scioglimento del PCI. E con esse, anche quali tratti deteriori dell’ultimo PCI (e della “nuova sinistra”) si sono riversati in quelle minandole sin dalle origini. Sembra che quel lavoro di analisi storica-politica sia già stato fatto, ma per lo più non è così.

Ha scritto bene Aginform nel suo intervento: “Il dibattito sul motivo di questi fallimenti non si è mai aperto in quanto ci si è limitati a scambi di invettive e diatribe che non hanno però sciolto i nodi. La ragione di questo fallimento è legata soprattutto al fatto che si sono mantenute separate le due opzioni, riorganizzazione politica da una parte, cioè il partito dei princìpi, e movimento reale dall’altra”.

Mi riprometto di ritornarci in un’altra occasione in modo analitico e mi auguro che anche altri vi contribuiscano (1).

2-Analizzare e censire (anche territorialmente), con spirito scientifico e non propagandistico, qual’è la realtà dei comunisti, organizzati e non, presenti oggi in Italia, e quali sono i loro orientamenti e collocazioni. Cercando di capire che tipo di militanti sono, la loro età, la loro cultura politica, il tipo di radicamento sociale e popolare che essi esprimono (o non esprimono) nelle rispettive realtà.

Questo lavoro non va fatto con lo sguardo rivolto all’indietro, dominato dalla nostalgia dei bei tempi che furono per i comunisti in Italia. Non ne faccio una questione di età, ma di cultura politica e di capacità di comprensione delle novità del mondo d’oggi, che ci costringono ad elaborare una visione del processo storico-politico di avanzata al socialismo nel 21° secolo (prima di tutto nel mondo; e di conseguenza in Italia) in termini assai diversi da quelli del secolo scorso. Per cui qualsivoglia “nostalgia del futuro”, per poter essere produttiva, deve collocarsi dentro una visione razionale e oggettiva del mondo di oggi, rifuggendo da qualsivoglia romanticismo rivoluzionario autoreferenziale, soggettivista, meramente rituale o simbolico (2).

3-Individuare un percorso (che non sia quello della moltiplicazione dei partitini autoreferenziali e ininfluenti) che – sulla base di una piattaforma relativamente omogenea sui fondamentali e di una analisi non propagandistica dell’Italia e del mondo di oggi – possa facilitare un processo di aggregazione non eclettico e di corto respiro. E possa quindi creare i presupposti per la formazione di un nucleo dirigente riconosciuto come tale non solo dagli adepti del proprio clan: qualcosa che assomigli, tutto concesso alle diversità delle situazioni, a quello che fu l’Ordine Nuovo (che nacque alcuni anni prima del 1921) nel processo di formazione del PCd’I. E nel quale erano i migliori quadri operai delle fabbriche torinesi a riconoscere nell’Ordine Nuovo un punto di riferimento e a legittimarlo come tale.

Tale progetto a mio parere non può essere a breve termine un processo di costituente partitica (non ne vedo oggi le condizioni), ma qualcosa di preliminare: più profondo, più solido e per questo anche più lungo. Un processo che non avvenga come un esperimento in vitro, sganciato dai processi reali dell’Italia di oggi, ma che si immerga in essi, che ne sia parte; senza chiusure settarie nel rapporto con ciò che di progressivo o potenzialmente tale si muove nella società italiana e che su tali processi cerchi di influire positivamente. Un processo cioè che non esista solo nella nostra immaginazione (3).

Mi riconosco a tale proposito, nelle parole di Luca Cangemi, che nel suo intervento scrive: “In altre occasioni, anche su Marx21, ho discusso della costruzione di “Fronti” come tratto caratterizzante dell’azione di tanti Partiti Comunisti in situazioni anche assai diverse l’una dall’altra e dei risultati conseguiti; non riprendo qui il discorso, sottolineo che si tratta di una discussione sempre più urgente”. E a proposito di immersione nei processi reali, scrive: “la vertenza della GKN che è divenuta un riferimento, e le mobilitazioni degli studenti contro l’alternanza scuola lavoro, ci danno indicazioni precise”.

“Non abbiamo avuto – scrive ancora Cangemi – quello che potevamo chiedere a questo centenario, cioè l’occasione per un salto di qualità nella ricollocazione della storia dei comunisti in Italia, una nuova attenzione agli strumenti teorico-politici del movimento comunista riferiti alla società di oggi e più in generale un dibattito che forzasse, almeno un po’, i limiti assai angusti in cui sono costretti i comunisti in questo paese. Appunto elementi di controtendenza che senza aspettarci eventi salvifici aprissero squarci in una situazione desolante”.

“Bisogna (ri)provarci – conclude Cangemi-. Bisogna soprattutto, a mio parere, istruire un lavoro che permetta alle forze intellettuali disponibili e in particolare a quelle giovani che – direi persino sorprendentemente vista la situazione – esistono, di condurre un’opera di approfondimento e anche di battaglia culturale in luoghi formali e informali, sociali e culturali. Un’opera articolata e aperta ma non eclettica, un’opera “generale” ma non estranea ai punti brucianti della lotta politica e sociale. Un lavoro di questo genere si dovrebbe porre anche il problema di una presenza nella rete e negli strumenti informativi disponibili. Le riviste attive, a partire da Marx21, possono essere strumenti da cui partire per questo lavoro senza il quale ogni forma di razionale (uso volutamente questo termine minimale) relazione/collocazione politica è impossibile; frammentazione e marginalità non possono essere superate volontaristicamente, anzi ogni tentativo non meditato rischia di determinare ulteriori lacerazioni”.

Ha scritto bene in proposito Francesco Maringiò: “volgendo lo sguardo al nostro paese, si avverte la debolezza strutturale delle forze comuniste e di alternativa nel fornire una risposta strategica alla crisi in corso e nel raccogliere sufficiente massa critica nella società, in grado di incidere concretamente nei processi reali e di classe del nostro paese. L’auspicio è che si superi questa fase di frammentazione e competizione nella costruzione di un fronte politico e sociale che faccia, della mobilitazione contro la nuova guerra fredda ed ibrida e nella difesa della Costituzione del ’48, l’impegno prioritario per una lunga stagione di lotta politica”.

Con parole diverse, ma analogamente, scrive Aginform nel suo intervento: “non si può ricostruire una organizzazione politica senza che questa esprima in modo organico le esigenze delle classi sociali di riferimento. Nei decenni trascorsi si è rimasti invece sul terreno di un ceto politico meticcio che esprimeva, e tuttora esprime, in maniera minoritaria, la sua velleitaria radicalizzazione. Oggi le vicende storiche sono mutate, ma la questione all’ordine del giorno è rimasta..: costruire una nicchia ideologica, e continuare a trastullarci col romanticismo ‘rivoluzionario’, oppure decidersi a dar vita a una nuova organizzazione politica che raccolga le forze in campo e ne sia espressione nella lotta quotidiana per la trasformazione dei rapporti sociali?”.

Anche “per riorganizzare una forza comunista si deve prescindere dal metodo identitario con cui ci si è mossi finora. Gruppi che si autoproclamano partiti, senza una storia che ne legittimi il ruolo e sganciati da un retroterra sociale, diventano solo nicchie… [che] non aiutano la ripresa che auspichiamo. Abbiamo bisogno invece per maturare questa ripresa di un ambito, non formale ma sostanziale, di transizione organizzata dove si ritrovino tutti quei comunisti che hanno voglia di confrontarsi e di lavorare non in modo propagandistico per un progetto comune e abbiano l’umiltà di confrontarsi e di andare alla verifica delle ipotesi”.

Credo che la priorità nell’attuale contesto italiano sia la costruzione di un Fronte politico e sociale costituzionale, su un programma minimo condiviso, ancorato innanzitutto all’attuazione rigorosa dell’art.11, all’interno del quale operino convintamente anche i comunisti, associati tra loro in forma non partitica, ma non per questo disorganizzata e inefficace (e ciò nonostante le loro attuali diverse collocazioni). Ciò è solo desiderabile e necessario o è anche possibile?

Tra le poche cose positive che sono emerse durante le votazioni dei grandi elettori al Quirinale, vi è sicuramente la convergenza di 62 voti sulla candidatura di Paolo Maddalena, un grande magistrato garante dei valori della Costituzione.

E’ stato un segnale importante e sarebbe bene se le forze che hanno promosso tale iniziativa, dentro e fuori il Parlamento, e più in generale tutte le forze che oggi esprimono contrarietà al coinvolgimento dell’Italia nella guerra della Nato contro la Russia (e la Cina…) si facessero promotrici – ognuna con la propria identità e senza velleitari fusionismi – della formazione degli embrioni di un Fronte costituzionale, su un programma minimo condiviso (pace, democrazia, stato sociale, antiliberismo) capace, sia in Parlamento che nel Paese, di allargarsi alle più larghe adesioni. Coinvolgendo il mondo del lavoro, i giovani, i migliori esponenti del mondo della cultura, dell’arte, dello sport (con un approccio popolare, non elitario), del sindacalismo, e tutti i centri di aggregazione che variamente si riconoscano nel programma della Costituzione. Come quelli, tra gli altri, che ad esempio si sono manifestati nell’iniziativa promossa da Santoro.

Il dramma dell’Italia, sul piano politico, è che manca una proposta politica al Paese – sufficientemente forte e credibile, e non meramente testimoniale – capace di promuovere una iniziativa politica in grado di incidere sui rapporti di forza reali e di ottenere risultati, anche parziali; facendo leva, con grande duttilità tattica, sulle contraddizione del campo avverso; bandendo ogni settarismo autoreferenziale o meramente rituale. Che cominci a trasformare il malessere sociale diffuso nel Paese in proposta politica, con una sponda nelle istituzioni e nel Parlamento; per farne tribuna che parli al Paese e ne organizzi la volontà di cambiamento.

Credo che questa sia anche l’unica via che rimane ai 5 Stelle se essi vogliono continuare a svolgere un ruolo anche solo genericamente progressista nella società italiana (e non diventare in permanenza una penosa appendice della linea Draghi, destinata all’autodistruzione). Ciò richiede che i 5S isolino le componenti ormai del tutto integrate come quelle che fanno capo a Di Maio e sappiano rilanciarsi a sinistra, all’opposizione della linea Draghi, possibilmente – se Conte saprà vincere le perduranti esitazioni – su una linea convergente con Di Battista: aperto alle altre componenti di sinistra degne di questo nome; aperto al movimento operaio, agli studenti, alle componenti meno arretrate del movimento sindacale, presenti anche all’interno della Cgil, ad un risorgente movimento studentesco, alle istanze rappresentate da chi si oppone alla guerra e al trascinamento dell’Italia nell’oltranzismo atlantico.

Un asse dunque che cerchi di recuperare almeno in parte le pur confuse istanze di cambiamento che il M5 Stelle rappresentava nella sua fase iniziale, ma su un piano di superiore maturità, aperto sul piano politico alla convergenza con tutte le componenti di sinistra (di ispirazione socialista e comunista), non integrate nelle compatibilità euro-atlantiche e liberiste del draghismo.

Un asse che si ricostruisca su un programma non già bolscevico (oggi certamente inattuale…) o meramente propagandistico, ma su una linea che si ispiri alle componenti programmatiche più avanzate della Costituzione. Un programma cioè al tempo stesso avanzato, ma di ispirazione nazionale, che parli all’insieme del Paese.

Non so dire se vi siano oggi tutte le condizioni soggettive perchè la formazione di questa sorta di Fronte costituzionale possa realizzarsi. Sicuramente ne esistono le condizione oggettive e di largo consenso potenziale in una parte importante del nostro popolo, ivi compresa una parte di delusi che si sono oggi rifugiati nell’astensionismo.

Credo che valga comunque la pena discuterne. E credo anche di poter dire che su alcune personalità politiche progressiste che godono tuttora nel Paese di un seguito e di un rispetto rilevante, gravino oggi grandi responsabilità.

Non penso certo all’ennesima operazione meramente elettoralistica senza futuro, ma ad una convergenza (certo, anche alle elezioni) di varie forze in un Fronte che potrebbe occupare uno spazio al riparo da un eventuale sbarramento del 5%, orientato a sinistra nel senso nobile del termine e che in prospettiva possa ampliare la sua capacità di attrazione. Ed anche rappresentare in Parlamento l’unica sponda politica ove le componenti migliori del movimento sindacale, le organizzazioni giovanili progressive, le componenti più avanzate del mondo cattolico impegnate contro la guerra, potrebbero trovare uno strumento su cui appoggiarsi. Quindi un Fronte connesso al conflitto sociale, strutturato sui territori e scevro da logiche meramente elettoralistiche. Un Fronte all’interno del quale una presenza comunista anche piccola, ma credibile e matura (tutta da ricostruire) possa svolgere – senza nulla togliere alla propria autonomia politica e organizzativa – una funzione unitaria, costruttiva, realistica, in sintonia col Paese reale. E che al tempo stesso, sappia tener viva tra i più, nella società italiana, nei conflitti sociali e nelle istituzioni, una visione mondiale e non propagandistica della prospettiva storica del socialismo, dentro un mondo multipolare che contrasti ogni logica imperialistica e di guerra. Tutto ciò, a partire dai valori e dalle indicazioni programmatiche della Costituzione repubblicana, che resta a tutt’oggi la bandiera al tempo stesso più unitaria e più avanzata su cui costruire l’avvenire. Questione comunista e questione del Fronte costituzionale, pur avendo le rispettive diversità e peculiarità, mai come oggi vanno intese come parti di un processo unico e unitario.

NOTE

(1)Si vedano ad es. a tale proposito: Alle origini della mutazione genetica del PCI e il libro Ricostruire il partito comunista (pagg. 256-269).

(2)Tra gli interventi pubblicati da Marx21 ho trovato assai interessante quello di Paolo Spena nella parte dedicata alla questione comunista nella sua dimensione generazionale (mentre divergenze profonde ci dividono nell’analisi internazionale). Ne cito alcuni passaggi, ma bisognerà ritornarci.

L’autore critica la concezione del “partito di consenso, di un partito “leggero”, tanto monolitico a parole quanto fluido ed eclettico nei fatti, costruito attorno alla comunicazione mediatica della singola figura del segretario, sulla base del richiamo identitario o di nuove strategie comunicative volte alla ricerca del consenso… Questa concezione [esprime] i limiti storici che hanno caratterizzato il processo della Rifondazione Comunista e degli altri partiti che hanno seguito lo scioglimento del PCI. Quelle operazioni politiche nascevano, innanzitutto, dalla consapevolezza che esisteva un “popolo comunista”, per usare un’espressione tanto cara ad Armando Cossutta, composto da quelli che si identificavano nel PCI, che non avevano accettato il suo scioglimento e avevano bisogno di un partito in cui riconoscersi. Si trattava di amministrare quell’area di consenso, di “riconquistarla” e darle dei riferimenti elettorali, capitalizzandone il peso con gruppi parlamentari, ministri, consiglieri regionali, assessori. Sia il PRC che il PdCI furono questo, ma non furono mai partiti di classe in senso proprio, cioè partiti che organizzavano i lavoratori e le loro avanguardie in quanto tali. Si pensava di poter ricostruire una forza comunista a partire da una affermazione di volontà, da un’autoproclamazione identitaria slegata dai processi reali che agivano sul terreno della lotta di classe, senza porsi il problema di costruire realmente il partito tra i lavoratori. Questa concezione, già errata decenni fa, si è trascinata fino ai nostri giorni.

La gioventù non ha aderito, e non poteva aderire a questa visione della costruzione del partito, per una consapevolezza dettata da fattori molto concreti e centrali nell’esperienza di questi anni. Tra i giovani semplicemente non è mai esistito un “popolo comunista” da riconquistare, non esistono comunisti “delusi”, o ritiratisi a vita privata, a cui infondere nuova fiducia. Non avevamo il fondo del barile del vecchio PCI da raschiare, potevamo solo attingere da forze nuove. Per questo, radicare l’organizzazione nella lotta, trasformare in comunisti parte degli elementi più avanzati che spiccavano dalle lotte di settori giovanili e studenteschi, non è stata un’opzione o un’intuizione felice di cui prenderci il merito, ma una scelta obbligata .. imposta dalle condizioni oggettive. Sono stati questo elemento spiccatamente generazionale e le sue implicazioni concrete a far sì che i giovani compagni maturassero per primi questa consapevolezza, e non una nostra particolare bravura”.

(3)Intendiamoci, a scanso di equivoci e spiacevoli incomprensioni. Nutro il massimo rispetto per la più parte dei militanti che si impegnano nei rispettivi gruppi o partiti comunisti, e che a tale militanza sacrificano tanta parte della loro vita. Ma abbiamo il dovere di dire loro, con modestia e soprattutto con argomenti convincenti, che il loro sacrificio rischia di essere vano, perchè indirizzato loro malgrado su un binario morto, alla fine del quale li attendono cocenti delusioni e conseguenti ripiegamenti. Soprattutto dobbiamo essere in grado di indicare loro una prospettiva e un progetto in positivo, senza di che la nostra critica suonerà alle loro orecchie solo fastidiosa e persino irritante.

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