di Andrea Catone
La Russia: semiperiferia capitalista
Impiegando le due categorie correlate di borghesia nazionale e borghesia compradora collochiamo la Russia all’interno di un sistema mondiale in cui essa è parte del gruppo di Paesi di capitalismo periferico dipendente. Per questi Paesi, un obiettivo avanzato, progressista e riconosciuto come tale dal movimento operaio internazionale, è la fuoriuscita dallo stato di dipendenza (economica, o economico-politica) con l’affermazione di una propria via di sviluppo autonomo. È questa una questione, al contempo, nazionale e di classe. La liberazione dalle catene dello sfruttamento dei lavoratori nei Paesi di capitalismo periferico dipendente richiede la costituzione di una stato nazionale autonomo. Finchè permane lo stato di dipendenza di periferia sfruttata dalla borghesia compradora a sua volta dipendente dall’imperialismo centrale, il lavoratore è sfruttato due volte, dai comprador e dagli imperialisti, come ci spiega Ho Chi Minh nel suo pamphlet giovanile, Il processo della colonizzazione francese1.
Ci è sembrato utile proporre qui lo studio di Renfrey Clarke e Roger Annis, animatori del sito New Cold War. Guidati dalle categorie leniniste dell’imperialismo, e sulla base di un’analisi della struttura economica, ampiamente corredata di dati e comparazioni statistiche – dal complesso industriale al settore bancario, dalla composizione della bilancia commerciale agli investimenti diretti all’estero – gli autori smontano la tesi secondo cui l’attuale Federazione russa post sovietica è un Paese imperialista. “Per i marxisti – scrivono gli autori – la capacità di discernere tra centro imperialista e Paesi della periferia e semi-periferia, – ovvero tra il capitalismo avanzato e la sua preda – rappresenta uno strumento indispensabile”. La Russia presenta un denso raggruppamento delle caratteristiche necessarie ad identificarla come parte della semi-periferia capitalista.
Il ruolo di Putin nella storia russa
A ben guardare, è proprio la valutazione della Russia di Putin una delle questioni più controverse all’interno del movimento operaio. Si sconta qui il mancato approfondimento, attraverso categorie marxiste, sulla crisi e implosione dell’Urss. Dopo una prima fase, immediatamente seguente al 1991, di conferenze, dibattiti, studi, la questione fu archiviata e scomparve dalla scena politico-culturale. Ma ancor peggio è accaduto per lo studio della Russia post-sovietica, sulla quale spesso e volentieri la sinistra ha assunto acriticamente narrazioni e categorie interpretative della liberaldemocrazia. In diversi casi si marchia il regime sociale russo come dominato dagli oligarchi, senza soluzione di continuità tra la fase della presidenza El’cin e quelle successive della presidenza Putin. Né si prova ad entrare nel merito del rapporto dialettico tra struttura economico-sociale e sovrastruttura politica nella Russia d’oggi. Né ancora si cerca di indagare con le lenti di Marx e di Lenin, di Mao e di Gramsci, sull’effettivo sistema della politica russa, sul processo di mediazioni ed equilibri interni dell’attuale gruppo dirigente della Federazione russa. Abbandonato il terreno dell’analisi marxista, si ricicla la pappa bell’e pronta degli apologeti della liberaldemocrazia, secondo cui la Russia sarebbe un Paese imperialista retto da un autocrate animato dall’ambizione neozarista di ricostruzione dell’Impero…
Per una valutazione non estemporanea del ruolo di Vladimir Putin nel processo della storia russa e mondiale, occorre una premessa metodologica, elementare ma spesso trascurata, che vale anche per tutti i leader dei Paesi aggrediti nell’ultimo trentennio dall’imperialismo Usa, da Saddam Hussein a Slobodan Milošević, a Mu’ammar Gheddafi: il metro di misura non può essere assoluto e destoricizzato, l’Idea, o il Mito della grande, nobile e pura guida del popolo. Oggi, ex post, undici anni dopo l’aggressione dell’Occidente e la vile esecuzione del suo capo, la Libia, in pieno caos politico, economico, sociale, sconvolta dagli scontri tribali, rivela con evidenza incontrovertibile quanto fosse storicamente progressiva la direzione del “dittatore” Gheddafi, che aveva riscattato il Paese dal dominio coloniale e costruito un ordine sociale e politico in cui la popolazione conviveva dignitosamente e godeva di un alto livello di welfare.
Per valutare il ventennale ruolo politico dell’attuale presidente russo, i comunisti, i marxisti, e tutti coloro che con onestà intellettuale guardano alle vicende umane come un complesso e non unilineare processo storico di emancipazione e liberazione, dovrebbero porsi la questione se, nelle condizioni storiche date, nella machiavelliana “verità effettuale”, e non in una situazione ideale immaginaria, la linea direttrice dell’azione politica messa in atto abbia nel suo insieme un carattere progressivo o regressivo. La Russia attuale non può essere messa a confronto con l’Unione sovietica pre-gorbacioviana, che, nonostante i limiti del “socialismo reale”, godeva di piena occupazione, un ampio welfare, e un rapporto (oggi sembra incredibile!) tra reddito minimo e massimo di circa 1 a 3. La Russia attuale va messa a confronto con la dissestata, umiliata e offesa Russia el’ciniana degli anni Novanta, preda delle scorrerie del grande capitale occidentale e degli “oligarchi” ad esso legati – un nuovo tipo di borghesia compradora – che avevano rapinato impunemente a man bassa la grande ricchezza sociale realizzata in 70 anni dal lavoro del popolo sovietico. Un Paese a pezzi, che con la sua struttura statuale federale, rischiava, come in Jugoslavia, ma alla decima potenza, la balcanizzazione, di cui la tentata secessione cecena e quella daghestana (settembre 1999) erano concretissimi inquietanti segnali.
L’ascesa di Putin alla direzione del Paese, con l’estromissione di El’cin, in guanti bianchi e con ponti d’oro, segna un significativo punto di svolta, arresta lo sfascio, avvia una ricostruzione non solo economica e sociale, ma anche culturale. Ma non c’è né il partito bolscevico né la rivoluzione socialista alle spalle. Il “Principe” (per ritornare a Machiavelli) deve operare nella situazione storica data, deve fare, come si dice, il pane con la farina che ha, con tutte le mediazioni e i compromessi del caso con la borghesia compradora degli oligarchi, con l’ideologia neoliberista imperante che aveva guidato i “riformatori” nella demolizione dell’economia sovietica, e anche con la Chiesa ortodossa e le diverse tendenze di una cultura nazionalistica che aveva coperto il vuoto lasciato dal tracollo politico e ideologico del Pcus, sottoposto negli anni della perestrojka a un bombardamento concentrico che ne rendeva schizofrenici i messaggi, sempre più incomprensibili e lontani dal sentire della popolazione.
Giuseppe Amata, che si avvale ampiamente delle categorie marxiste, ci dà nel suo testo, incentrato sull’analisi del rapporto tra crisi capitalistica e guerra, alcuni elementi essenziali per la comprensione del crollo dell’Urss e i passaggi successivi, quando, sull’onda delle contraddizioni suscitate dalla conduzione el’ciniana della Russia, emerge la figura di Putin, con una direzione politica – che nel corso del tempo si fa sempre più chiara e delineata – di riscatto della Russia dalla dipendenza dall’Occidente e dalle sue mire che tendono a ridurla e mantenerla nelle condizioni di semicolonia. Lo studioso offre in una rapida sintesi diversi spunti di riflessione sul ruolo assunto da Putin rispetto agli oligarchi.
La questione nazionale russa
Per contestualizzare e comprendere gli eventi attuali, la data cardine non è il 2014, col golpe di Euromajdan, che pure è una svolta essenziale, ma il 1991, la disgregazione dell’Urss, “la più grande catastrofe del XX secolo”, come ebbe a dire Putin.
Vi fu allora il più grande sconvolgimento sulla carta politica degli stati europei, non minore di quel che accadde in Europa alla fine della II guerra mondiale. Ma con la differenza che allora si definirono in conferenze internazionali, da Jalta a Potsdam, gli equilibri tra le potenze vincitrici. Si ebbe allora un riconoscimento reciproco, si costituì l’Onu con le sue regole e il Consiglio di sicurezza in cui sedeva l’Urss con diritto di veto. Era l’ordine di Jalta, non il migliore dei mondi possibili, ma quello che si fondava comunque su Conferenze internazionali che, sulla base dei rapporti di forza, avevano preso in esame l’assetto del mondo e ne avevano fissato i cardini, le linee guida. Jalta poteva aprire la strada sia a una collaborazione e coesistenza pacifica, o anche ad una contrapposizione, come fu per volontà angloamericana, con la guerra fredda, che comunque era figlia di un riconoscimento reciproco.
Il 1989-1991, da cui scaturì una nuova carta geopolitica dell’Europa – con ripercussioni a livello globale – non dette luogo invece a nessuna conferenza mondiale che definisse le coordinate, le regole del mondo che si andava a costituire. Gli Usa, nei loro documenti strategici si definirono i vincitori assoluti, la comunità europea si riposizionò come Ue col trattato di Maastricht, gli stati ex socialisti europei e la Russia rimasero alla mercé dei vincitori. Usa e Ue avviarono la conquista dell’Est (precursore fu l’Anschluss della Repubblica democratica tedesca da parte della Repubblica federale tedesca). Lavorarono di conserva: in genere la Nato inglobava prima i Paesi dell’est ed ex sovietici, che entravano poi nella Ue.
Negli anni 90 la scelta fu consolidata, con la prospettiva di sottrarre alla Russia ogni spazio disponibile, senza escludere la possibilità di inglobare anch’essa. L’aggressione Nato alla Jugoslavia (ricordiamolo: al di fuori di qualsiasi mandato Onu) fu per la Russia il superamento della linea rossa che portò alcuni mesi dopo al cambio nella direzione della Federazione, col passaggio della presidenza da El’cin a Putin.
La questione nazionale russa sorge sin dal 1991. Circa 25 milioni di russi si ritrovano dalla sera alla mattina cittadini di serie B, o non cittadini, in altri stati. E su questo enorme problema non c’è nessuna apertura dei vincitori occidentali della guerra fredda a una qualche soluzione, un qualche riconoscimento, ma solo la conferma di una politica espansiva, che riprendeva il sogno tedesco dell’espansione a est, Drang nach Osten. Nessuna attenzione della “democratica” Ue per le popolazioni russe discriminate nei Paesi baltici (in Estonia sono una consistente minoranza, il 25 per cento). Se la Cina ha subito, ad opera delle potenze imperialiste, il “secolo delle umiliazioni” fino al riscatto della proclamazione nel 1949 della Repubblica popolare cinese, di “anni delle umiliazioni” possiamo parlare per la Russia post 1991.
Nel trentennio che ci separa dalla dissoluzione dell’Urss le classi dirigenti occidentali hanno volutamente ignorato la questione nazionale russa, hanno anzi tentato di far leva sulle molteplici e numerose etnie e nazionalità della Federazione russa nel tentativo di disgregarla ulteriormente, hanno favorito il terrorismo “islamista”, e hanno indefessamente continuato ad allargare Nato e Ue ad est verso la Russia, contro la Russia. Hanno promosso tentativi di regime change con le rivoluzioni colorate provando ad attuarle nel cuore della stessa Russia.
Note:
1 Pubblicato in italiano per la prima volta da MarxVentuno edizioni, Bari 2022.
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