di Adriana Bernardeschi
La violenza contro le donne è sotto i riflettori – a dire il vero a intermittenza, nonostante il flusso ininterrotto di atti efferati, perché non sempre concentrarvi l’attenzione è funzionale all’informazione mainstream – e il femminicidio è l’unico omicidio volontario a non essere diminuito numericamente negli ultimi trent’anni. I fatti di cronaca di questo genere si susseguono con l’inquietante elemento aggiuntivo che è in calo l’età di chi li compie e subisce, a indicare che non si tratta di un qualche residuo di un passato patriarcale.
La drammaticità del problema non deve essere sottovalutata, né questi eventi vanno collocati nella categoria degli accidenti individuali e trascurati da chi fa una battaglia complessiva contro il sistema.
Partiamo dall’osservare la reazione diffusa agli atti di violenza di genere, di cui abbiamo un esempio recentissimo nell’omicidio di Giulia Cecchettin da parte dell’ex fidanzato. Tale reazione è, ovviamente e giustamente, di indignazione e sdegno. Ci sono state numerose mobilitazioni, in tutti i territori, nelle scuole, nelle piazze… Quando però la voce di chi manifestava si è declinata in una embrionale coscienza politica, andando oltre lo spontaneismo dello sdegno e la logica individualista della semplice sfera dei diritti, la repressione non si è fatta attendere.
Come dice Antonio Minaldi in un suo recente articolo, “la semplificazione degli slogan e l’impellenza delle mobilitazioni forse non rendono conto in maniera esaustiva delle peculiarità della situazione in atto. Il patriarcato in fondo ha più 10.000 anni di storia, essendo riferibile alla stanzialità e alla nascita dell’agricoltura, e poiché nulla si ripete identico nel tempo, bisogna capire a cosa ci riferiamo oggi, soprattutto rispetto ai processi che caratterizzano la modernità capitalista”.
Perché la lotta contro la discriminazione di genere (e contro tutti gli altri tipi di discriminazione) non sia ridotta a un urlo sterile, a una valvola di sfogo innocua e addirittura funzionale al sistema – incanalando la rabbia entro argini che ne impediscano l’esplosione rivoluzionaria – essa deve essere ricollegata al concetto di classe.
Il pensiero marxista è stato spesso accusato di avere trascurato la questione di genere, e il movimento comunista, nella sua storia e attualità, di essere, dal punto di vista della prassi, pervaso dal maschilismo radicato a fondo nei costumi della società e dunque “automatico” anche per chi lo aborre intellettualmente.
Mentre il secondo punto non è del tutto errato, anche se è sbagliato generalizzare e anche affrontarlo come staccato dal contesto culturale e storico, il primo non è corretto. In realtà, infatti, è stato proprio il marxismo a mostrarci la radice materialista dell’oppressione della donna, in relazione ai rapporti di produzione borghese e alla divisione in classi della società. Già nel Manifesto del partito comunista si legge: “Il borghese vede nella propria moglie un semplice strumento di riproduzione. Egli sente che gli strumenti di produzione debbono essere sfruttati in comune e, naturalmente, non può fare a meno di pensare che la sorte dell’uso in comune colpirà anche le donne”: si rileva, dunque la doppia oppressione (economica e di genere) che la donna subisce nella società borghese. Questo benché il capitalismo abbia, come viene spiegato sempre nel Manifesto, “lacerato senza pietà i variopinti legami che nella società feudale avvincevano l’uomo ai suoi superiori naturali”, distruggendo un vecchio mondo, l’organizzazione corporativa della produzione, e anche le “condizioni di vita patriarcali”.
Lo sfruttamento efferato di donne e bambini nelle fabbriche della rivoluzione industriale nonché le miserevoli condizioni di vita familiare a cui sono sottoposti sono denunciati in vari passaggi de La condizione della classe operaia in Inghilterra di Engels e del Capitale di Marx, dove viene analizzato il ruolo del lavoro gratuito delle donne dedicato alla riproduzione della forza-lavoro.
Insomma, l’analisi marxista della società ci dà gli strumenti per inquadrare in modo corretto il tema della discriminazione di genere e dell’emancipazione della donna da un’oppressione che si supera solo col superamento della società divisa in classi.
Anche Gramsci, nel suo pensiero, che è sempre inestricabilmente politico e personale e in cui la dimensione etica dei rapporti fra gli esseri umani è un substrato costante, dedica spazio a questo tema, verso cui si pone in modo più avanzato rispetto a molti quadri comunisti dell’epoca. Oltre a quanto contenuto nelle note Lettere dal carcere e nei Quaderni del carcere, è significativa una sua recensione all’opera teatrale di Ibsen (Casa di bambola), uscita su «L’Avanti»: Nora è per lui “una donna nuova, non più un mero oggetto sessuale e la nutrice dei figli, ma un essere umano a sé, con esigenze interiori proprie, la personalità e la dignità di soggetto indipendente”. L’emancipazione proposta da Gramsci va dunque ben oltre le rivendicazioni di carattere economico e di diritti civili, prerogativa del femminismo borghese.
Ritornando ai Quaderni, nell’ambito della sua analisi del fordismo, Gramsci sottolinea come la regolamentazione dei rapporti sessuali sia sempre stata una preoccupazione prioritaria di chi vuole progettare nuovi modelli di società. Anche qui, l’emancipazione economica e giuridica non costituiscono l’unico nodo di lotta, e col suo “umanesimo” marxista Gramsci fa un’accurata analisi della “quistione sessuale” nei rapporti sociali e umani.
Leggiamo nel Quaderno 22: “Quando la pressione coercitiva viene esercitata su tutto il complesso sociale (…) si sviluppano ideologie puritane che danno la forma esteriore della persuasione e del consenso all’intrinseco uso della forza: ma una volta che il risultato è stato raggiunto, almeno in una certa misura, la pressione si pezza (…) e avviene la crisi di libertinismo (…) che però non tocca altro che superficialmente le masse lavoratrici o le tocca indirettamente perché deprava le loro donne: queste masse infatti o hanno già acquisito le abitudini e i costumi necessari ai nuovi sistemi di vita e di lavoro oppure continuano a sentire la pressione coercitiva per le necessità elementari della loro esistenza”; e ancora: “Occorre insistere sul fatto che nel campo sessuale il fattore ideologico più depravante e ‘regressivo’ è la concezione illuministica e libertaria propria delle classi non legate strettamente al lavoro produttivo, e che da queste classi viene contagiata alle classi lavoratrici. Questo elemento diventa tanto più grave se in uno Stato le masse lavoratrici non subiscono più la pressione coercitiva di una classe superiore, se le nuove abitudini e attitudini psicofisiche connesse ai nuovi metodi di produzione e di lavoro devono essere acquistate per via di persuasione reciproca o di convinzione individualmente proposta ed accettata. Può venirsi creando una situazione a doppio fondo, un conflitto intimo tra l’ideologia ‘verbale’ che riconosce le nuove necessità e la pratica reale ‘animalesca’ che impedisce ai corpi fisici l’effettiva acquisizione delle nuove attitudini. Si forma in questo caso quella che si può chiamare una situazione di ipocrisia sociale totalitaria.”
L’oppressione di genere non è che una declinazione dell’oppressione di classe, una delle molte, e le forme di lotta specifiche, individualizzate per ciascun tipo di discriminazione (fra cui va ricordato il razzismo e la violenza contro i migranti), costituiscono un comodo “divide et impera” per una società, quella capitalista, basata appunto sull’oppressione e sullo sfruttamento.
La frammentazione delle lotte corrisponde, non casualmente, alla frammentazione della classe, conseguente alle nuove forme dei meccanismi di produzione, alla disgregazione dei lavoratori, alla penetrazione in profondità dell’individualismo nel senso comune, plasmato dall’ideologia dominante dell’autoaffermazione, dell’“individuo isolato in lotta con il mondo” (ancora Minaldi), fattore peraltro già in sé predisponente a una dinamica violenta nei rapporti interpersonali.
Sessismo, razzismo, classismo, oppressione neocoloniale sono sfaccettature della stessa struttura di potere e la battaglia deve essere unita e coordinata, se non vuole esaurirsi in rivendicazioni legate a un criterio puramente formale di uguaglianza, che non solo non va alla radice del problema ma ha addirittura effetti collaterali controproducenti, come per esempio l’estensione del modello maschile anche alla donna in un’idea distorta di emancipazione. Anche, sul fronte opposto, l’ultradifferenziazione identitaria, come quella delle rivendicazioni delle diverse forme di sessualità “queer”, pur nella positiva valorizzazione della diversità, incorrono nel problema dell’accrescere la frammentazione della classe che tutta insieme dovrebbe essere in lotta. Come scrive Laura Bazzicalupo in un suo articolo, “l’uso anti-discriminatorio del concetto di genere implica il rischio paradossale che la sua carica originariamente decostruttiva della naturalità della identità e delle gerarchie sessuali, abbia come esito politiche identitarie. Come avviene alle rivendicazioni del multiculturalismo, che irrigidiscono le identità culturali minoritarie per favorirne la protezione come gruppo individualizzato – in nome della tolleranza liberale –, sottraendolo alle turbolente esperienze di scambio culturale, di ibridazione”. E ancora: “La logica del ‘riconoscimento’ si iscrive nella tradizione del soggetto giuridico liberale, ma è anche consonante con la piega individualista della ragione neoliberale e non contrasta, anzi si accorda, con la valorizzazione capitalista”.
Per andare oltre il semplice sdegno per la violenza e le rivendicazioni limitate al campo dei diritti civili, è necessario dunque capire come la struttura patriarcale della famiglia, giustamente tanto vituperata in modo più o meno consapevole nelle mobilitazioni femministe, si innesta con il nostro sistema produttivo.
Ne L’origine della famiglia, della proprietà privata, dello Stato, Engels evidenzia come già nell’antichità vi fosse una divisione fra lavoro produttivo, ossia in grado di creare un surplus rispetto ai bisogni e quindi di portare profitto, e lavoro non produttivo, essenzialmente il lavoro domestico e di cura, assegnato alle donne. Il patriarcato si sviluppa come proiezione a livello sociale di tali rapporti economici, avvenuti nel primo nucleo produttivo della società (la famiglia), dove la donna, relegata al ruolo non produttivo, resta esclusa dalle prerogative politiche e di organizzazione della società, e anche all’interno delle mura domestiche non gode di parità rispetto all’uomo, soggetto “produttivo”. Questo scenario in cui la donna ricopre a livello sociale un ruolo marginale e di inferiorità è stato costante in tutti i modelli economici susseguitosi dallo schiavismo in poi, fino ad arrivare all’attuale capitalismo, in quanto costante è stata la predominanza del carattere produttivo del lavoro, il carattere oppressivo della classe dominante e lo sfruttamento da parte di quest’ultima delle classi subalterne. Un modello sociale ed economico basato sullo sfruttamento del lavoro (il lavoro degli schiavi, il lavoro domestico non retribuito delle donne, il lavoro dei salariati che vendono la propria forza lavoro per un compenso iniquo e non possono appropriarsi dei mezzi di produzione né del prodotto del proprio lavoro) si è potuto perpetuare nei secoli con l’appoggio di un modello culturale che legittima tali diseguaglianze.
Nel mutare dei meccanismi di produzione, però, anche questo legame fra capitalismo e società patriarcale è mutato. Con il superamento del fordismo e le successive nuove forme di organizzazione del lavoro, legate all’innovazione tecnologica al servizio del profitto, i lavoratori operano distaccati gli uni dagli altri, fisicamente e contrattualmente, e sono sempre meno netti i confini fra vita lavorativa a vita personale, in misura ancora più forte dopo l’avvento dello smart working e il suo diffondersi in epoca pandemica. Questi mutamenti hanno inciso anche sulla struttura familiare, sebbene il peso della riproduzione sociale non retribuita sia ancora prevalentemente a carico delle donne. Si può ipotizzare che l’individualizzazione della produttività, nella sua azione disgregatrice, abbia messo in crisi anche la struttura familiare. Quel che è certo è che il panorama, da questo punto di vista, è diverso da quello di cinquant’anni fa e la forma storica del patriarcato è mutata col trasformarsi delle forme del capitalismo, almeno nel mondo occidentale. Ciò non toglie, come dice Minaldi, che “non va in cantina […] quello che potremmo chiamare il modello antropologico maschile, fondato su relazioni umane e sociali stabilite sulla base dei rapporti di forza e sulle gerarchie di potere che ne conseguono”.
Limitarsi però a una denuncia astratta di questo modello maschilista, come fanno i diversi femminismi che non escono dall’ottica borghese e non mettono in discussione l’attuale struttura sociale e i suoi rapporti di classe, significa considerare quella sessuale e familiare come le uniche forme di oppressione che soggiogano le donne. Invece, la questione femminile non può essere astratta dalle condizioni socioeconomiche reali entro cui l’esistenza delle donne viene condizionata, dunque non la si può staccare dalla lotta di classe. Un femminismo che porti a una reale liberazione della donna non può che essere rivoluzionario e concorrere alla lotta per l’abbattimento di tutti i vincoli, strutturali e culturali, che nella società capitalistica subiscono le donne e tutti i soggetti oppressi.
Le conquiste “istituzionali”, sebbene positive, non sono che palliativi che non intaccano la stortura di fondo e la radice della violenza di genere, come la cronaca dimostra.
Attenzione però: non si deve per questo cadere in una logica positivistica in cui la questione femminile è delegata meccanicamente a “l’avvento della rivoluzione socialista”, e dunque nel disinteressamento rispetto a un tema che cui invece è urgente occuparsi, sul piano della lotta politica e sul quello della battaglia culturale.
Ritorno alla “classe” dunque, come substrato della questione di genere – come delle altre forme di discriminazione ed emarginazione –, in cui “lo spettro delle relazioni di potere evocato dal termine classe, di matrice storica, economica e sociale, non solo si allarga, ma muta il piano di consistenza, recuperando il significato marxiano originario di soggettivazione politica antagonista all’oppressione capitalista” (ancora Laura Bazzicalupo). Classe come elemento catalizzatore per spezzare le catene di tutte le forme di oppressione di questo sistema.
In merito a questa affermazione c’è da precisare che Marx definiva la classe non in base alla soggettivazione politica antagonista, non sussistente in sé ma tutta da costruire. La sua definizione si basava piuttosto in base al ruolo svolto nella produzione, che per lui è anche riproduzione della forza-lavoro. L’appartenenza della donna alla classe antagonista al capitalismo può essere quindi recuperata con riferimento al ruolo oggettivo della donna nella riproduzione, oltre che nella produzione in senso stretto. In tal modo non si darebbe per scontata la soggettività antagonista delle donne al capitale e si renderebbero invece opportune pratiche politiche idonee a costruire tale soggettività.
In un momento storico in cui il capitalismo in profonda crisi utilizza per sopravvivere la violenza verso i soggetti appartenenti al genere sbagliato, all’orientamento sessuale sbagliato, all’etnia sbagliata, alla parte del mondo sbagliata, in una logica di imperialismo feroce e di sfruttamento degli esseri umani su altri esseri umani (degli uomini sulle donne, dei bianchi sui neri, dei padroni sui lavoratori), la lotta di emancipazione delle donne non può non essere parte della lotta di emancipazione del genere umano da questo modello disumano di società.
Riferimenti:
Laura Bazzicalupo, Linee di genere classe e razza: introduzione ad una riflessione critica
Friedrich Engels, La condizione della classe operaia in Inghilterra
Friedrich Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata, dello Stato
Antonio Gramsci, La morale e il costume, in «L’Avanti», 22 marzo 2017
Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, quaderno 22, paragrafo 10
interno.gov.it/sites/default/files/2023-12/05_settimanale_omicidi_al_17_dicembre_2023.pdf
istat.it/it/violenza-sulle-donne/il-fenomeno/omicidi-di-donne
Karl Marx, Friedrich Engels, Manifesto del partito comunista, in “Opere scelte”, Editori Riuniti, 1966, p. 310 e 294
Karl Marx, Il capitale
Antonio Minaldi, Non è (solo) patriarcato, ma neomaschilismo individualista e neoliberista
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